L’angelo della morte (Es 11)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Il racconto della Pasqua è il centro del libro dell’Esodo, di cui copre direttamente quattro capitoli. Essi a volte si fanno un po’ contorti, anche perché non sono solo delle narrazioni, ma il fondamento della vita liturgica e della preghiera di Israele. In particolare, fondano liturgicamente una festa assolutamente centrale, che nel tempo ha raccolto in sé diverse celebrazioni nate precedentemente in tempi e luoghi differenti.

Le tre feste

  1. La Pasqua nomade.

Da una parte c’è una festa che si celebra in un giorno preciso dell’anno, il 14 del mese di Nisan. I mesi ebraici sono basati sui ritmi della luna: il primo giorno del mese coincide con il novilunio, per cui a metà mese splende la luna piena. Per evitare che, col tempo (e come accade con il calendario lunare islamico), i mesi finiscano con lo scivolare fuori dal loro contesto stagionale, il calendario ebraico riadatta la scansione lunare a quella solare tramite un complesso sistema di integrazioni, un po’ come succede con i nostri anni bisestili.

Questa festa «a data» (anche se sembra che in origine potesse essere celebrata solo quando la luna piena effettivamente si vedeva, cioè con cielo sereno) segnava per i pastori l’uscita dagli accampamenti invernali, più sicuri ma ormai sporchi e con poco cibo. Era il momento di partire in transumanza, confidando che nei pascoli del «deserto» fosse piovuto e ci fosse quindi speranza di vita ed erba fresca. Era un passaggio segnato dall’incertezza e dalla paura di brutte sorprese lungo il viaggio e all’arrivo. Spesso l’umanità esorcizza la paura anticipandola, quasi pagando un prezzo alla sfortuna. Per questo, prima di partire, i pastori sacrificavano un agnello nato nell’anno, simbolo della speranza di vita, quasi a garantirsi di aver pagato il conto con la morte. E poi consumavano il pasto che avrebbero mangiato per mesi da nomadi: senza comodità, finendo tutto quello che cucinavano, con erbe «amare» (cioè selvatiche, non coltivate), pronti a ripartire subito.

  1. La Pasqua sedentaria.

I contadini celebravano una festa diversa, al momento della mietitura dell’orzo. L’orzo nel Vicino Oriente matura tra marzo e inizio aprile, dipende molto dalle piogge invernali ma non viene minacciato dal calore dell’estate. È il primo cereale a spezzare il digiuno invernale. Non garantisce cibo per tutto l’anno (per quello diventa prezioso il grano di maggio-giugno), ma costituisce in qualche modo la promessa che il cibo ci sarà. Ecco perché in primavera la consuetudine è di purificare le madie, gettando tutti i cereali e le farine vecchie, per evitare che vi si annidino funghi e germi pericolosi per la salute. Ecco la celebrazione degli «azzimi».

Anche i contadini sono coscienti che questo buttare il cibo vecchio, che pure è passaggio di sanificazione doveroso, è un gesto rischioso, che chiede fiducia nel futuro. La festa col primo raccolto è già reale, ma rimanda a una festa maggiore, che si compirà, più o meno, cinquanta giorni più tardi, alla mietitura del nuovo frumento.

  1. La Pasqua storica.

In questo contesto si inserisce un terzo ricordo festoso, che non richiama i cicli della natura, ma un evento storico nel quale almeno alcuni gruppi di ebrei avevano vissuto un’esperienza di liberazione da un’oppressione mortale, dalla quale erano stati liberati dovendosi fidare di una promessa che li invitava ad attraversare i rischi della morte per approdare alla libertà. È il racconto principale dell’Esodo, che raccoglie intorno a sé, come sintesi, anche le altre esperienze.

Queste, che erano da tempo celebrate in autonomia, a un certo punto inizieranno a essere festeggiate insieme alla terza, con una certa forzatura da parte di tutte, ma anche con un reciproco riconoscimento: cioè che la logica di fondo restava la stessa, quella di una fiducia oltre i timori, in vista di un «di più» di vita. Chi le ha unite ha colto che, nella varietà delle esperienze che testimoniavano, condividevano lo stesso approccio di fiducia in una parola che chiamava a vivere.

L’ombra della morte

Su tutto questo si affaccia la presenza particolarmente inquietante e fastidiosa della morte. Non solo della morte che colpisce i nemici della vita, ma anche della morte degli innocenti.

Ancora una volta, e prima di avere qualche indicazione interpretativa in più, dobbiamo ricordarci che leggiamo testi che vengono da culture lontane dalla nostra.

Tutte le generazioni umane, da che ne abbiamo memoria, lamentano la decadenza dei tempi e la degenerazione dei costumi, rimpiangendo quando si era giovani e il mondo andava molto meglio. È una lamentela che troviamo già su manoscritti di cinquemila anni fa. Chi però guarda la storia umana un po’ più dall’alto, deve ammettere che questo pessimismo è sufficientemente infondato. Il nostro tempo è gonfio di ingiustizie, di violenze, di sopraffazioni, di morti innocenti e di ingiustizie non sanate. Ma parole come la dichiarazione dei diritti dell’uomo, che non accetta distinzioni per ragioni di sesso, di etnia, di età, di formazione, di convinzioni, sono parole che non erano state mai scritte fino a pochi decenni fa. Un tribunale internazionale che processi crimini contro l’umanità (anche nel rispetto delle leggi del proprio stato) è esperienza storicamente recente. Nel Vicino Oriente antico, chi veniva sconfitto sapeva di non avere nessuna legge internazionale a cui appellarsi, neanche solo a livello teorico. A livello aneddotico, una lingua povera di termini come l’ebraico biblico (circa 6.000 vocaboli) ha una ventina di sinonimi che indicano l’«avere paura». La presenza della morte era incombente sempre, ed era anche più facile da accettare nei confronti dei «nemici». Anche il percorso dei credenti ha faticato e ha avuto bisogno di tempo per cogliere che Dio non poteva amare solo una parte di umanità.

Il confronto tra Mosè e il faraone (ma sarebbe meglio dire tra il Dio d’Israele e il presunto dio in terra degli egizi) si presenta anche come uno scontro militare, e già all’inizio Dio aveva promesso agli ebrei che ne avrebbero riportato un bottino (Es 3,21-22), e così sarà (11,1-3).

Ma c’è una ragione in più che giustifica la morte dei primogeniti d’Egitto, agli occhi antichi.

Un mondo culturale diverso

Mentre leggiamo questi testi antichi, che pretendono di avere valore ancora per noi oggi, non dobbiamo mai dimenticarci che siamo costretti a fare ricorso a delle traduzioni. Non solo nel senso che quei testi sono scritti in una lingua che la maggior parte di noi non riesce a leggere, ma anche nel senso che vengono da un mondo culturale che non è il nostro. Pensiamoci: noi italiani siamo in grado di leggere la Divina Commedia senza traduzioni. Ma per lo più non la capiamo. Comprendiamo le parole, intendiamo le frasi, ma per penetrarne il senso abbiamo bisogno di note che ci spieghino quale modello teologico avesse presente Dante, a quali riferimenti letterari e simbolici si rifacesse, a quali sottintesi politici e contemporanei alludesse, solo allora possiamo cogliere meglio che cosa dica. Anche se parliamo la stessa lingua, non condividiamo più la stessa cultura, e questo rende la comprensione faticosa.

Il nostro approccio culturale, anche quando parliamo di spirito e di anima, è tendenzialmente razionale. Abbiamo bisogno di ragioni, di argomenti, magari anche di prove. Intuiamo che non tutto si esaurisce nella razionalità (abbiamo passioni, timori, speranze, e sappiamo che muovono gran parte di noi), ma il nostro approccio di fondo resta razionale. I più profondi tra noi riescono a mantenere, dentro a un’impostazione razionale e logica, lo sguardo di chi mira in alto, e ci affascinano; altri, che perdono il contatto con la concretezza, li pensiamo sognatori… o anche un po’ pazzi.

Il mondo del Vicino Oriente antico ragiona invece per simboli, per quadri ideali, per grandi sistemi. Le spiegazioni razionali lo lasciano freddo, se non si inseriscono in un contesto simbolico coerente.

Non siamo sbagliati noi o loro. Siamo diversi. E, per poterci capire, dobbiamo renderci conto che parliamo lingue culturali diverse. Il vero errore sarebbe pensare che quegli autori antichi scrivano come scriveremmo noi.

Ebbene, in quel contesto simbolico, la questione dei primogeniti assume un valore diverso.

Dio libera tutti?

Uno dei principi che attraversa il Primo Testamento è la consapevolezza che la vita è dono di Dio. L’uomo non ne ha il dominio. Ecco perché, quando all’umanità venne concesso di uccidere per nutrirsi (a partire da Gen 9), Dio stabilì che, simbolicamente, ci si dovesse astenere dal cibarsi di sangue, ritenuto la sede della vita (cfr. Lv 17,10-14; Dt 12,15-16). Un altro elemento simbolico che ricordava che Dio era il Signore della vita era il richiamo che ogni primizia, delle piante o degli animali, apparteneva a Dio. Per questo i primi frutti dell’anno erano dati in offerta a Dio (ad es. Nm 15,20-21; Dt 26,2) e anche i primogeniti degli animali, i quali potevano essere offerti in sacrificio o, a seconda della specie, essere riscattati con altri doni (ad es. Es 13,12-13). Solo l’uomo doveva obbligatoriamente essere riscattato, perché la sua vita è sacra.

Il riscatto comportava l’idea di entrare in una sorta di scambio di favori. Il primogenito avrebbe dovuto essere di Dio, che però lo lasciava vivere in cambio di un’offerta più piccola che in qualche modo manteneva il beneficiato in una condizione di privilegio. È il segreto dello scambio commerciale vicinorientale, nel quale la compravendita è soltanto una parte della relazione personale che si viene a creare. Pagare completamente un commerciante significherebbe concludere lo scambio, decidere di chiudere la relazione e di non avere più nulla a che fare con lui.

È questo il modo con cui un lettore vicinorientale antico avrebbe colto la morte dei primogeniti d’Egitto: certo, è un atto di guerra, crudele come in tutte le guerre. Ma è anche l’atto con cui Dio riconosce all’Egitto la sua libertà di regolamentarsi senza Dio. Il Dio d’Israele se ne va dall’Egitto senza lasciare debiti né crediti, prendendosi semplicemente il suo. E il suo è rappresentato dai primogeniti. Con la loro morte, Dio riconosce di non avere più conti aperti, l’Egitto è libero di fare la sua vita senza di lui.

A noi suona una crudeltà inutile, alle menti antiche risuonava come una forma, magari cruda, con cui Dio riconosceva la libertà degli altri, e non imponeva loro la sua presenza. Persino ai nemici.

Angelo Fracchia
(Esodo 06 – continua)

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