Perù. La bianca che voleva farsi Ashaninka

Lima: incontro con una donna speciale

Italiana per nascita, tedesca per matrimonio, peruviana per adozione. Etnologa con alle spalle molti anni vissuti tra le popolazioni indigene del Perú. Un’avventura affascinante, vissuta con una passione e un entusiasmo incredibili. Lei si chiama Maria Heise Mondino. Siamo andati a trovarla nella sua casa di Lima.

Lima, quartiere di Monterrico. Maria abita in una bella casa con il figlio, la moglie di lui e la nipotina. «Datemi del “tu” , così mi sento meno vecchia». Maria è nata a Parma nel 1928, ma la sua freschezza mentale farebbe invidia ad un giovane.

Maria, vediamo se abbiamo capito bene: tu sei italiana di nascita, tedesca per matrimonio e peruviana per adozione… È così?
«È proprio così. Conobbi mio marito ad Innsbruck, in casa di un’amica. Mio padre non era tanto contento di avere un fidanzato tedesco per sua figlia dato che era stato prigioniero dei tedeschi. Alla fine cedette, noi ci sposammo e andammo a Berlino dove mio marito era assistente all’Università. Rimasi in Germania dal 1956 al 1978.
Laureata in lingue straniere alla Bocconi di Milano, io volevo insegnare, ma in Germania la mia laurea non era accettata. Dopo un periodo di depressione, decisi che dovevo ricominciare a studiare, anche se avevo già 41 anni.
Scelsi etnologia (1) con specializzazione su Centro e Sud America».

Come venne l’idea di venire in Perú?
«All’epoca davano delle piccole borse di studio per chi stava facendo ricerche particolari. Io presentai un mio progetto: volevo andare a vedere come funzionava l’educazione nella sierra peruviana per i bambini che parlavano quechua. Io sapevo che l’educazione era impartita soltanto in spagnolo. Lo accettarono e il 9 febbraio dell’anno 1973 partii con destinazione Huanta, una delle province di Ayacucho».

Come fu l’impatto con la gente che parlava quechua?
«Forte. Io avevo studiato la lingua a Berlino, ma mi mancava la pratica. Però provai subito una grande simpatia per loro. Era un villaggio di contadini molto poveri che lavoravano quasi come schiavi nelle aziende del luogo.
  Quella mia prima esperienza fu tanto interessante che ci tornai per alcuni mesi anche l’anno seguente.  E poi ancora nel 1977. Infine, la cooperazione tedesca mi offrì di seguire un progetto sull’educazione bilingue a Puno».

Si dice che a Puno faccia sempre freddo…
«Tanto che gli abitanti stessi giocano sulla parola estación, che significa stagione ma anche stazione dei treni. A Puno – dicono – ci sono 2 estaciones, quella invernale e quella del treno.
Verso mezzogiorno la temperatura sale anche a 22-23 gradi, ma la notte scende terribilmente. Puno è a quasi 4.000 metri d’altezza. L’unica cosa bella è il Lago Titicaca. In compenso, la regione ha una grandiosità e paesaggi incredibili.
Io andavo in lungo e in largo con un Wolkswagen per cercare le scuole che potessero entrare nel progetto».

Le lingue quechua e aymara

Dove si parlano il quechua e l’aymara?
«L’aymara si parla da Puno verso la parte boliviana, mentre il quechua si parla da Puno verso Arequipa».

Ma che tipo di lingue sono?
«Le due lingue hanno un’origine comune. Sono lingue agglutinanti, che hanno la particolarità di essere formate da tanti pezzettini che si uniscono tra di loro.
Si aggiungono questi suffissi che danno il significato alle parole. Suffissi locativi, di direzione, di movimento, eccetera.
Come tutte le lingue amerindie, anche il quechua e l’aymara sono molto differenti dalle lingue indoeuropee. E sono molto differenti anche tra loro. Per esempio, molto diversa è la lingua che si parla nella selva tra gli ashaninka, con cui io lavorai dopo l’esperienza di Puno».

Dalla sierra alla selva. È un bel passaggio…
«Passai in effetti da 4.000 metri sul livello del mare alla foresta, dove  l’ambiente vegetale ed animale era completamente diverso. Per me la selva è di una bellezza straordinaria.
All’epoca poi era incontaminata o quasi. Si arrivava al Rio Tambo con un piccolo aereo Cesna».

Per seguire un progetto di educazione bilingue con chi…
«Con gli ashaninka, popolazione che parla una lingua completamente diversa dal quechua e dall’aymara. Gli ashaninka sono il gruppo più numeroso della selva: si calcola che siano 50.000. Assieme agli aguaruna, sono un gruppo particolarmente combattivo. Difesero il loro territorio fino all’inizio del Novecento, quando entrò l’esercito e con esso commercianti e faccendieri».

Gli ashaninka e Sendero Luminoso

Gli ashaninka divennero famosi durante gli anni di Sendero Luminoso. Tu cosa ricordi di quel periodo?
«Arrivarono in un caldissimo pomeriggio. Il villaggio era semideserto perché la gente era uscita al mattino presto con le 2 canoe. Dalla mia capanna intravidi la canna di un fucile. Andai fuori e trovai almeno 7 persone che mi puntavano addosso i fucili. “Noi siamo dell’esercito di liberazione Sendero Luminoso”, dissero. “Venga con noi che dobbiamo interrogarla”.
Va bene, dissi. Poi, aggiunsi: “Mi mancano le mie sigarette. Sono sul mio tavolo. Se non ci credete, venite con me”.  “Vada, vada, signora”, risposero.
Fui di una sfacciataggine immensa. E ancora oggi mi chiedo “ma come ho fatto?”. Presi dunque le sigarette e poi li seguii fino alla Posta medica. Era tutta pitturata di rosso e avevano issato due bandiere rosse. Due capi, a volto scoperto, cominciarono a farmi domande.
Faceva un caldo terribile, ma uno dei due indossava uno di quei copricapo di lana che coprono anche le orecchie. Mi faceva una pena, ma decisi che era meglio non dire nulla.
Assieme a me, avevano catturato anche un collega, che sembrava piuttosto spaventato, e soltanto due ashaninka, dato che tutti gli altri erano riusciti a dileguarsi nella foresta.
A questi due, che quasi non parlavano spagnolo, chiesero: “Ma come vi tratta questa signora?”. Io pensai che si metteva male per me, ma loro risposero: “Bene, bene”.
C’era un gruppo di uomini di Sendero, molto giovani (avranno avuto 17 anni), che parlavano quechua. Detto per inciso, l’odio degli ashaninka verso quelli della sierra è rimasto anche perché loro li associano a quelli di Sendero.
Il capo politico, quello che faceva i discorsi, disse: “Noi non rubiamo niente. Accettiamo soltanto delle donazioni”. Mentre parlava, vidi uno dei ragazzi che se ne stava andando con la mia valigetta. “Guardi, guardi”, dissi al capo, che subito intervenne facendosi portare la valigetta. Me la fece aprire. C’erano una macchina fotografica e un impermeabile, cioè due strumenti di lavoro. Ed una stecca di sigarette. Io di nuovo sfacciata dissi: “Facciamo metà per uno”. Il capo accettò. Aprì subito un pacchetto, mi offrì una sigaretta e me l’accese con un fiammifero.
Alla fine, ci dissero che se ne andavano e che dovevamo non uscire di casa per mezzora».

«Quella gringa è stata fortunata»

«La sera raccontammo l’avventura agli ashaninka tornati al villaggio. Decidemmo che era opportuno andarsene a Lima per almeno 15 giorni. Perché da una parte potevamo essere accusati dall’esercito di essere collaboratori di Sendero, dall’altra i guerriglieri avrebbero potuto tornare.
Fummo fortunati. Il giorno dopo arrivò un’altra colonna di Sendero, ma questa era molto più dura della precedente. “Dove sta la gringa?”, domandarono subito. “È andata a Lima”, risposero gli indios. “È stata fortunata, perché l’avremmo ammazzata e con lei tutti gli altri”.
Questa vicenda con Sendero segnò però la fine del progetto. Avevo il cuore a pezzi dal dispiacere.
Tutta la zona del Rio Tambo da allora fu sotto il controllo di Sendero per alcuni anni. Gli ashaninka furono costretti a lavorare per i guerriglieri.
In condizioni simili alla schiavitù, dato che la quasi totalità di loro era contro i senderisti, anche a causa del loro spirito libero e indipendente che contraddistingue i popoli della selva e gli ashaninka in particolare. Era come mettere un uccello in gabbia. Sopportarono per alcuni anni.
Un giorno arrivò nel mio ufficio di Lima, Emilio Rios, capo degli ashaninka del Rio Tambo. “Sono venuto per dirti che da ora siamo in lotta armata contro Sendero”.  “È un suicidio”, gli dissi subito. Voi non avete armi. “Abbiamo i fucili con cui andiamo a caccia. Abbiamo i nostri archi e le nostre frecce. Ma non possiamo più sopportare. Per convincerci ad obbedire ai loro ordini, sono arrivati ad uccidere con il machete le nostre donne incinte. Fanno togliere il feto ed obbligano i familiari a mangiarlo.
Fecero anche questo per rompere la loro resistenza.
Cominciò allora una lotta terribile, veramente terribile, senza esclusione di colpi (anche fino al taglio delle teste), tra Sendero e gli ashaninka del Rio Tambo. Però alla fine gli ashaninka riuscirono a respingere Sendero. Fu la sola popolazione indigena, che con le sue sole forze riuscì a vincere, a obbligare Sendero ad andarsene. Fu una pagina eroica di  resistenza, mai adeguatamente ricordata».

Razzismo alla peruviana: «Bianco è meglio»

 Nella tua trentennale esperienza peruviana non hai visto il paese diventare meno razzista?
«No, il Perú continua ad essere razzista. Una cosa che m’indigna riguarda il colore della pelle: più chiaro sei, più vali…».

È ancora molto diffusa questa idea?
«La cosa che più mi scandalizza è che l’idea è diffusa anche fra le classi più modeste. C’è una signora che viene qui tutti i giorni. È un po’ robusta, sui 45 anni.  Un giorno, visto che era nato il suo nipotino, le ho chiesto: “Signora Carmen, com’è il suo nipotino?”. “È molto carino – mi ha risposto -. Assomiglia tutto a me. È bianco come me!”. Non avevo mai osservato il colore della sua pelle e ti posso assicurare che non è tanto bianca. Ma lei ne è orgogliosa… Ha un colore normale, ma lei si vede chiara. Probabilmente questo suo pensare di essere l’aiuta a superare un complesso di inferiorità».

In questi anni i popoli indigeni sono stati protagonisti in America Latina. Come in Bolivia, in Ecuador, in Cile. È stato lo stesso in Perú?
«Non vedo che ci sia questo fenomeno in eguale misura anche qui in Perú, il movimento indigeno è ancora troppo debole».

E diviso?
«Sì. Forse diviso, perché Lima è sulla costa. A Lima c’è tanta popolazione indigena, ma non si fa sentire come dovrebbe».

Eppure in questo paese un indio è stato eletto presidente della Repubblica. Ci riferiamo ad Alejandro Toledo (2001-2006)…
«Per me Toledo è stato una grande delusione. Da quando io sono in questo paese, il migliore è stato Velasco».

Maria, sui libri e su internet si legge che Velasco (1968-1975) più che un presidente fu un dittatore… Ai nostri giorni, lo stesso trattamento viene riservato al presidente venezuelano Hugo Chávez…
«Velasco era molto ingenuo, mal consigliato, male accompagnato. È stato quello che ha fatto la riforma agraria e la riforma educativa, fondamentali… Ma la sinistra invece di appoggiarlo fece di tutto per boicottare le sue riforme e farlo cadere. Imperdonabile.
Ricordo che io arrivai in piena riforma agraria che prevedeva la distribuzione delle terre ai contadini.
Per farti capire come fossero la maggioranza dei latifondisti, ti racconto cosa accadde ad una festa.
C’era una ragazza che teneva un bambino con quei fazzoletti tipici della sierra. Mi disse che nella casa non c’era posto e che avrebbe dormito fuori. Eravamo a duemila metri, e di notte faceva freddo…
Mi venne in mente che avevo ancora il mio sacco a pelo e volevo darglielo. Ma la padrona saltò su come una furia. “Tu creeresti un precedente deleterio… Se tu fai questo, io ho conoscenze molto in alto e ti faccio buttare fuori dal Perú. Ti faccio negare il permesso di soggiorno”.
La ragazza ha dormito fuori coprendosi solo con una coperta…  Io mi sono detta: che mostri che sono queste proprietari terrieri. I loro lavoratori li consideravano poco più che animali».

Insomma, la riforma agraria di Velasco era una cosa necessaria. E quella educativa?
«Un’altra cosa che m’indignò fu l’affossamento della riforma educativa, che era stata elaborata dai migliori pensatori ed educatori del Perú.
Un giorno mi invitarono ad una riunione di maestri. Si cominciò a leggere:  primo articolo bocciato, secondo bocciato, eccetera. Non si discuteva nulla perché arrivava tutto dalla riforma di Velasco. Poi si arrivò ad un articolo che diceva: si fa obbligo a tutti i maestri del Perú di conoscere una lingua veacola. Allora chiesi la parola.
“Guardate – dissi loro – che questo articolo sarebbe a favore dei vostri fratelli campesinos, contadini che soffrono tanto perché i maestri non sanno la loro lingua. Quindi, questo articolo non lo potete bocciare”.
Invece, tutti in coro gridarono: “No, no. Dal governo di Velasco non c’è da aspettarsi nulla di buono”. Mi venne voglia di dire una brutta parola… Invece, salutai e me ne andai».

Rimanendo sui presidenti di questo paese, nel 2006 i peruviani hanno rieletto Alan García, anche se la sua prima presidenza era stata disastrosa…
«Altro che  disastrosa era stata… C’era un’inflazione a tre cifre… mensili. Sicuramente la cattiva gestione dell’economia da parte di Alan García portò alla vittoria di Fujimori, che era sconosciuto all’epoca…
Pensa che Fujimori abitava nella casa di fronte…  E già a quel tempo era separato da sua moglie, Susanna, un’architetta. Lui veniva qui a vedere i suoi figli ogni 15 giorni.
Un giorno, appena rientrata dall’ Europa, vidi che c’era un cartello fuori della loro casa: in vendita. Allora chiesi in giro e mi dissero che erano andati via perché lui si era messo in politica. Pensavo potesse mirare ad essere rettore universitario, deputato, senatore e invece un bel giorno me lo ritrovai presidente».

Ma Fujimori che tipo di persona era?
«Ricordo che un giorno, forse in campagna elettorale, voleva andare per il Rio Ene. Lui arrivò con una grande carta e disse:  “Voglio andare lì con amici evangelici” (si era messo con le sette evangeliche). Gli dicemmo che era molto pericoloso andare perché era area di Sendero, ma lui insistette e andò con l’elicottero. Lo incrociai tempo dopo e gli chiesi com’era andata. Lui disse: bene. Ancora oggi non so perché fosse andato là e per cosa. Forse aveva dei traffici anche con Sendero…
Comunque, Fujimori era una persona poco appariscente».

E di Alan García che puoi dirci?
«Non l’ho conosciuto di persona, ma non mi è mai piaciuto.
Penso che ad un certo punto ci sia stato un grande imbroglio. Alan García doveva essere processato, ma lui scappò in Francia. Poi, negli ultimi giorni del governo Fujimori, lo graziarono.
Alan García è tornato e ce lo siamo ritrovati prima libero, poi addirittura presidente. Che vergogna. Proprio un bel regalo del signor Fujimori. E adesso io mi domando se Alan García, per ricambiare quel regalo, non farà tornare Fujimori in libertà».

Appunto… Se Alberto Fujimori tornasse libero e potesse ripresentarsi alle elezioni, quanti lo rivoterebbero?
«Purtroppo molta gente, io penso. Ci sono tanti fujimoristi anche fra le classi medio-alte… Andava molto bene, perché ha fatto le strade, faceva regali a tutti, magliette con il suo nome, aveva ristabilito l’ordine… Era un grande populista!».

Anche nella selva le donne…

Tu hai raccontato delle tue esperienze tra gli indigeni. Che ci dici della condizione delle donne indigene, oggi?
«Che anche nelle comunità indigene le donne sono quelle che lavorano più di tutti e che anche gli uomini della selva sono dei macisti.  Gli abbandoni della famiglia da parte dell’uomo sono frequenti e la donna è quella che paga e lavora. Poi la vita vuole che arrivi un altro uomo, lei si illude che possa andare diversamente e nascono altri figli. Poi anche questo se ne va e lei continua a mandare avanti da sola la famiglia…
Mia figlia ha lavorato qui nella salute pubblica, come ostetrica e nei programmi infantili. Quando tornava a casa, raccontava delle cose pazzesche.
Mi raccontò ad esempio di un uomo, compagno di una donna che aveva una figlia 14enne, di cui lui abusava. La bambina rimase in stato interessante. Ma il brutto della storia è che la mamma non buttò fuori casa l’uomo, ma la figlia.
Quando tornava dal lavoro, mia figlia aveva una rabbia… In particolare verso gli uomini…».

«Valiamo per quello che facciamo»

Maria, per concludere, sono 30 anni che ti sei stabilita in Perú. E molti di essi li hai trascorsi a sostenere le istanze indigene. Cosa vorresti dire per chiudere questa lunga intervista?
«Che credo nella popolazione indigena, nei suoi diritti. Credo nell’idea dell’interculturalità della quale tutti parlano ma nessuno sa cosa vuol dire. Nell’idea che tutti valiamo uguali, valiamo per quello che facciamo, non per il colore della nostra pelle. Che se una persona ha una cultura differente dobbiamo cercare di capirla e non pensae male perché è diversa dalla mia. Questo è un errore fondamentale che la gente fa. Ci sono tanti preconcetti, tanto razzismo…». 
Grazie , Maria.  

di Paolo Moiola

L’infinita lotta per la terra

Un sogno che non si avvera

È una pubblicità che rimane nella testa quella della Ong Mani Tese: c’è la suola di uno scarpone da lavoro su cui è rimasta attaccata della terra e sopra una frase tanto significativa quanto lapidaria: «Terra di proprietà. In America Latina milioni di contadini possiedono solo la terra che rimane sotto le loro scarpe».
Passano gli anni, ma il problema della proprietà e della concentrazione delle terre rimane quasi ovunque insoluto. Neppure il presidente brasiliano Lula è riuscito nell’intento di varare una seria riforma agraria che portasse ad una distribuzione delle terre. Anzi, ha fatto arrabbiare sia lo storico movimento dei semterra che gli indios dell’Amazzonia (vedi articolo a pagina 45). Identiche situazioni si riscontrano in Argentina, Ecuador, Colombia e su verso nord fino al Guatemala.
In Perú, in vista della prossima entrata in vigore  (1 gennaio 2009) del discusso «Trattato di libero commercio» (Tlc), il 20 maggio 2008 il governo del presidente Alan García ha approvato il decreto legislativo 1.015 con cui si riduce – dal 66,6% al 50% dei voti dei membri della comunità campesina o indigena – il consenso necessario per vendere o dare in concessione le terre comunitarie. Addirittura, la percentuale del 50% non dovrà più essere calcolata sui membri effettivi delle comunità, ma soltanto sui partecipanti all’assemblea, con il rischio quindi che decisioni di vitale importanza vengano prese da una minoranza.
Il decreto 1.015 è dunque un tentativo esplicito di aprire la strada alle imprese e alle multinazionali, in violazione dei diritti delle comunità campesine ed indigene della sierra e della selva.
D’altra parte, la filosofia ultra-liberista del presidente Alan García era stata già manifestata. In un articolo pubblicato su El Comercio (1), il principale quotidiano del paese,  García accusava chi non consente lo sfruttamento delle risorse del Perú. In primis, dell’Amazzonia. Nonostante l’età e l’esperienza, certi presidenti non migliorano mai. Alan García è certamente uno di questi: fu disastroso durante la sua prima esperienza di governo, oggi prosegue su quella stessa strada.

di Paolo Moiola

Note:
(1)  El síndrome del perro del hortelano, pubblicato su El Comercio del 28 ottobre 2007.

Popoli indigeni ed identità linguistica

¿Runasimita rimanquichu?  

Si chiamano Hilaria Supa Huaman e Maria Cleofé Sumire de Conde sono due donne elette al Congresso peruviano per il partito nazionalista di Ollanta Humala (1). Entrambe provengono dal dipartimento del Cusco e soprattutto sono quechua. Nell’agosto del 2006, le due congressiste sono salite agli onori della cronaca nazionale a causa delle polemiche suscitate dalla loro scelta di giurare in lingua quechua anziché in spagnolo. 
Il quechua (runasimi, nella terminologia nativa), lingua nativa americana, è parlata da circa 10 milioni di persone in vari stati sudamericani: Perú, Bolivia, Ecuador, Colombia (meridionale), Argentina (nord-occidentale), Cile (settentrionale). Fu lingua ufficiale durante l’impero Inca. Per importanza, il quechua precede altre due lingue native, l’aymara e il guaraní.
In Perú, il quechua è idioma ufficiale accanto all’aymara e allo spagnolo. È parlato da circa 3 milioni di peruviani (su 28 totali). Tuttavia, gode di scarsa considerazione e rispetto, come dimostra la vicenda delle due congressiste, forse perché è parlato soprattutto da gente di bassa condizione sociale (indigeni, contadini, donne).
¿Runasimita rimanquichu? ¿Hablas quechua? (2) Parli quechua?

di Paolo Moiola

Note:
(1)  Su Ollanta Humala si legga: Paolo Moiola, Ollanta e Nadine, MC marzo 2008.
(2)  Abbiamo preso a prestito il titolo da un interessante articolo di Hildegard Willer, pubblicato su Noticias Aliadas / Latinamerica Press, 25 aprile 2007.

Paolo Moiola

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