Un’India per soli indù.

Il nazionalismo induista contro le minoranze

© Manpreet Romana / Afp

Dopo dieci anni dagli assalti anticristiani avvenuti nello stato di Orissa, la situazione non è migliorata. Anzi. L’ideologia nazionalista indù, al potere dal 2014, sembra voler soffiare sul fuoco. E le minoranze, non solo quella cristiana, hanno sempre più paura.

Il 23 agosto del 2008, nello stato dell’Orissa, nell’India orientale, scoppiò la peggiore persecuzione contro i cristiani della storia del paese. Sono passati più di dieci anni da allora, eppure continua a essere forte la difficoltà indiana di mantenere l’equilibrio tra il progresso, il particolarismo e i suoi ideali di convivenza e nonviolenza.

In quei giorni di violenza che costrinsero alla fuga 50mila individui e provocarono un centinaio di morti, la devastazione delle abitazioni dei cristiani e dei loro luoghi di preghiera, l’esproprio delle loro terre e la confisca dei loro beni dimostrarono che le forze di ispirazione religiosa induista, connesse anche a interessi economici e di potere, erano in grado di operare nell’impunità. Infatti, non solo mancò un’opera di prevenzione da parte delle istituzioni, ma ci fu anche un intervento tardivo e parziale delle forze dell’ordine per fermare le folle di indù che, in diversi casi, provenivano da altri distretti e persino da altri stati dell’India.

(Photo by DESHAKALYAN CHOWDHURY / AFP)

Impunità e paura

Sul piano della giustizia, l’impunità su ampia scala ha segnato finora le decine di processi avviati contro presunti esecutori e organizzatori delle violenze del 2008. La propaganda induista descrive quegli eventi come reazione spontanea all’uccisione del leader estremista indù Swami Laxmanananda Saraswati, della quale peraltro si erano da subito dichiarati autori i guerriglieri maoisti attivi nella regione.

Per gli avvocati e gli attivisti che ancora oggi si occupano di sostenere le vittime, la maggioranza dei crimini non sarebbe registrata correttamente dalla polizia e quelli già passati in giudicato si sono risolti perlopiù in mancate condanne.

Il sistema di tribunali speciali che giudicano con rito abbreviato ha registrato qualche successo, ma l’isolamento geografico della zona, il clima di paura diffusa, le intimidazioni e minacce, le manifestazioni organizzate addirittura all’esterno del tribunale, hanno spinto molti testimoni al silenzio o a una verità parziale e a un basso profilo giudici e legali.

La situazione di rancori e di sospetto e il rischio sempre presente di nuove violenze rendono l’impegno per la giustizia assai difficile. D’altra parte, quando su dodici giudizi per omicidio, solo uno si è chiuso con una condanna, pace e riconciliazione restano obiettivi lontani.

Vecchie e nuove logiche di sottomissione

Come sottolinea John Dayal, attivista cattolico tra i più accesi nel contrastare l’offensiva dei radicali indù, «l’impegno settario degli estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni, e il distretto di Kandhamal è stato da loro scelto per il suo isolamento e per il significato che ha per la popolazione cristiana.

Obiettivo immediato di quelle violenze era di estendere l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti, quello finale di rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene per poterle così del tutto asservire alle vecchie logiche castali e alle nuove logiche del potere economico e politico».

Nonostante l’attenzione della comunità internazionale e della Chiesa non siano mai mancate, nulla mostra, a distanza di dieci anni, che la situazione si sia modificata, se non di facciata.

Ancor più dopo la vittoria dei nazionalisti induisti nel maggio 2014 sotto la guida di Narendra Modi, leader del Bharatitya Janata Party (Bjp). I nuovi attori istituzionali hanno portato maggiore impunità per gli estremisti e legittimazione ufficiale a iniziative come la riconversione all’induismo, la proibizione della commercializzazione e del consumo di carne bovina, il rafforzamento dei tradizionali consigli di villaggio e altro, rafforzando il grande progetto di un’India per soli indù.

www.flickr.com/photos/adamcohn/45461015822/

Induità e discriminazioni

La dottrina dell’hinduttva (induità) è al centro degli interessi e delle azioni della maggioranza politica che guida, da oltre quattro anni, il governo centrale e sempre più stati e territori dell’immenso paese asiatico, vasto dieci volte l’Italia e con una popolazione di 1,35 miliardi di individui all’80 per cento di fede indù.

Dopo decenni di governo pressoché ininterrotto del Partito del Congresso, ispirato dagli ideali indipendentisti e gandhiani, ora, il partito confessionale filoinduista Bjp propone una cittadinanza piena ai soli indù, lasciando alle altre comunità religiose la scelta tra conversione, discriminazione ed esilio.

Difficile valutare i risultati delle campagne di conversione che hanno interessato e ancora interessano milioni di indiani. Per molti di essi si tratta di una «riconversione»: storicamente il cristianesimo e, in misura minore, l’islam e il buddhismo, sono rifugio di indù che sfuggono ai limiti e agli abusi del sistema castale, centrale nell’induismo.

L’induizzazione procede erodendo la consistenza delle fedi che nei secoli sono nate per scissione dall’induismo, usando incentivi e pressioni per promuovere l’identità indù, mentre le leggi anticonversione e la tolleranza verso i gruppi radicali e xenofobi che si appoggiano all’induismo per ottenere benefici e potere, rendono difficoltose la pratica e l’esistenza stessa sul territorio indiano delle religioni considerate «straniere» come l’islam e il cristianesimo.

I discorsi d’odio dei leader

A confermare il ruolo della politica filoinduista in una situazione di crescente tensione, ci sono i dati diffusi qualche mese fa da New Delhi Television (Ndtv), dai quali emerge che i responsabili di «discorsi d’odio» registrati dall’inizio della legislatura che si avvia al termine il prossimo anno, sono stati per il 77 per cento esponenti del Bjp.

Nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti. Ad esempio, contro la ministra per le Industrie agroalimentari Niranjan Jyoti, già abituata a proclami sopra le righe, che in una dichiarazione pubblica ha affermato che gli indù sono da considerarsi discendenti del dio Rama, mentre gli altri – musulmani, cristiani, sikh, jain, buddhisti, parsi, atei – sarebbero dei «bastardi».

Che dire poi di Yogi Adityanath, ora capo del governo nel più popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh, secondo il quale per ciascuna donna indiana sposata a un musulmano e convertita all’islam, gli indù dovrebbero sposare con la forza cento donne musulmane e convertirle come ritorsione?

© Un photo / Mark Garten

Dal divieto di conversione alle «guerre delle mucche»

Preoccupa che questioni un tempo considerate anacronistiche e innocue dalle stesse minoranze, siano oggi diventate strumenti di dominio dell’induismo estremista.

L’accusa di proselitismo nei confronti dei cristiani ha alimentato l’ondata di provvedimenti legislativi per proibire ogni iniziativa che incentivi o forzi gli indù a un cambio di fede. Anche l’attività di sacerdoti, religiosi, pastori nelle chiese è stata limitata fortemente, e addirittura nelle scuole e nelle istituzioni socioassistenziali avviate o gestite da cristiani.

Pesa invece sui musulmani l’accusa induista di «jihad matrimoniale», ovvero di perseguire una strategia di matrimoni con donne indù al fine della conversione e di avere una prole ampia allo scopo di arrivare al sorpasso demografico dei musulmani sugli indù.

Soprattutto tra i musulmani si contano le vittime della «guerra delle mucche» dichiarata dai leader indù contro chi macelli i bovini, animali legati alla tradizione religiosa indù, ne utilizzi pelli e altre parti e ne consumi le carni, attività appannaggio nei secoli di islamici, dalit e cristiani.

Significative le esternazioni di Subramanian Swami, parlamentare del Bjp, che lo scorso anno ha chiesto una legge per condannare a morte chi uccida le mucche. Il tentativo non è andato in porto, ma questo non ha fermato in diversi stati l’approvazione di provvedimenti che vietano la macellazione e il trasporto di carni bovine. Non senza ricadute cruente, come dimostrano le aggressioni di gruppo registrate, a volte i linciaggi di musulmani e dalit («esclusi», un tempo noti come «intoccabili») motivati dalla loro dipendenza dall’uso commerciale e alimentare di questi animali.

© Deshakalyan Chowdhury / Afp

I dalit e le prossime elezioni

In questo quadriennio di controllo nazionalista sul paese e di quasi annichilimento del Partito del Congresso, le violenze ispirate, ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà preoccupante per le minoranze. «Siamo ormai al crollo dello stato di diritto. Ogni giorno i mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze religiose, i dalit e i tribali», ha sottolineato Jignesh Mewani, leader dalit e parlamentare nello stato del Gujarat, roccaforte di Narendra Modi.

Lo scorso aprile è stato segnato da scontri tra polizia e manifestanti dalit: roghi, posti di blocco, coprifuoco, morti e feriti si sono registrati in varie zone dell’India mettendo in rilievo il disagio profondo di questi gruppi meno favoriti della comunità indù.

La loro rabbia si è espressa con la dichiarazione di un «Bharat bandh» (blocco dell’India) dopo che la Corte suprema si era opposta all’arresto di chi violi la legge vigente sulla tutela della loro dignità. Le tensioni hanno coinvolto la maggior parte dei grandi stati settentrionali, incluso il territorio della capitale, che ospitano la maggioranza dei 250 milioni di dalit. La Legge sulla prevenzione delle atrocità verso le caste e tribù registrate è del 1989, e rappresenta uno dei paradossi dell’India odierna, la cui Costituzione proibisce le caste, già vietate in precedenza dai colonizzatori britannici.

Per certi aspetti, le tensioni della scorsa primavera hanno anticipato alcuni temi della campagna elettorale verso il voto per il rinnovo del parlamento nazionale del maggio 2019. L’opposizione guidata dal Partito del Congresso, infatti, ha sostenuto le proteste «di migliaia di fratelli e sorelle dalit che chiedono la tutela dei loro diritti», mentre il governo nazionalista, dal canto suo, ha chiesto, da un lato ai partiti di non accentuare le tensioni sociali, e dall’altro alla Corte suprema di ripensare la sua posizione. Riguardo a queste ultime, è difficile non rilevare il paradosso del sostegno ai fuoricasta da parte di un governo che esprime l’ideologia che ha nei secoli contribuito alla loro subordinazione.

Cristiani perseguitati

La comunità cristiana, che conta circa 30 milioni di fedeli (il 2,3 per cento degli indiani), è pure sotto attacco. Negli ultimi anni si sono moltiplicati drammaticamente gli assalti a chiese, incontri di preghiera e istituzioni culturali e caritative. Secondo segnalazioni di attivisti cristiani, le autorità tendono a ignorare le denunce e a minimizzare i fatti e, quando arrestano presunti colpevoli, li indicano nei rapporti come «individui affetti da disturbi mentali».

A documentare questa situazione sono vari studi e rapporti. Tra i più recenti quello della Commissione statunitense per la Libertà religiosa internazionale (Uscirf), che ha messo apertamente sotto accusa il governo indiano per lo scarso impegno nel prevenire «una pressione diffusa contro le minoranze religiose e contro i dalit che raggruppano fuoricasta, tribali e aborigeni e che totalizzano il 20 per cento degli 1,35 miliardi di indiani».

Il rapporto ha registrato che «nel 2017 le condizioni della libertà religiosa hanno visto proseguire la tendenza al peggioramento» e che «la realtà di una società multiculturale e multireligiosa come quella indiana è minacciata da una crescente concezione esclusivista di identità nazionale basata sulla religione».

A confermare un incremento della persecuzione ci sono anche dati governativi diffusi a febbraio: 111 uccisi e almeno 2.398 feriti in 822 episodi di violenza settaria nel 2017, contro 86 morti e 2.321 di 703 eventi nel 2016.

Stefano Vecchia

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