Brasile: Al mercato vince Bolsonaro

Reportage: sulle strade del Brasile al voto


A Manaus, capitale dello stato di Amazonas, dove Bolsonaro ha raccolto il 65% dei voti (50,28% nello stato, 55,2% a livello nazionale), era chiara la sua vittoria già prima dell’apertura dei seggi. In piazza e al mercato stravinceva proprio lui. Mentre i seguaci di Haddad e del Pt, pochi e timorosi, sembravano ancora crederci. Cronaca di tre giornate in strada, a cavallo delle ultime elezioni brasiliane che hanno incoronato presidente l’esponente dell’ultra destra, conversando con tassisti, venditori, professori, studenti e molti altri.


Testo e foto di Paolo Moiola


Manaus, 26 ottobre 2018. Nella città storica, quella che sorge attorno al teatro Amazonas, non ci sono manifesti elettorali ed è una rarità calpestare volantini sui marciapiedi. Non so se sia perché il risultato del secondo turno delle elezioni presidenziali è dato per scontato o perché la campagna si fa ormai soltanto sui social e su Whatsapp, che in Brasile è diffusissimo.

Qui, nello stato di Amazonas, il più vasto del Brasile, domenica 28 si voterà per il presidente e anche per il governatore. Questa è una terra di confine, coperta dalla foresta amazzonica, attraversata dal grandioso Rio delle Amazzoni (Rio Amazonas) e dai suoi affluenti, poco abitata se si esclude la capitale Manaus, un’isola urbana con oltre due milioni di abitanti (ufficiali). Una terra ricca, affascinante e fragilissima. Una terra da sempre dominata dalle destre, un tempo per motivi militari, oggi per questioni legate allo sfruttamento delle risorse naturali e alla lotta contro i popoli indigeni, gli unici legittimi proprietari di questi luoghi.

Ieri, giovedì 25, girovagando per la metropoli amazzonica, ho raccolto opinioni contrastanti. La sensazione è che il Brasile potrebbe scegliere Bolsonaro, a dispetto di un curriculum zeppo di aggettivi pesanti (o vergognosi) e di una campagna virulenta nei confronti di avversari e giornalisti. Al mattino, ho parlato con molti taxisti dell’aeroporto internazionale: tutti – nessuno escluso – hanno risposto che voteranno Bolsonaro perché il paese ha bisogno di un cambio. I taxisti costituiscono però una categoria particolare, soprattutto qui in Brasile dove Uber sta facendo razzia del mercato.

I professori di Haddad

Nel tardo pomeriggio, quando la temperatura era scesa un po’ sotto i 40 gradi toccati (e superati) nel corso della giornata, nella Plaça da Matriz, la piazza che sta tra la cattedrale (Nossa Senhora da Conceição) e il grande porto fluviale (Estação Hidroviaria do Amazonas) della città, ho notato un piccolo gruppo – non più di 6-7 persone – che si alternavano al microfono davanti a un manifesto di Fernando Haddad con alle spalle Manuela d’Ávila, la giovane candidata alla vicepresidenza. A lato dell’oratore, due sbandieratori. Nessuno dei passanti, però, si fermava per ascoltare. Soltanto alcuni passeggeri di autobus, che hanno una fermata proprio davanti alla piazza, gridavano qualcosa dai finestrini.

Forse anche per questo i manifestanti si sono interessati a me, unica persona a fermarsi ad ascoltare l’improvvisato comizio. Si sono presentati tutti con mano tesa e sorriso. Erano insegnanti di varie scuole e diverse materie. Alcuni giovani, altri sulla cinquantina. La professoressa Mariene Pantoja de Lima si è subito dichiarata militante socialista, spaventata da Bolsonaro, definito – senza giri di parole – candidato fascista, che farà marcire in galera non soltanto Lula ma tutti gli esponenti del Pt. Amaral, docente universitario, ha espresso timore per l’educazione pubblica. Una giovane insegnante di sociologia delle scuole superiori, più timida, assentiva a ogni affermazione dei colleghi. Due altre giovani professoresse hanno voluto farsi fotografare con la maglietta che recitava: «Scienze sociali, una via per la democrazia».

Ho chiesto: Haddad che possibilità ha di battere Bolsonaro che, al primo turno, ha ottenuto 16 punti percentuali in più? «Stiamo recuperando», hanno risposto all’unisono, mettendomi in mano l’adesivo «Haddad é Lula». E poi scrivendo – sul retro di un manifesto – i loro numeri di Whatsapp per restare in contatto e magari presenziare alle ultime riunioni del comitato di sostegno di Manaus.

La voce del mercato

Questo è accaduto ieri. Oggi, venerdì 26 ottobre, raccolgo opinioni al mercato coperto. Anzi, ai due mercati coperti, molto vicini ma diversi. Entrambi stanno sul lato sinistro del porto fluviale ed entrambi guardano al Rio Negro che scorre una ventina di metri oltre la strada. Il primo – Mercado municipal Adolpho Lisboa (Mercadão) – è ospitato in una storica struttura in ferro battuto, risalente alla favolosa epoca del caucciù (borracha) che portò Manaus nel mondo. Il mercato è stato ristrutturato anche – o forse soprattutto – per favorire l’accesso dei turisti. Tutto infatti pare un po’ da cartolina, soprattutto nella parte che ospita i gazebo dei prodotti dell’artigianato locale. La signora Rosi vende farine e bibite. È giovane e molto gentile: «Voto Bolsonaro perché sento di avere più affinità con lui. Il Pt è il passato». Un paio di metri più avanti c’è un banco del pesce: «Nessuno dei due. Tutti ladri sono», mi grida il venditore mentre con un coltello affilato pulisce un grosso tambaqui. E conclude: «Io voterò in bianco e metterò anche la firma».

Ben diverso è il mercato che sta un centinaio di metri più avanti, popolarmente conosciuto come il «mercato delle banane». La struttura è minimale e quasi non si nota, ma dentro si muove un universo di umanità. E di prodotti alimentari: dalla carne al pesce, dalla frutta alla verdura, dalle patate alle granaglie. Il reparto più affascinante è quello del pesce, forse perché questo viene pulito e tagliato in loco. È proprio qui che inizio la mia piccola indagine elettorale.

Il banco sull’angolo della fila porta una chiara firma evangelica: sopra il pesce, appese una accanto all’altra, ci sono le riproduzioni dei Salmi 21 e 23. «Bolsonaro o Haddad?», chiedo senza troppi preamboli alla fila di venditori in camice bianco. Quasi tutti – almeno sei persone – rispondono Bolsonaro, anche un giovane diciannovenne. Uno soltanto dice di non avere ancora deciso. Un altro precisa: «Se il Brasile fosse ben amministrato. Sarebbe un paese da primo mondo. Al pari degli Stati Uniti».

Nella foga di riprendere con la telecamera e, al tempo stesso scrivere, la penna mi cade tra i pesci pacu. Impossibile recuperarla senza portarsi dietro anche l’odore. Viene in mio soccorso una coppia di clienti. Lei raccoglie la penna e chiede che venga pulita. «Non con le mani. Con uno straccio», dice ridendo al venditore.

Lei si chiama Waldeniza Bessa ed è professoressa di architettura e urbanistica presso l’Università privata Nilton Lins. «Bolsonaro o Haddad?», chiedo imperterrito. «Bolsonaro, senza dubbi», risponde lei. E il suo accompagnatore, Valdir Rodrigues Bessa, insegnante di educazione fisica a San Paolo, dice che anche lui è per Bolsonaro.

Dal Venezuela… all’armatura di Dio

Lascio i banconi del pesce per quelli della frutta e delle verdure. Al banco segnalato con i numeri 45-47 ci sono due giovani. Faccio la consueta domanda. «Non votiamo perché siamo venezuelani», spiegano Almilcue Moreno e l’amica Kenneliz Zapata. Sono arrivati a Manaus un anno fa perché in patria la situazione economica era ormai insostenibile. Parlano molto male di Maduro, ma riconoscono che Chávez è stato un buon presidente. «Anche se era un militare», precisa la ragazza.

Mi fermo presso un altro banco evangelico, anche questo ben riconoscibile. Sulla parete, un manifesto della chiesa Paz e Vida dal titolo di «Armadura de Deus»: in esso è ritratto un uomo con un’armatura sulla quale, per ogni parte del corpo, è evidenziata la forza di cui i credenti evangelici sarebbero forniti. Denir, il proprietario, ha poca voglia di parlare di politica, ma non l’amico che è con lui, Deuti Barreto: «Bolsonaro è pericoloso per vari motivi. In primo luogo, perché è un militare e poi perché non ha un vero progetto di governo. Vince perché parla della violenza, un argomento molto sentito tra la popolazione». Approfitto della loquacità di Deuti per chiedere anche un commento su Lula: «Non è un corrotto. Lui avrebbe vinto di sicuro al primo turno e con il 70 per cento dei voti», esclama con convinzione.

Quando esco dal mercato è passato mezzogiorno e il caldo è soffocante. È tempo di rientrare in albergo. Lungo la strada, a lato della Plaça do Relogio, la piazza dell’Orologio, riparati sotto un albero, ci sono tre persone che distribuiscono volantini per Wilson Lima, candidato governatore per lo stato di Amazonas e sostenitore di Bolsonaro. «Per la presidenza abbiamo già vinto. Adesso dobbiamo vincere anche per il nostro stato», mi dicono Mauro Cezar, Roberto Carlos e Jacivania. Di lì a poco al gruppo si aggiunge un loro amico che difficilmente passerebbe inosservato dato che indossa maglia e pantaloni con i colori sgargianti della bandiera nazionale. Si chiama Paulo Goés, giornalista che fa campagna per i candidati vicini a Bolsonaro.

La speranza nel numero 13

La speranza arriva quando è già buio, dopo le 18.00. Prima, dentro al Teatro Amazonas, incontro Deilane, una giovane ventenne, studentessa di turismo che fa tirocinio come guida all’interno della struttura, l’unica vestigia storica di rilievo (risale a fine Ottocento ed è il simbolo dell’epoca del caucciù) di Manaus e dunque molto visitata. Le chiedo se sia vero che gli evangelici – che costituiscono circa il 30% dei brasiliani – votino in massa per Bolsonaro. «Tanti di loro votano per quel signore, ma non tutti. Qualcuno non ha gradito l’uso strumentale che lui fa della Parola di Dio. Io sono cattolica e così la mia famiglia: noi votiamo Haddad senza alcun dubbio». A dispetto della sua giovanissima età, Deilane è preparatissima: «Bolsonaro è un ex capitano ma per 29 anni è stato al Congresso. Il suo vice, il generale in congedo Antonio Hamilton Mourão, è più pericoloso di lui».

Poco dopo, in una via dietro allo stesso teatro, m’imbatto in una manifestazione pro Haddad. Con musica e cibo, e un buon numero di persone, soprattutto giovani, tutti con il numero 13 – l’identificativo di Haddad – appiccicato sul petto. Come Renan Feitosa, 31 anni, e Yara di 26, entrambi laureati in chimica e attualmente studenti di dottorato all’Università federale (pubblica). Sulle loro magliette è attaccato un foglio scritto a mano: «Scienza sì! Silenzio no! Per l’educazione, per la democrazia». Renan commenta: «Bolsonaro non conosce il discorso democratico. È un vero fascista». E Yara, più timida ma egualmente decisa: «È semplicemente orroroso».

La lunga giornata termina con Silvania Farias, 35 anni, psicologa, e Rosane Pinheiro, 47 anni, impiegata amministrativa. Agguerrite e fiduciose nella rimonta. Racconto loro del plebiscito pro Bolsonaro riscontrato, al mattino, tra i banchi del mercato. E loro mi danno un’interpretazione che io non avevo considerato «Al mercato tutti debbono dire Bolsonaro perché le licenze dipendono dalla municipalità (prefeitura) e l’attuale sindaco (prefeito) appartiene a un partito suo alleato».

Ecco perché si dice che la speranza sia l’ultima a morire.


Manaus, domenica 28 ottobre

La speranza dei votanti di Haddad – «Ha ormai recuperato tutto lo svantaggio», dicevano in piazza citando non ben identificati sondaggi – ha avuto vita breve, poco più di una notte. Alle cinque del pomeriggio, appena chiuse le urne (elettroniche), mi reco al centro stampa allestito presso il Tribunale regionale elettorale di Amazonas, già affollatissimo di giornalisti in fila per approfittare del buffet e di telecamere schierate davanti al grande schermo interattivo. L’istogramma delle sezioni ricevute cresce molto velocemente. I risultati affluiscono con rapidità anche dai luoghi più lontani e isolati. Alle sei, appena un’ora dopo la chiusura della votazione, lo stato di Amazonas ha già il suo nuovo governatore (Wilson Lima), ma anche a livello nazionale la situazione è molto ben delineata. Alle sette, la sala stampa è ormai vuota per metà. Jair Bolsonaro ha vinto con oltre 57 milioni di voti (55%). Sarà lui il nuovo presidente del Brasile.

Paolo Moiola

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