Italia: italiani arcobaleno

«Arising Africans», un’associazione di afro italiani si racconta

Fondatori e alcuni membri di arising Africans. Sulla parete ritratto di Thomas Sankara.
Italia
Serena Carta

 


Sono tre studenti universitari. Tre italiani con radici africane. Incontrandosi si rendono conto di avere qualcosa in comune. Trasmettere una consapevolezza dei propri diritti e doveri, distruggere alcuni stereotipi. Fondano un’associazione e hanno subito adesioni. Abbiamo ascoltato le loro voci.

«Ci siamo conosciuti a Padova, tra la mensa e le aule universitarie – ci dicono Ada, Emmanuel e Anabell -. Quando ci incontravamo capitava sempre di parlare della situazione degli stranieri qui in Italia. Venivamo tutti da realtà diverse eppure avevamo esperienze e pensieri molto simili; d’altronde i genitori africani cercano sempre di educarti in un certo modo, poi tu esci di casa e ti comporti in un altro! A forza di parlare di come volevamo cambiare le cose, delle ingiustizie viste e vissute o del fatto che le istituzioni ignorassero completamente una categoria di popolazione che è quella costituita dagli afro italiani come noi, abbiamo deciso di lanciarci in questo progetto». È nato così, nella primavera del 2015, Arising Africans, associazione con sede a Padova, che si è data la missione di riunire i giovani afro italiani, africani di seconda generazione, afro discendenti e, più in generale, afro simpatizzanti residenti in Italia per promuovere un’immagine più completa e veritiera del continente africano e della sua popolazione, decostruendo gli stereotipi. Ma non solo: «La nostra idea è quella di trasmettere una consapevolezza maggiore dei propri diritti e doveri a chi ha origini africane, per rafforzare la stima di sé nella società italiana». E ancora: «Vogliamo dire che l’Africa non ha bisogno della carità dei bianchi, vogliamo mostrarla alle persone per quello che è, fae conoscere la storia e i suoi personaggi al di là del colonialismo, di cui si è parlato troppo. Vogliamo che alla parola Africa si associno altre immagini e altre parole. Vogliamo inoltre dire alle istituzioni che noi ci siamo e che vogliamo lottare per affermare i nostri diritti. Vogliamo infine scuotere gli africani che vivono in Italia, dire loro di attivarsi perché abbiamo un obbligo morale verso la nostra comunità e la nostra cultura di origine». Parole consapevoli e determinate pronunciate dallo staff fondatore di Arising Africans composto da Ada, Emmanuel e Anabell, under-30, che con forza innalzano la bandiera del risveglio africano.

Africanismo 2.0

«Con risveglio africano intendiamo la costruzione dell’Africa di domani: una visione che chiamiamo anche africanismo 2.0, che non significa limitarsi a mettere «mi piace» sui social network, ma fare concretamente qualcosa. La costituzione di Arising Africans è un primo passo in questa direzione: gli studenti di origine africana che vivono in Italia saranno coloro che avranno la possibilità di influenzare le politiche di domani e noi sentiamo di avere la responsabilità di informarli correttamente su chi sono, da dove vengono e quali sono le loro risorse, spesso sottovalutate o persino ignorate».

Per farlo, usano soprattutto il web: il sito internet www.arisingafricans.com è aggiornato periodicamente con articoli su eventi promossi dall’associazione stessa, interviste o con le storie di illustri personaggi storici africani. I contenuti vengono poi rilanciati sulla pagina Facebook, dove alla rassegna stampa quotidiana sui temi cari all’associazione si alternano due rubriche originali: «Notizie dall’Africa», che riporta curiosità su cultura, folklore, storia e attualità del continente, e «Afro cliché» in cui si sfatano i miti più comuni.

L’afro italianità

«Per me Arising Africans rappresenta una svolta – spiega Anabell -. È arrivata l’ora che gli afro italiani siano riconosciuti per quello che sono, e cioè cittadini con una doppia cultura. L’armonia tra due o più bagagli culturali differenti, che abbiamo creato – a volte con fatica – durante il nostro percorso di crescita, rappresenta una potenzialità e una ricchezza. Non solo a livello sociale e linguistico, ma anche di carattere e personalità: ci siamo abituati a pensare in maniera laterale (pensiero in grado di prendere in considerazione punti di vista alternativi, flessibile, creativo, aperto a interpretazioni diverse della realtà, nda) e riusciamo ad adattarci facilmente. Arising Africans, quindi, è il modo che ho scelto per valorizzare sia la mia parte africana, che la mia parte italiana, in egual misura. E vorrei dire a tutti i miei coetanei afro italiani che si può essere sia l’uno sia l’altro senza vergognarsi».

«Ci sentiamo africani tanto quanto italiani, per noi è un dono quello di poter vivere e rappresentare entrambi i mondi – conferma Emmanuel, che aggiunge -, l’afro italianità è un concetto che non va definito con una formula: puoi avere entrambi i genitori africani o uno solo, puoi essere nato qui o altrove. Io, ad esempio, sono nato in Germania da una famiglia originaria della Repubblica democratica del Congo, ma vivendo in Italia da più di sei anni mi sento afro italiano tanto quanto Anabell che è arrivata a Pordenone a nove anni».

Eppure quello dell’afro italianità è il primo diritto a essere negato dalla società italiana. Secondo Ada i principali responsabili sono i media, che negli anni hanno costruito un’immagine distorta e strumentalizzata della figura dello straniero: «Più volte ho notato che viene fatta una distinzione non necessaria tra italiani, riconosciuti come tali, e afro italiani, chiamati stranieri o immigrati. Le parole con cui ci definiscono sono importanti, così come le immagini. Mostrare in tv un solo tipo di africano, a cui spesso si attribuisce un atto criminale, senza mai prendersi il tempo di presentare altro, come la realtà degli studenti di origine africana che frequentano scuole e università italiane, è una discriminazione che finisce per avere ricadute in altri ambiti della società, come quello del lavoro. Prendiamo l’esempio degli universitari: molti di loro per completare il percorso di studi devono fare uno stage in azienda. Ebbene, io conosco tanti studenti di origine africana che hanno avuto difficoltà a trovare uffici disposti ad accoglierli, per via della pelle nera e della diffidenza che questa continua a suscitare. Ma come biasimare il piccolo-medio imprenditore veneto, che quando accende la tv e sente parlare di Africa vede solo scene di bambini denutriti, calciatori alla moda o spacciatori? E ancora: sapete quanti sono gli afro italiani che lavorano nel mondo della cultura? Meno dell’uno percento: tutti gli altri sono confinati a lavori con bassa qualificazione. Questo, personalmente, è difficile da accettare considerando quanti sono gli studenti africani che si laureano ogni anno». Gli ultimi dati Almalaurea dicono che il 13% dei laureati con cittadinanza straniera, 3,4% sul totale della popolazione studentesca, proviene dall’Africa.

La negazione del diritto all’afro-italianità passa anche per un’altra, più sottile, discriminazione: «Quando qualcuno mi chiede da dove vengo e io rispondo che sono della provincia di Treviso, scatta l’incredulità – continua Ada -. Per soddisfare la curiosità del mio interlocutore devo aggiungere che sono di origine nigeriana e a quel punto, con un sospiro di sollievo, mi viene fatto notare che parlo davvero bene l’italiano! Purtroppo, soprattutto tra le persone più anziane ma non solo, esiste ancora una certa difficoltà ad accettare il fatto che io possa indicare come casa mia un paesino che si trova in Italia e che l’italiano sia – anche – la mia lingua».

Rapporto alla pari

«Li vediamo nelle piccole cose: quando qualcuno dei membri di Arising Africans ci dice che avrebbe voluto incontrare un gruppo come questo anni prima, quando non riusciva a convivere con la propria parte africana e se ne vergognava. Oppure quando scriviamo di uno dei grandi personaggi che hanno fatto la storia dell’Africa, perché sappiamo che è un piccolo seme che contribuisce a disegnare un altro immaginario del continente», spiega Emmanuel. E i vostri genitori che ne pensano? «Dicono che gli ricordiamo quando erano giovani. A differenza loro, però, che si sentivano stranieri e diversi, noi abbiamo più potere contrattuale: siamo cresciuti in Italia, ci sentiamo al pari dei nostri coetanei italiani e siamo perfettamente a nostro agio quando dobbiamo relazionarci con altre persone».

Serena Carta*

*Gioalista freelance, ha collaborato con Ong e agenzie delle Nazioni Unite. Ha curato la redazione dell’e-book «Guida introduttiva all’uso delle Ict per lo sviluppo». È tra gli autori del webdoc «Guinendadi – Storie di rivoluzione e sviluppo in Guinea Bissau» e cofondatrice di www.puntozerohub.com.

 

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