Decrescita 2: Produrre sì, ma… «merci» utili

      L’esperto 1/ incontro con Maurizio Pallante                                         
Che differenza c’è tra beni e
merci? Cosa può rendere la vita migliore? Come ridurre il Pil senza andare in
recessione? A queste e altre domande risponde Maurizio Pallante, classe 1947,
laureato in lettere, ex preside, fondatore e «guru» del Movimento per la
decrescita felice
.

L’alternativa alla crescita è la
riduzione degli sprechi. Maurizio Pallante ci racconta il suo cammino verso la «Teoria
della decrescita» partendo dalle sue esperienze ambientaliste degli anni Ottanta:
«Realizzavo già allora che l’alternativa ai combustibili fossili non poteva
essere esclusivamente legata all’utilizzo di fonti rinnovabili ma anche e
soprattutto alla riduzione degli sprechi. Solo in Italia si spreca il 70% di
energia, cioè si produce energia che non serve perché potrebbe essere
risparmiata in vari modi. È necessario dunque ridurre gli sprechi, il consumo “inutile”
e, solo dopo o parallelamente, si può pensare di ricavare energia dalle fonti
rinnovabili, ma solo per le rimanenti necessità».

Negli anni ’90 affronta tematiche legate alle
eco-tecnologie e all’efficienza energetica. Nel libro «Le tecnologie di armonia»
(Bollati Boringhieri 1994) analizza l’inadeguatezza degli indici economici
universalmente riconosciuti quali misura del benessere e valuta le opportunità
legate a una riduzione dell’orario di lavoro rispetto alle otto ore attuali.

Beni o merci?

Domandiamo a Maurizio Pallante quale sia la sua critica
al Pil (Prodotto interno lordo) come indicatore dello sviluppo economico. «La
crescita economica, che troppo spesso si identifica con benessere, viene
misurata dalla quantità di merci prodotte e scambiate, cioè con il Pil. Questo
indicatore, che è un dogma nella nostra economia, è una falsa misura di
benessere in quanto esistono molte merci che non determinano miglioramenti
reali della qualità della vita. Le merci che non apportano un reale
miglioramento alla vita dell’uomo non possono definirsi “beni” ma sono,
sostanzialmente, “sprechi”».

Esiste dunque un’alternativa a questo stato delle cose? «Concentrarsi
sulla produzione “efficiente” di beni, ossia di merci “buone”, cioè utili. In
questo contesto assumono molta importanza forme come l’autoproduzione e lo
scambio di beni non mercantile, il dono, la reciprocità e la solidarietà. La
decrescita è proprio questo: da un lato la diminuzione della produzione di
merci che non sono “beni”, ossia che non recano un effettivo miglioramento
qualitativo della nostra vita, e dall’altro l’aumento della produzione di beni
che non sono “merci”».

Ma la decrescita si può considerare un fenomeno di
nicchia o di massa? La teoria della decrescita felice viene sviluppata
attraverso la pubblicazione dell’omonimo libro del 2005 che ha venduto, a oggi,
50.000 copie. Il fenomeno, che ha avuto una diffusione lenta, ma costante,
appare oggi in fase di ulteriore espansione. Pallante ci spiega: «Nei frequenti
convegni a cui partecipo, il pubblico è sempre vasto e interessato.
L’associazione stessa (Mdf, cioè Movimento per la decrescita felice) fondata
nel 2007, conta oggi una trentina di circoli e vanta richieste continue di
nuove adesioni tanto da ipotizzare di poterli raddoppiare entro la fine
dell’anno. Il Movimento si propone in ogni caso di creare collegamenti tra
fasce di età, tra giovani e meno giovani, tra liberi pensatori, puntando per
tutti alla valorizzazione delle proprie attitudini e capacità».

Recessione e decrescita

Di questi due termini, spesso confusi, Pallante ci da
due definizioni precise: «La recessione è la diminuzione incontrollata e generalizzata
della circolazione delle merci. La decrescita è invece la riduzione selettiva e
controllata della produzione e circolazione delle merci che non sono beni, ma
piuttosto sprechi. Facciamo un esempio: ci sono due persone che non mangiano,
una perché ha deciso di fare la dieta e l’altra perché non ha proprio da
mangiare. Chi ha deciso di fare la dieta è in fase di decrescita, chi non
mangia perché non ha da mangiare sta vivendo la recessione. In questo senso
decrescita non si confonde con recessione ma ne è addirittura la medicina».
Addirittura? «Sì, perché puntare sulla riduzione degli sprechi significa
dirottare gli investimenti in specifici settori produttivi, quello delle
eco-tecnologie, dell’efficienza, quindi ottenere magari le stesse cose impiegando
meno risorse. Con questo risparmio si può innescare un circuito virtuoso che
permetterebbe a sua volta di pagare i salari dei nuovi lavoratori del settore».

Decrescita fa rima con innovazione o tradizione?

«Anche qui bisogna mettersi d’accordo. L’innovazione non
è un valore in sé, ma è utile quando mirata alla diminuzione degli sprechi di
risorse e di tempo. Diversamente, se punta a indurre un semplice desiderio
consumistico di emulazione, è inutile e dannosa. Lo vediamo ad esempio con i
modelli di smartphone o automobili che escono continuamente sul mercato a parità
sostanziale di funzionalità tra un modello e l’altro. Per il loro acquisto le
persone continuano a indebitarsi o a lavorare molte ore senza realizzare che si
tratta di merci che non aumentano di certo il loro benessere. La tradizione è
buona perché spesso raccoglie la saggezza di secoli di adattamento alla natura
e all’ambiente circostante. Ad esempio nel campo del risparmio energetico, le
cascine costruite nell’Ottocento erano ottimali, in quanto si teneva in gran
conto l’orientamento e l’esposizione al sole dell’abitazione, riducendo le
aperture di porte e finestre sui muri perimetrali del lato nord che invece con
il loro spessore funzionavano da regolatori termici. L’edilizia della seconda metà
del secolo scorso invece, pur essendo considerata innovativa rispetto agli
edifici precedenti, teneva poco o per nulla conto di questi aspetti,
considerando un fattore secondario la dispersione di calore, presupponendo un
facile e poco dispendioso accesso ai combustibili fossili e all’energia
elettrica».

Vado a vivere in campagna

La decrescita si può vivere esclusivamente in un
ambiente rurale? «Considero le città gli ambienti peggiori dal punto di vista
della qualità della vita. In un appartamento è materialmente impossibile fare
delle attività attinenti alla soddisfazione dei propri bisogni. Tutto si compra
col denaro guadagnato spesso facendo dei lavori legati alla produzione di merci
e servizi inutili, come certa “burocrazia”. La campagna, se vissuta come
opportunità di fare autoproduzione o allevamento, va nella direzione della
decrescita. Ma in generale la decrescita attecchisce in una persona consapevole
e sensibile all’idea. Se il decentramento aumenta fortemente le necessità di
spostamenti quotidiani in automobile per raggiungere differenti luoghi di
lavoro potrebbe non essere la soluzione ottimale. Anche la scelta di vita
individuale o comunitaria deve essere lasciata alle attitudini e all’indole di
ognuno di noi, è chiaro che l’isolamento può non favorire lo scambio di beni e
servizi o la reciprocità che è alla base della teoria della decrescita».

Chi abita in città cosa può fare da domani per aderire
in pratica all’idea di decrescita?

«Si possono fare molte cose tra cui: instaurare un
rapporto diretto di collaborazione con i produttori alimentari (i Gas, ndr),
aderire alle banche del tempo, brutto nome per un’ottima idea, che è quella di
scambiare il tempo per aiutarsi. Vedo bene in questo senso creare una rete di
aiuti e di solidarietà all’interno dei condomini in cui si vive. Poi c’è il
filone energetico: fare scelte che comportino risparmi e utilizzi di energie
rinnovabili, pianificare più spostamenti a piedi o in bicicletta. Ognuno deve
trovare la propria misura e il proprio equilibrio. Ridurre al minimo la propria
dipendenza dal mercato, dalle attività inutili e dagli sprechi».

Fare i conti con la crisi

Se si perde il lavoro, cosa si fa? Si mangia pane e
decrescita?

«È fondamentale reagire, conoscersi meglio per
riscoprire le proprie capacità pratico-manuali e i propri talenti. Oggi ci
rendiamo tristemente conto che non sappiamo “fare”, ma dobbiamo acquistare
tutti i beni che ci occorrono. Il modello di giornata che ho in mente dovrebbe
svilupparsi in tre momenti: l’auto produzione di beni, includendo le
riparazioni artigianali e l’orticoltura; il lavoro “esterno”, necessario per
ottenere denaro e acquistare quello che non si può costruire direttamente.
Infine, una parte importante della giornata dedicata alle relazioni umane, alla
spiritualità, al divertimento e all’apprendimento. Molto si può fare
individualmente, vivere il proprio cambiamento e operare contestualmente scelte
di consumo consapevoli, riducendo gli sprechi e gli acquisti inutili. Ma poi ci
vuole una risposta politica e di orientamento dei settori industriali che
mirino all’efficienza, alle energie pulite e alla produzione sostenibile dei
beni strumentali».

La fase di crescita è proprio “esaurita”?

«Io credo che tutti gli sforzi attuali di aumentare
l’occupazione senza porsi la questione dell’utilità di quello che si fa sono
destinati al fallimento. Dobbiamo invertire la tendenza ed entrare in una fase
nuova dell’economia; questa azione non potrà che ripercuotersi beneficamente in
un avanzamento sociale dell’intera umanità».

 
     L’esperto 2/ Jean Louis Aillon                                                             
Decrescita, medicina e giovani

Rimettere al centro l’essere umano, in armonia con la
natura. Una società in cui si possa consumare meno e meglio. E dare più spazio
alle relazioni. Questi e altri gli ingredienti della decrescita felice secondo
il responsabile salute del Movimento.

Jean Louis Aillon è un medico 29enne,
specializzato in psicoterapia dinamica adleriana. Fa parte del direttivo
nazionale del Movimento per la decrescita felice ed è il responsabile del
settore Salute all’interno del Movimento. Jean Louis è una persona estremamente
piacevole che, con una buona dose di profondità e disinvoltura, ci racconta la
sua visione della decrescita ponendo l’accento sulla reale necessità di un
capovolgimento di paradigma in medicina e analizzando l’orizzonte dei giovani.

Jean Louis, decrescere bene e meglio. Ci dai
qualche input in merito?

«L’obiettivo della decrescita è di rimettere
al centro gli esseri umani in un nuovo rinascimento, in armonia con la natura.
In questo stato delle cose, l’economia deve essere semplicemente un mezzo che
garantisca la piena realizzazione degli esseri umani. L’idea sostanziale è: non
si deve fare sempre di più ma fare meglio, non pensare alla quantità ma alla
qualità, consci dei propri limiti e di quelli del pianeta. Una società in cui
si possa consumare meno e meglio, lavorare un po’ meno per dare più spazio alle
relazioni, alla sfera affettiva, spirituale e creativa. In questo senso
ritagliarsi del tempo “liberato” che non è il “tempo libero” catturato dagli
svaghi dell’industria del divertimento ma un tempo prezioso da dedicare a sè
stessi e ai propri cari. Noi siamo stati colonizzati da un’immagine della
crescita che nutre in sé una serie di disvalori: essere sempre in forma,
competitivi sul lavoro, inseguire benessere materiale e successo. Con la
decrescita si intende decolonizzare quest’idea della crescita».

Salute, psiche e crescita dell’uomo. Come può
la decrescita intervenire in questo ambito? «Innanzitutto occorre porsi una
domanda: “Da cosa dipende la nostra salute?”. La risposta è così ripartita: 7%
da fattori genetici, 15% dall’organizzazione sanitaria e il restante 70% dagli
stili di vita che si conducono e dall’impatto ambientale. Una buona rete
sociale accanto a sé, una sana alimentazione e dei ritmi meno pressanti
costituiscono le chiavi per migliorare il nostro stato di salute. La “crescita”
fine a se stessa ha prodotto solo ineguaglianze e stili di vita insalubri. La
depressione nel 2020 sarà la prima patologia per cause di disabilità del mondo,
insieme ad altri malesseri sempre in aumento come l’insonnia e la cefalea.
Decrescere in ambito sanitario, significa, a mio avviso, svincolare la medicina
dalle influenze che nel corso dei secoli le ha apportato un sistema economico
basato esclusivamente sulla crescita del Pil; affrancarla da una visione miope
della scienza e del progresso che ha fatto dell’uomo un oggetto di studio come
gli altri, trascurandone le varie dimensioni essenziali, la sua unitarietà e la
sua complessità. La decrescita in questo ambito, come in economia, si propone
di riorientare la medicina secondo un carattere prettamente qualitativo (e non
quantitativo), riportando l’unicità della persona al centro del processo medico
e promuovendo tutte quelle pratiche che mirano al reale benessere psico-fisico
e sociale dell’essere umano, inteso nella sua globalità. Alcuni temi di
carattere generale (su cui vi è un consenso internazionale) che possono essere
affrontati con questo metodo, nell’ottica della decrescita riguardano: gli stili
di vita, la prevenzione, la promozione della salute, l’approccio olistico al
paziente, l’abolizione del consumismo farmaceutico, lo stress stile di vita
odierno, l’ambiente e l’inquinamento, l’approccio al dolore, l’organizzazione
sanitaria e molto altro ancora». 

Chiediamo a Jean Louis Aillon di spiegarci
come rientrano i giovani nella decrescita. «La decrescita è una filosofia che
fa presa su coloro che sono imbrigliati negli ingranaggi della “megamacchina
capitalistica”. Il mondo dei giovani è, però, completamente diverso: il tempo
non manca e le relazioni umane abbondano. Nonostante ciò i giovani non sembrano
affatto così felici.  Attraverso lo
strumento della decrescita, il rivalutare vecchi mestieri, conoscere meglio i
propri talenti e dare un senso alle cose che si fanno, si possono rompere le
catene dell’isolamento e della solitudine e trovare la forza per vivere
diversamente questo mondo». (G.M.)

 
 

Luca Cecchetto e Gabriella Mancini

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