Santa Idelgarda di Bingen

Ildegarda nasce nell’estate del
1089 a Bermersheim, presso Alzey, nell’Assia-Renana in Germania, ultima di
dieci fratelli. Fin da bambina ha delle visioni che l’accompagneranno per tutta
la vita. A otto anni i suoi genitori, Ildeberto e Matilda di Vendersheim,
l’affidano al monastero di Disibodenberg, dove viene educata da Jutta di
Sponheim. A quindici anni emette la professione monastica e si avvia con
entusiasmo allo studio di opere patristiche e teologiche. Alla morte di suor
Jutta, intorno al 1136, Ildegarda le succede come magistra. Di salute
malferma, ma vigorosa nello spirito, si impegna a fondo per il rinnovamento
della vita religiosa del suo tempo e mantiene un intenso scambio epistolare con
personaggi di rilievo. Scrive inoltre trattati di filosofia e teologia, di
medicina, scienza e persino cosmologia; trova il tempo di comporre anche brani
musicali. Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda si spegne in fama
di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembre dello
stesso anno.

A essere sincero sono molto emozionato
nell’entrare in dialogo con una donna consacrata come te, una monaca
contemplativa, che durante la sua vita incise non poco nelle vicende ecclesiali
del suo tempo, in particolare nella sua terra, la Germania. Mi faccio forza
quindi, e ti chiedo di parlarci un po’ della tua vita.

Fin
dalla mia infanzia sono stata prescelta da Dio, che mi ha fatto dono di un
fenomeno molto particolare, ossia delle visioni celestiali che, data la mia
giovane età. Inizialmente non riuscivo a capire, ma in seguito pian piano
imparai a riconoscerle come doni del Signore affinché io mi dedicassi e
consacrassi totalmente a Lui.

I tuoi genitori come vivevano questo
fatto? Ne erano spaventati oppure tentavano di nascondere quello che tu stavi
vivendo per non suscitare troppo clamore attorno a te?

Certo
erano anche loro meravigliati di quello che mi succedeva, perciò all’età di
otto anni mi affidarono al monastero di Disibodenberg. Non appaia questo, a voi
modei, un gesto coercitivo. Ai miei tempi infatti era abbastanza normale che
sin da bambini si entrasse a far parte della comunità di un monastero. Del
resto, anche altre Sante entrarono in monastero in età piuttosto giovane, per
non dire adolescenziale.

Appartenente a una famiglia nobile e
affidata a una comunità monastica, fu abbastanza facile per te ricevere
un’istruzione di prim’ordine e nel contempo essere educata secondo le regole di
San Benedetto.

In
convento ebbi la fortuna di avere come Madre Maestra (Mater Magistra
come si diceva allora), Jutta di Sponheim, una nobile tedesca che si era
consacrata al Signore, dotata di un’intelligenza fuori dal comune e molto
addentro alle questioni teologiche, filosofiche di quel tempo. Fui presa sotto
la sua ala protettrice e grazie a lei ebbi un’istruzione di prim’ordine,
imparando ad accostarmi ai testi teologici e della nascente teologia scolastica
medioevale, che, data la presenza di personaggi di spicco miei contemporanei
come san Beardo e sant’Anselmo d’Aosta e influenze come quelle della scuola
di Chartres, cominciavano a circolare e a essere conosciuti nei circoli
accademici, nonché ovviamente in ambito religioso.

Ti piaceva studiare, addentrarti nei
meandri della Patristica e della teologia?

Molto,
in questa passione mi buttai a capofitto leggendo quasi tutti i testi dei santi
Padri in circolazione e i libri dell’enciclopedismo medioevale. Avevo una
particolare preferenza per san Dionigi l’Areopagita e il grande padre della
Chiesa, sant’Agostino di Ippona.

Con l’istruzione che hai avuto quindi non
ti deve essere costato molto scrivere anche ciò che sperimentavi durante le tue
visioni.

Di
certe cose ero piuttosto restia a parlare. Ma dopo i quarant’anni capii che i
doni che il Signore mi faceva dovevo condividerli con gli altri. Incominciai a
scrivere con particolare intensità tutto ciò che avveniva in me. Io non le
definivo visioni del cuore o della mente, ma, essendo visioni che prendevano tutto
il mio essere, fisico, psichico e spirituale, preferivo chiamarle: «Visioni
dell’anima».

Immagino che avendo tu acquisito una certa
notorietà per la santità di vita e per i trattati che hai scritto e che
cominciavano a circolare, molta gente ricorresse a te per avere dei consigli o
preziosi aiuti spirituali.

Sì.
Ma oltre a queste cose, cominciavano anche a chiamarmi a predicare nei villaggi
e nelle città. Del resto tutta la comunità civile e religiosa sentiva il
bisogno di una riforma morale del clero, dei monaci e del popolo. In questo
senso compii diversi viaggi pastorali e predicai nelle cattedrali di Colonia,
di Treviri, di Liegi, di Magonza, di Metz e di altre città.

Beh, per l’immagine che abbiamo noi del
Medioevo: quella di un’epoca triste e buia, sapere di una donna – sia pure
monaca – che predicava alla gente e al clero nelle cattedrali delle città
tedesche provoca un certo effetto.

Qualcuno
pensa che questo mio modo di fare sia l’antesignano del femminismo come lo
conoscete voi. In realtà il ruolo della donna nella Chiesa è sempre stato un
ruolo importante, anche se ha compiti diversi da quelli degli uomini. Inoltre,
all’interno dei nostri monasteri e dei nostri conventi, si provvedeva a
eleggere democraticamente i superiori, una cosa che neanche la società civile
medioevale riusciva a concepire. Questo per dire come bisogna smontare gli
stereotipi che, da un certo momento in poi, hanno fatto da padroni nella storia
della Chiesa.

Prova a sintetizzare la specificità della
tua predicazione e delle tue riflessioni teologiche che avevano tanto successo
e che ti ponevano ben al di sopra di tanti eruditi del tempo?

Cercavo
di manifestare la straordinaria armonia che esiste tra la Parola di Dio, la
dottrina cristiana che ne consegue e la vita quotidiana. Per capire sempre
meglio e sempre di più qual era il disegno che il Signore aveva su di me,
approfondivo le radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della
Regola di san Benedetto, dando così origine e consistenza a una riflessione che
incideva sia nella prassi del popolo cristiano, che nella vita dei consacrati.
In questo modo, la pratica dell’obbedienza alla regola di vita del nostro
grande fondatore, san Benedetto da Norcia, faceva sì che la semplicità
dell’esistenza, l’ospitalità e la carità verso gli altri, fossero vissute come
una totale imitazione di Cristo. Proprio attraverso questa testimonianza si
riesce a lasciare traccia del mistero di Dio che agisce nella nostra vita.

Immagino che la considerazione culturale
che ti eri conquistata e la tua fama di santità abbiano richiamato discepoli –
o meglio, discepole – che volevano vivere la vita comunitaria accanto a una
persona così straordinaria, benedetta dal Signore con grazie particolari.

Quella
fu una stagione meravigliosa, le sorelle cominciarono ad arrivare e a un certo
punto diventammo così numerose che intorno al 1150 fondammo un monastero sul
colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove mi trasferii insieme a
diverse consorelle. Nel 1165, ne istituii un altro a Eibingen, sulla riva
opposta del Reno. In entrambi i monasteri fui nominata badessa, ma la mia
preoccupazione principale fu quella di curare sempre il bene spirituale e
materiale delle consorelle, che sentivo ormai figlie mie, favorendo in modo
particolare l’armonia della vita comunitaria, l’istruzione delle persone e una
pratica liturgica sempre accurata. Nei nostri monasteri davamo rilievo
all’ospitalità: accogliere cioè chi ricercava un luogo per riposare, pregare,
istruirsi e stare un po’ di tempo insieme al Signore.

Durante la tua vita sei entrata in
contatto con personaggi illustri del tuo tempo, ce ne vuoi parlare?

Ebbi
uno scambio di lettere con l’imperatore Federico Barbarossa, con il conte
Filippo d’Alsazia, con san Beardo di Chiaravalle e con il Papa Eugenio III.
L’imperatore Federico Barbarossa si pavoneggiava un po’ dicendo che lui era il
mio protettore, ma quando si schierò contro il Papa Alessandro III, nominando
ben due antipapi, io e Beardo da Chiaravalle gli scrivemmo una lettera di
fuoco per aiutarlo a riconsiderare la cosa. Devo dire che Federico accettò il
nostro richiamo e non intraprese nessuna iniziativa punitiva nei nostri
confronti.

Se non vado errato, ti sei occupata oltre
che di teologia, di politica, ecc., anche di scienza e di medicina.

Beh,
con le conoscenze del tempo, più che di scienza e di medicina, badavo al
rapporto che l’uomo, con le sue emozioni e con la sua razionalità, può avere
con la natura, perché questa è una preziosa alleata quando si tratta di guarire
dalle malattie. C’è un’energia vitale tra la creatura e il creato che sfugge a
un’esperienza empirica, ma che è profondamente vera e autentica in una
dimensione spirituale. Il rapporto, infatti, tra la persona e l’universo, è un
rapporto fondamentale che Dio stesso ha voluto. Bisogna aver cura quindi di ciò
che ci circonda. Il nostro pianeta, se trattato bene, saprà ridare il centuplo
all’uomo che ha nei suoi confronti un’attenzione tutta particolare.

Cara sant’Ildegarda, pur essendo tu una
figura di spicco del XII secolo, sei più modea di tanti nostri contemporanei.

Il
Signore, nella sua divina sapienza e benevolenza, fa in modo che le persone
considerate punti di riferimento per la loro vita cristallina non siano
soltanto ammirate da chi vive durante la loro epoca, ma siano esempio per ogni
tempo.

Sant’Ildegarda
di Bingen morì il 17 settembre 1179. Fu proclamata Santa a furor di popolo
quasi subito. Papa Giovanni Paolo II nella ricorrenza dell’ottocentesimo
anniversario della sua morte, la definì «la profetessa della Germania», una
donna «che non esitò ad uscire dal convento per incontrare, intrepida
interlocutrice, vescovi, autorità civili, e lo stesso imperatore Federico
Barbarossa». Alla santità del genio di Ildegarda, Papa Wojtyla fa cenno
nell’Enciclica sulla dignità femminile, Mulieris Dignitatem. Nel maggio
del 2012, Benedetto XVI l’ha proclamata Dottore della Chiesa.

 
Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara

Mario Bandera

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