AFRICA, la mia terra

Incontrare le culture: imperativo per la convivenza e urgenza pastorale

Danze, canti, poesie e conferenze in un convegno «a tutta Africa». Incontro – confronto con il mondo africano attraverso il racconto fatto dagli immigrati presenti in mezzo a noi; per iniziare a conoscee cultura, mondo spirituale e stile di vita.

Viene da sorridere con un po’ di amarezza leggendo questi versi. Dove si nasconde quest’Africa così bella? Africa, dalla natura contaminata per i troppi scempi provocati dall’uomo: ambientali, sociali, politici. Contaminatissima Africa, donna che tutti vogliono e tanti, troppi possiedono, gente che fa  di tutto, ma proprio tutto, per poterla conquistare.
Questi versi, però, li ha scritti Osmund, un nigeriano grande e grosso, immigrato in Italia come tanti suoi connazionali e con, probabilmente, una lunga storia alle spalle da raccontare; questi versi li ha scritti per un’occasione speciale: non per parlare della nuova terra che lo ospita o del viaggio fatto per raggiungerla, bensì per raccontare qualcosa del mondo da cui viene, dell’Africa che ha lasciato, dell’amore per il suo continente.
«L’Africa si racconta» è il titolo di una giornata speciale di musica, immagini e parole dedicate al continente africano, che si è tenuta a Torino il 18 novembre scorso, presso i missionari della Consolata. Promosso dall’«Ufficio di pastorale migranti» della diocesi torinese, l’incontro è stato un’occasione di ascolto e confronto su vari aspetti del mondo africano e della sua cultura vissuti nell’esperienza di immigrati presenti in mezzo a noi. Oltre a Osmund hanno partecipato Kenneth, Marie Noelle, Restituta, Peter, Jean Nöel ed Erasto, provenienti da parti diverse del continente, ciascuno con la propria esperienza di vita e la voglia di condividerla. Tutta africana è anche stata l’organizzazione dell’evento, che ha avuto come motore trainante la comunità ecumenica nigeriana (con l’accompagnamento dei missionari e delle missionarie della Consolata) e la collaborazione di altre comunità africane presenti a Torino.  L’idea di fondo è stata quella di lasciare che, per una volta, l’Africa potesse raccontarsi facendo emergere la propria storia dalle storie  personali dei suoi protagonisti, senza servirsi, come sovente accade, delle mediazioni. Il rischio che si voleva evitare era duplice: da un lato lasciare che l’Africa venisse raccontata, come spesso accade, da non africani. Dall’altro, l’appiattirsi in attività, anche pastorali, concepite senza tener conto di una diversità che reclama attenzioni particolari alle varie identità culturali. Si è voluto evitare anche l’apporto di specialisti, privilegiando la freschezza e la spontaneità dell’approccio all’approfondimento. Quattro chiacchiere tra amici o, meglio, tra gente che vuole essere amica, su temi importanti su cui si gioca la sfida del vivere insieme. Si è voluto che l’Africa raccontasse se stessa grazie alla voce di chi, nel cuore, nella mente e sulla pelle, fa leggere agli altri con chiarezza, orgoglio e semplicità il suo essere africano.
Osmund si è imbarcato in un tema difficile: la religiosità africana nel mondo del bene e del male. Ne ha parlato con entusiasmo, non da specialista, ma da persona impegnata per anni in un gruppo ecumenico che a Torino riunisce cristiani di varie confessioni, tutti di origine africana e di lingua inglese. Il suo è stato un viaggio all’interno della religiosità tradizionale, per cercare di spiegare con parole semplici il mondo dei simboli, dei riti, del mistero che influenza la visione del cosmo e l’etica dell’uomo africano. Osmund ha fatto accenno al carattere pervasivo della religiosità africana, che coinvolge la totalità della vita della persona e della comunità: nascita, matrimonio, famiglia, posterità e morte. Ha fatto accenno al difficile rapporto fra religione ed etica, con il ruolo centrale giocato dal sacerdote tradizionale, capace di influenzare la comunità attraverso il potere che gli viene attribuito dalla sua speciale relazione con il mondo degli spiriti. Un accenno importante è stato anche fatto in merito ai cambiamenti che la modeità ha apportato e continua ad apportare nel modo in cui gli africani si relazionano oggi con il trascendente.
Il carattere fortemente impregnato di religiosità della vita africana coinvolge, come si è detto, altri aspetti dell’esistenza. Kenneth, ad esempio, anch’egli nigeriano e impegnato nel gruppo cristiano-ecumenico, ha dedicato la sua riflessione al tema «famiglia e comunità». Analizzando gli stereotipi che più frequentemente deve ascoltare su questo argomento, Kenneth ha toccato temi come la famiglia tra tradizione e modeità, la poligamia, il clan, riassumendo il forte vincolo che si viene a creare fra membri della stessa famiglia con il detto africano: «Io esisto perché gli altri esistano». Il senso della comunità è così forte che la persona finisce con il non contare in quanto singolo, ma soltanto come membro della comunità. Nella sua relazione ha evidenziato come il tentativo di affermare la propria individualità venga considerato dagli altri membri della comunità come vero e proprio desiderio di prevaricazione. Ciò che si deve perseguire non è il vantaggio personale, ma l’interesse della famiglia, sia nucleare che allargata.

Il tema della famiglia ha trovato il suo sbocco naturale nella riflessione offerta da don Jean Nöel, sacerdote del Madagascar attualmente in servizio presso la diocesi di Torino. Attraverso la virtù dell’ospitalità, la forte unione familiare africana si apre verso l’esterno, verso l’accoglienza dello «straniero». L’ospitalità è rispetto, dono, dialogo. Come il relatore ha ricordato, l’ospitalità africana tradizionale trascende il confine segnato dal focolare domestico, ma si apre a tutti gli ambienti di socializzazione. La scuola, gli ospedali, gli uffici, ma soprattutto la strada, sono ambienti dove l’ospitalità viene riconosciuta come una virtù tra le più importanti, come un vero e proprio segno di accoglienza.
Suor Restituta, missionaria della Consolata tanzaniana, ha ricordato come tutti i valori in discussione (famiglia, comunità, ospitalità, religiosità) passino attraverso il ruolo della donna.  «Una donna è un fiore in un giardino – recita un proverbio del Ghana con cui suor Restituta ha voluto iniziare il suo intervento – suo marito è la recinzione intorno a lei». Vera «pietra angolare» della famiglia, la donna è l’agente propulsore della società africana: «È attraverso la sua fantasia, il suo duro lavoro, il suo elevato senso del rispetto reciproco che, ogni giorno, viene rafforzata la vita della famiglia e della comunità». Partendo dalla figura della donna, sottolineandone gli stravolgenti ritmi di lavoro quotidiano per mantenere la propria famiglia, suor Restituta si è spinta a fare delle considerazioni importanti anche sul senso stesso del lavoro e sull’uso del tempo. Due argomenti fra loro collegati e fonte di frequenti incomprensioni fra l’africano emigrante e noi, gente del Nord. Per l’africano, il senso del tempo differisce enormemente da quello frenetico al quale ci siamo abituati. Il tempo è in funzione della persona, non viceversa. Come conciliare allora la mentalità imperante del «time is money» (il tempo è denaro), con quella alternativa dell’«African time», ovvero del tempo inteso, anche e soprattutto, come occasione per incontrarsi, ascoltarsi, osservare la realtà che ci sta intorno e che rappresenta il terreno comune su cui siamo chiamati a relazionarci? Suor Restituta non ha offerto soluzioni, ma il suo appello a continuare il confronto su questo tema non deve esser lasciato cadere.
La camerunense Marie Noelle ha invece parlato di vita, morte, malattia e antenati. Lo ha fatto con grande entusiasmo e simpatia. Come non crederle, per esempio, quando ha ribadito l’amore che gli africani hanno per la musica e la danza, oppure quando ha affermato che non esiste vita senza musica, festa, stare insieme? Bastava guardarla muoversi sul palco: nel moto perpetuo delle sue gambe e nell’oscillare ritmico delle sue braccia stava la prova vivente di quanto veniva dicendo. Marie Noelle ha parlato di «vita», presente anche nella sofferenza; vita riscoperta nella malattia, nel dolore, nel lutto grazie alla forza dello stare insieme, della famiglia, della comunità.
Peter, tanzaniano e missionario dello Spirito Santo, invitato in veste di cappellano della comunità africana anglofona di Torino, ha invece messo l’accento sulla realtà delle divisioni etniche in Africa. Nel suo intervento ha ricordato che parlare di Africa vuol dire riferirsi a un universo molto complesso e variegato (alcuni relatori hanno di fatto riconosciuto che, pur parlando di tratti specificatamente africani della cultura, stavano in realtà presentando il volto nigeriano, tanzaniano o malgascio del continente) e che il forte carattere familiare e tribale, indubbio valore della società africana, può diventare causa di divisione e conflitto quando viene esageratamente esaltato.
Erasto, missionario della Consolata tanzaniano, ha fatto gli onori di casa, introducendo e cornordinando i vari interventi e aggiungendo qui e là qualche perla di saggezza e buonumore. Il resto della serata si è perso nei colori e nei suoni del continente africano. Balli, canti e una sfilata di costumi tradizionali africani hanno movimentato il pomeriggio al di là delle parole.
«Adesso viene il bello», verrebbe da dire a conclusione di questo convegno che ha riunito insieme una platea di circa 300 persone, tra cui diversi rappresentanti delle istituzioni. Il primo passo importante è stato fatto e ha coinciso con l’affermazione di un «esserci». Ora, però, rimane il tragitto più lungo, quello dell’interculturalità. Come far sì che, dall’affermazione di un’identità –  «Siamo fatti così, prendeteci come siamo» – si possa passare ad un dialogo più profondo fra le varie comunità? Questo è il nocciolo della questione e la meta alla quale questo incontro voleva puntare.
Forse si potrebbe ipotizzare un passo successivo affinché questo bellissimo ritrovarsi non si perda nell’elenco delle occasioni mancate e venga ricordato per i suoi tratti più folcloristici: quello di privilegiare una dinamica basata sul racconto delle esperienze di vita. Il migrante africano che si racconta in quanto tale, con il bagaglio della sua esperienza e della sua cultura messa questa volta a contatto con un mondo «altro» che ha incontrato. Accenni sono stati fatti, c’è buona strada per continuare il cammino e per far sì che l’incontro culturale porti frutti abbondanti in tutti i campi del nostro vivere sociale, incluso quello pastorale ed ecclesiale.  

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli

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