Iraq – “Aspettiamo la pace. Con pazienza”

Si chiama Emmanuel III Karim Delly
la nuova guida della chiesa caldea irachena. Pur arrivando con una fama di moderato,
il patriarca di Baghdad non evade le domande della nostra inviata. Sulla guerra: nessuno
in Iraq la voleva. Sulle truppe d’occupazione: dovrebbero andarsene,
ma gradualmente. Sull’islam: sono ottimi i nostri rapporti con i musulmani. Sull’Arabia Saudita: non lavora per la pacificazione. Sui compiti delle guide spirituali: indicare ai fedeli la retta via. Con un obiettivo preciso:
riportare un minimo di normalità nel paese.

Basilica di San Pietro, 5 dicembre 2003. In una suggestiva atmosfera, l’aramaico, la lingua che discende da quella di Gesù e che è patrimonio della maggioranza dei cristiani iracheni, è riecheggiato tra le volte sottolineando i momenti più salienti della cerimonia di nomina del nuovo patriarca della chiesa cattolica caldea, Emmanuel III Delly.
Gli auguri del pontefice sono arrivati attraverso la voce del cardinale Ignazio Daoud Moussa, prefetto della Congregazione per le chiese orientali. Nel suo messaggio, Giovanni Paolo II ha rinnovato l’unione tra la chiesa caldea e quella romana che, con altee vicende, ha avuto inizio ben 502 anni fa quando dal monastero di Rabban Hormizd, nel nord dell’Iraq, l’abate Yohanna Sulaqa partì alla volta di Roma per ricercare l’unione che la chiesa d’Oriente, cui tutti i cristiani della Mesopotamia appartenevano, aveva perso nel 431 A.D. al Concilio di Efeso, quando era stata accusata di eresia per aver sposato la dottrina di Nestorio.
La nomina di mar («mio signore», in siriaco antico) Emmanuel III, come sarà chiamato dai suoi fedeli, non è stata priva di problemi. Prima di tutto è avvenuta in un momento molto delicato per la storia dell’Iraq; in secondo luogo, per essa si è dovuto fare ricorso al canone 72 del codice di diritto canonico per le chiese orientali, secondo il quale se, durante il sinodo elettivo, nessun candidato raggiunge almeno i 2/3 dei voti, la decisione sul nome del patriarca passa al pontefice romano. Nessun nome infatti era uscito dal sinodo tenutosi a Baghdad (dal 19 agosto al 2 settembre 2003).
La scelta di mar Emmanuel III appare allora il frutto di un’equilibrata politica vaticana tesa a dare alla chiesa cattolica caldea una guida spirituale in grado di sedare le tensioni venutesi a creare dopo la scomparsa (avvenuta a Beirut il 7 luglio 2003) del precedente patriarca, mar Raphael I Bedaweed, tra i vescovi residenti in Iraq e quelli della diaspora caldea, più risoluti a partecipare attivamente alla vita politica del paese.
Mar Delly, inoltre, sembra, almeno per ora, avere un atteggiamento più collaborativo nei riguardi dei nuovi organi di governo iracheni di quanto avrebbe potuto avere il defunto patriarca, distintosi negli anni nella difesa ad oltranza del governo di Saddam, ed essere, di conseguenza, più gradito agli stessi.

Mar Emmanuel III Karim Delly è nato a Telkeif, un villaggio vicino Mosul, nel 1927. Nominato vescovo nel 1963 ed arcivescovo nel 1967, si è ritirato nell’ottobre del 2002. Il 21 dicembre, data della cerimonia di consacrazione svoltasi a Baghdad, ha coinciso con il compimento del suo 53° anno di servizio sacerdotale.
Il giorno dopo la sua nomina romana lo abbiamo raggiunto per una breve intervista dai toni pacati.

Beatitudine (termine con cui ci si rivolge ai patriarchi caldei, ndr), la chiesa caldea, che accoglie circa il 70% dei cristiani iracheni ha di nuovo una guida spirituale. Che riflessi avrà la sua nomina, in un momento così delicato?
«La mia nomina non cambierà le cose perché il cammino della chiesa è immutabile nei secoli e la sua missione rimane quella di essere portatrice di pace e fratellanza come ci ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo bisogno di pace e serenità perché abbiamo sofferto troppo; le guerre contro i curdi e contro l’Iran, la guerra del Golfo, 13 anni di embargo ed ora questo conflitto non ancora finito hanno stremato la popolazione irachena, ed i cristiani non fanno eccezione.
I problemi sono ancora molti, così come sono molti gli iracheni, specialmente giovani, che vorrebbero abbandonare il paese. Prima volevano farlo per evitare il servizio militare che durava anni ed era durissimo, ora a spingerli sono le difficoltà economiche e quelle legate alla mancanza di sicurezza e lavoro. Purtroppo però è ancora molto difficile per gli iracheni ottenere i visti da paesi stranieri».

Come vede il futuro del paese?
«Nessuno in Iraq, cristiano o musulmano, voleva la guerra, perché la pace non si dà con essa, ma con il dialogo. Noi siamo grati alla Francia ed all’Italia la cui popolazione si è espressa contro la guerra. D’altra parte, colgo l’occasione per porgere le mie più sentite condoglianze alle famiglie dei carabinieri e dei soldati italiani che hanno perso la vita nell’attentato di Nassiriya. E per ringraziare tutti quei bravi ragazzi, italiani e non, che erano lì per servirci e proteggerci, ma purtroppo hanno trovato la morte».

Questi episodi sono atti di terrorismo o di resistenza?
«Bisognerebbe sapere chi li compie, ed io non lo so. Ciò che so è che nessun uomo di fede, che sia cristiano o musulmano, se segue le parole del vangelo o del corano, può compiere tali crimini. La maggior parte degli iracheni, infatti, non vi è coinvolta e non li approva, ma certamente ci sono ancora elementi fedeli al Baath, altri legati ad Al Qaeda e qualche paese straniero che vuole un Iraq instabile».

Qualche nome?
«L’Arabia Saudita, ad esempio, che non gradisce che l’Iraq diventi una democrazia e che le sue ricchezze possano essere, come ci auguriamo, patrimonio non più solo del regime, ma dell’intero popolo. Se così sarà, la famiglia saudita che invece detiene tutte le ricchezze del paese (che in campo petrolifero sono addirittura superiori a quelle irachene) potrebbe soffrire nel paragone con noi».
I tempi per il raggiungimento della pace hanno di gran lunga superato quelli della guerra intesa come confronto tra eserciti. Che speranze ci sono perché essa si realizzi?
«Ci hanno promesso la pace, ma per averla ci vuole pazienza ed io dico “dateci tempo, abbiate pazienza”. Dobbiamo sperare e chiediamo a tutto il mondo, quello cristiano e non, di pregare e di affidare a Dio il destino di questa terra di pace, la terra di Abramo».
Il nuovo corso della politica americana in Iraq vede un’accelerazione del disimpegno Usa nel paese ed un più rapido passaggio di potere agli iracheni. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Certamente le truppe di occupazione dovranno lasciare l’Iraq, ma sarebbe auspicabile che lo facessero gradualmente. Se si comporteranno in maniera appropriata, saranno gli stessi iracheni a chiedere loro di rimanere».
Se ho ben compreso, lei dice che le truppe rimangano pure, ma a ben precise condizioni. Quali?
«A condizione che rivedano da subito i loro comportamenti. Non si possono uccidere 54 persone in un solo giorno accusandoli di essere terroristi, perché non tutti sono terroristi, come non tutti gli iracheni facevano parte del Baath, il partito al potere. Gli americani hanno anche sbagliato a licenziare tutti i funzionari, i soldati ed i poliziotti con l’accusa di complicità con il regime, perché così facendo hanno ridotto sul lastrico intere famiglie lasciate senza alcun reddito. Avrebbero dovuto distinguere tra i criminali da condannare e le persone normali».
Perché questa guerra?
«La guerra all’Iraq è stata fatta per tutti i beni che la terra irachena possiede. Volevano i nostri beni? Bene! Che se li prendano, ma che li usino a favore del popolo iracheno, depredato di essi dal passato regime che li usava per acquistare armi. Che li usino a favore delle popolazioni povere del Medio Oriente e dell’Africa».

Che rapporti ci sono ora tra la comunità cristiana e quella musulmana?
«Ottimi. Da quando sono stato nominato patriarca ho già ricevuto delle telefonate di congratulazioni proprio da alcun capi religiosi musulmani, sunniti e sciiti. Quando toerò in Iraq mi recherò personalmente nelle loro case per ringraziarli e iniziare il dialogo necessario per vivere in pace nel futuro».

Il ministero degli Affari religiosi che regolava ogni aspetto della vita religiosa del paese è stato sciolto. Chi e cosa ne fa le veci?
«Sono state create 3 distinte commissioni: una per i sunniti, una per gli sciiti ed una per i non musulmani che si occuperanno degli affari amministrativi. La presidenza della commissione per i non musulmani è stata affidata ad un cristiano cattolico caldeo».

I decreti che il regime di Saddam Hussein aveva approvato e che discriminavano la popolazione non cristiana sono ancora in vigore?
«Quasi tutti i decreti approvati dal Baath sono stati annullati. Ora possiamo battezzare i nostri bambini con qualsiasi nome: non dobbiamo più scegliere tra quelli biblici ma presenti anche nel corano, e non siamo più obbligati ad usare la loro versione araba.
Per quanto riguarda i figli di un genitore cristiano convertito all’islam, ai quali veniva di fatto imposta la conversione ad esso, è un problema non ancora risolto ma ho fiducia che lo possa essere nel futuro».

Potrete riaprire le scuole confessionali, confiscate e nazionalizzate in passato?
«Sì. Potremmo farlo fin da ora, ma abbiamo deciso di aspettare un po’. Le scuole hanno bisogno di essere rimesse a posto e gli insegnanti devono poter contare su adeguati stipendi. Tutte cose che, per ora, sono al di fuori della nostra portata, ma che sicuramente realizzeremo».

C’è ancora l’obbligo di dichiarare sui documenti di identità la propria appartenenza etnica (arabo o curdo) e la propria religione (musulmano o non musulmano)?
«Anche questo è un problema ancora non risolto. Ciò che io mi auguro è che un domani i nostri documenti possano riportare solo la scritta “iracheno” senza nessuna aggiunta. La religione è solo di Dio e spero che questo sarà ben chiaro nella nuova costituzione».

Che ruolo avrà la chiesa nel processo di pacificazione del paese?
«I capi religiosi iracheni, cristiani e musulmani, hanno il compito di instillare nei propri fedeli la pazienza di sopportare l’attuale situazione. Per quanto riguarda i cristiani il nostro dovere è di seguire le parole di San Paolo che ci hanno insegnato ad obbedire ai nostri superiori. Abbiamo obbedito al passato governo e lo faremo con il prossimo».

Quale sarà il suo coinvolgimento nel futuro politico del suo paese?
«Non bisogna chiedere ad un medico di costruire una casa perché quella casa crollerebbe, né chiedere da un ingegnere di operare un paziente perché quel paziente morirebbe, così non si può chiedere ad un religioso di fare il politico. Il compito dei capi spirituali, sia cristiani che musulmani, è conoscere la politica ma non impegnarsi attivamente in essa. Ciò che possiamo fare è guidare i nostri fedeli, consigliando loro la retta via, secondo i precetti della religione. Ma possiamo, appunto, solo consigliarli, non obbligarli. E sperare che seguano le nostre parole».

È troppo presto per valutare se il desiderio espresso dal nuovo patriarca caldeo di occuparsi delle anime dei suoi fedeli e non di politica potrà avverarsi. Certo dovrà lottare per farlo, se nel collegio romano, che ha ospitato i partecipanti al sinodo, a soli due giorni dalla sua nomina, era presente di persona, armato di volantini propagandistici, Minas Ibrahim al Yusufi, presidente di uno dei tanti partiti nati nel dopo Saddam, l’Iraqi Christian Democratic Party, alla ricerca di visibilità ed appoggi.

Luigia Storti

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