La politica del “pombe”


Il 14 ottobre 1999 scompariva
una delle figure più significative dell’Africa. I detrattori
gli rinfacciano insuccessi e contraddizioni.
Eppure Julius Nyerere passerà alla storia come statista esemplare per coerenza morale e incrollabile fede in un futuro migliore per tutti gli africani

«Non siamo qui per ingannare la nostra gente, ma per dichiarare al paese ciò in cui crediamo». Con queste parole, rivolte al parlamento tanzaniano alla vigilia dell’indipendenza (1961), Julius Nyerere, capo del governo di transizione, indicava lo spirito con cui bisognava scrivere la nuova Costituzione e poi governare.
Con tale spirito di servizio ha guidato il paese all’indipendenza senza spargimento di sangue, ha amalgamato 130 etnie in un’unica nazione, ha garantito 30 anni di stabilità politica e di pace. E questo a differenza di quasi tutti i paesi dell’Africa.
Insuccessi economici e contraddizioni politiche non ne sminuiscono il prestigio. Per rettitudine e coerenza morale la sua figura si eleva al di sopra di quasi tutti i leaders dei paesi africani usciti dal colonialismo.
LA PERSONA
Era nato nel 1922 a Butiama, sulle sponde orientali del lago Vittoria, nella minuscola etnia zanaki. «Figlio di un capo – riderà un giorno di sé – indossai per la prima volta un vestito a dodici anni, quando mi portarono a scuola».
Recuperò in fretta gli anni perduti; si diplomò all’università di Makerere (Uganda) e, primo tanzaniano a studiare in una università britannica, si laureò a Edimburgo.
Fu a lungo insegnante di scuola secondaria nella missione cattolica di Pugu, dove affinò la sua dote più caratteristica: l’arte di comunicare con la gente con chiarezza e convinzione. Per tutta la vita vorrà essere chiamato mwalimu (maestro), definendosi tale per scelta, politico per caso.
A spingerlo nell’impegno politico furono i valori acquisiti con l’esperienza personale, la visione delle condizioni della sua gente, la profonda fede religiosa, le letture eclettiche fatte durante gli studi universitari.
Lavoratore instancabile, semplice e senza esigenze, Nyerere godeva di incontrare la gente; parlatore convinto ed efficace, la elettrizzava per ore con una loquela ricca d’immagini appropriate, proverbi e battute.
Il suo costante sorriso esprimeva affabilità, disponibilità e rispetto verso ogni persona che incontrava. Durante i festeggiamenti del saba saba (7 luglio, anniversario della fondazione del Tanu -Tanganyika African National Union), svoltisi a Iringa nel 1976, lo vidi lasciare il corteo presidenziale per salutare due missionarie della Consolata, conosciute anni prima in una scuola governativa: si fermò così a lungo che anche Samora Machel, presidente del Mozambico da poco indipendente e ospite d’onore, lasciò il corteo per parlare anche lui con le suore.
Cattolico praticante, confessione frequente e comunione spesso quotidiana, Nyerere si è fatto stimare per il rispetto verso ogni credo religioso. Parlando della sua fede, affermava che la scelta era maturata dopo un’attenta ricerca sulle varie religioni, finché si convinse che la chiesa cattolica rispondeva meglio alle sue esigenze spirituali.
Padre di otto figli, il mwalimu non spese mai una parola per assicurare loro alcun privilegio.
Non si riteneva un profeta; eppure si attribuiva una missione da vivere con onestà e passione. La componente cattolica non prevalse mai nella funzione di presidente; ma la forte componente ascetica lo portò, forse, a illudersi di poter chiedere alla sua gente livelli evangelici di dedizione irraggiungibili per la massa.
IL PARTITO UNICO
Accusato di essere antidemocratico, Nyerere affermava che il partito unico era una scelta obbligata: culturalmente impreparato alla democrazia, il paese avrebbe rischiato l’isterismo politico di altri stati africani, diventando facile preda di demagoghi abili nel cavalcare i malumori tribali o religiosi.
Il «serrate le file» del mwalimu trovava nel partito unico i presupposti per la stabilità del governo e l’accelerazione dello sviluppo economico. «Il modello tanzaniano per migliorare la qualità della vita della gente – sottolineava J. Marensin – è anzitutto un progetto politico, teso a creare l’indipendenza e unità del paese, per passare alla soluzione dei problemi a mano a mano che si presentano».
La democrazia vissuta in Tanzania non soddisfa certo i canoni di quelle occidentali, specie in fatto di libertà di stampa e opinione. Il modello di socialismo africano ha imbrigliato la democrazia tanzaniana con morse molto strette, ma l’ha anche tenuta in piedi. L’unione con Zanzibar (1964) non passò al vaglio di alcuna consultazione popolare, tuttavia riuscì a fermare i disordini cruenti provocati dall’odio fra diverse etnie. L’apparato del partito ha inevitabilmente influenzato le consultazioni popolari, ma esse si sono sempre svolte in un clima sereno e festoso.
Una macchia della democrazia tanzaniana furono le leggi sulla «detenzione preventiva», varate dopo un tentato colpo di stato; ma «anche nel periodo di maggior rigore non hanno toccato più di qualche centinaio di persone» (Marensin). Candidato presidente per la terza legislatura, Nyerere accettò con riluttanza, dichiarando che a renderlo perplesso era proprio quella legge antidemocratica, che non poteva ancora permettersi di abrogare.
Nel 1985 rinunciò volontariamente a ricandidarsi alla presidenza e nel 1990 si dimise da capo del partito, per dare spazio a idee ed energie nuove. Un gesto esemplare per il continente africano, dove autoproclamatisi presidenti a vita continuano a mantenere il potere mediante elezioni più o meno democratiche.
UJAMAA: FAMIGLIA ESTESA
Imposta al paese negli anni ’70, l’ujamaa era la traduzione tanzaniana del concetto di «socialismo» nella sua forma più accettabile, codificato nella «Dichiarazione di Arusha» (1967), magna charta del socialismo africano professato da Nyerere e dal partito unico. Alla base di tale scelta ideologica vi erano motivi politici, economici e culturali.
Motivo politico. Primo paese dell’Africa orientale ad avventurarsi sulle sabbie mobili dell’indipendenza, il Tanzania si sentiva accerchiato dal colonialismo portoghese e britannico ancora operante nei paesi limitrofi. In Sudafrica e Rhodesia cresceva l’oppressione dell’apartheid, con la copertura e connivenza del mondo occidentale. Sperare in un appoggio disinteressato dell’occidente era più che improponibile.
Motivo economico. Al momento dell’indipendenza, commercio e industrie del paese erano monopolio di asiatici, poco più di 100 mila, europei e un’esigua e ininfluente frangia africana. Per i militanti del Tanu la scelta socialista sembrava l’unica via per rompere tale accerchiamento economico.
Motivo culturale. Oltre che dalle letture sul capitalismo moderato e socialismo a sfondo cristiano, tale motivazione nasceva dalla personalità stessa di Nyerere. «Gli erano naturali l’etica aristocratica e la scarsa stima del denaro, propria delle etnie guerriere e pastorali da cui proveniva» (Marensin). Per questo trovò nell’ideale socialista la carica profetica che lo spingeva a guidare il paese verso l’indipendenza, l’unità, il progresso e il sistema socio-politico più vicino alla cultura e coinvolgimento comunitario della tradizione africana.
«Il socialismo, come la democrazia, è un atteggiamento dell’animo – scriveva nel suo libro Freedom and Unity -. Nella società socialista il requisito essenziale, perché la gente abbia a cuore il benessere vicendevole, è l’atteggiamento della mente, non la rigida adesione a un modello politico definito. Il fondamento e l’obiettivo del socialismo è l’estensione della famiglia. Il vero socialista africano non guarda a una classe di uomini come fratelli e all’altra come naturali nemici; egli guarda piuttosto a tutti come suoi fratelli, membri di una famiglia estesa».
CAMMINO DIFFICILE
«Secondo la Dichiarazione di Arusha – afferma Nyerere in Freedom and Socialism – scopo di ogni attività sociale, economica, politica deve essere l’uomo, il cittadino e tutti i cittadini di questa nazione. Produrre ricchezza è cosa buona e dobbiamo sforzarci di accrescerla. Ma non sarà più buona, appena la ricchezza cesserà di essere a servizio dell’uomo».
Strumento privilegiato per attuare questi ideali fu l’istruzione: per vari anni le venne destinato il 12% del bilancio statale. Il Tanzania diventò uno dei paesi africani col più alto livello di alfabetizzazione. Ma quando le scuole furono nazionalizzate, cominciò il degrado di strutture e standard d’insegnamento.
La ricerca di equilibrio fra privato e comunitario fu un problema spesso contraddittorio, come dimostra la storia delle cornoperative private. Incoraggiate fin dalla nascita del Tanu (1954) come strumento di progresso e dichiarate da Nyerere parte integrante della vita nazionale, all’inizio del 1970 Derek Bryceson, ministro dell’agricoltura, le definì strutture di latifondismo e fonti d’ineguaglianza. Abolite nel 1976, furono risuscitate nel 1983, per essere definitivamente smantellate dal processo di nazionalizzazione insieme alle banche, compagnie assicurative e grandi aziende.
Per Nyerere la «cornoperativa» dell’ujamaa restava la pietra angolare della politica di autosufficienza, strumento privilegiato di progresso economico. Negli anni 1967-69, il governo fece uno sforzo impressionante per dotare i villaggi di macchinari agricoli modei, che diventarono presto inutile ferraglia, per mancanza di tecnici e manutenzione. E per assicurare un adeguato guadagno ai contadini, fu creato l’ammasso dei prodotti agricoli di consumo ed esportazione; iniziativa scaduta a strumento fiscale a vantaggio del governo e del partito.
L’ujamaa doveva realizzarsi mediante l’adesione volontaria, nell’intenzione del mwalimu, convinto che si possa obbligare la gente a vivere in uno stesso villaggio, ma non a lavorare assieme. A partire dal 1974, però, il processo di «villaggizzazione», già avviato in alcune regioni, fu esteso forzatamente a tutto il paese.
Tale operazione non mancò di produrre effetti positivi, rendendo accessibili a tutti i servizi primari: acqua, scuola e dispensari. Ma sul momento impose notevoli sacrifici alla popolazione, in maggioranza riluttante alle fattorie collettive. Sotto l’aspetto economico fu un fallimento. La produzione agricola diminuì sensibilmente: molti terreni fertili furono abbandonati, perché troppo lontani dai nuovi insediamenti e quelli vicini richiedevano tempi lunghi prima di diventare produttivi.
La stagnazione economica fu aggravata da persistenti siccità e dalla crisi petrolifera: Nyerere dovette dar ordine di vuotare le banche per comprare le derrate.
Le difficoltà economiche sperimentate dagli anni ’70 in poi, mettono in dubbio la validità della politica economica di Nyerere, ma non sembra ci fossero valide alternative in un paese come il Tanzania, ricco di fauna e bellezze naturali, ma terribilmente avaro di risorse che permettano una rapida crescita economica.
GUERRA CONTRO AMIN
Verso la fine del 1978 il Tanzania fu inaspettatamente invaso dai soldati ugandesi di Idi Amin. La risposta di Nyerere fu immediata. L’esercito tanzaniano, insieme agli esuli ugandesi, cacciarono gli invasori, passarono le frontiere e conquistarono la capitale, Kampala, per liberare il paese dal regime del sanguinario dittatore.
La guerra contro l’Uganda è l’episodio più sconcertante della vita del mwalimu: uomo di pace, fu il primo statista africano dell’era postcoloniale a invadere un paese africano e conquistae la capitale. Più sorprendente fu la reazione internazionale: nonostante l’universale condanna delle atrocità commesse da Amin, il Tanzania fu lasciato solo nella dispendiosa impresa per sloggiare il dittatore. Anzi, molti paesi africani presero subito le distanze da Nyerere, rimproverandolo di violare i principi dell’Organizzazione di unità africana, e le potenze occidentali lo isolarono, considerando la sua avven- tura senza infamia e senza lode.
Eppure Nyerere diede al mondo un’esemplare lezione di affermazione dei diritti umani, come aveva fatto negli anni precedenti, offrendo asilo ai movimenti di liberazione in lotta contro il colonialismo portoghese e schierandosi in prima linea con i paesi contrari ai regimi razzisti del Sudafrica e Rhodesia.
Più che l’immagine di Nyerere, fu il paese a pagare il prezzo della guerra ugandese: il Tanzania ne uscì economicamente dissanguato e dovette chiedere aiuti al Fondo monetario internazionale (Fmi). La nazione cominciò a dipendere dagli aiuti stranieri più di ogni altro paese africano.
Tale richiesta fu dibattuta con acrimonia nel paese, poiché minava l’indipendenza autarchica per cui Nyerere si era battuto. Le drastiche misure imposte dall’Fmi (svalutazione monetaria, liberalizzazione dei prezzi e apertura delle frontiere alle importazioni) avrebbero aggravato la situazione dei più poveri, contadini soprattutto, a vantaggio dei soliti faccendieri.
Con la liberalizzazione saltò anche il codice etico del partito, ratificato dalla Dichiarazione di Arusha, che impediva a ministri e dirigenti di partito di approfittare del potere per scopi privati. La corruzione, poco appariscente sotto la presidenza del mwalimu, diventò sempre più rampante a mano a mano che la politica economica si apriva al libero mercato.
TANZANIA OGGI
Il potere d’acquisto del salario minimo rimane inchiodato a 12 dollari, come 20 anni fa. Con un reddito pro capite inferiore a 120 dollari l’anno, il Tanzania è tra i paesi più poveri del mondo. Tuttavia non bisogna dimenticare che buona parte delle esportazioni sfugge alle statistiche ufficiali: nel 1986 il 40% era l’esportazione del caffè e, a suo tempo, l’80% dell’avorio; oggi sono oro, cuoio, pelli a evadere il controllo statale.
Il paese ha accumulato un debito estero di circa 8 miliardi di dollari: cifra imponente per un paese di 30 milioni di abitanti con salari minimi tanto bassi. Tra i progetti controversi, realizzati con tale indebitamento, c’è la nuova capitale, Dodoma, costruita al centro geografico del paese: operazione più di facciata che di reale sviluppo. Eppure i mille chilometri di asfalto e altrettanti di ferrovia verso lo Zambia, a suo tempo contrastati dai paesi occidentali, si sono dimostrati provvidenziali per l’indipendenza dello Zimbabwe e, ancora oggi, indispensabili per il progresso del paese.
Alcuni progetti industriali, purtroppo, non sono mai entrati in funzione; altri non superano il 30% del potenziale produttivo. Colpa della corruzione intea, certamente; ma più colpevoli quei funzionari occidentali che hanno intascato buona parte delle somme destinate allo sviluppo di una nazione così povera.
La liberalizzazione sta trasformando Dar Es Salaam in un paese di cuccagna per addetti alle ambasciate, tecnici stranieri e pochi «fortunati» locali; vi si trova di tutto: fuoristrada, televisori, elettrodomestici, alcornolici e articoli di lusso. Ma per la gente povera non restano neppure le briciole di tanto benessere.
EREDITÀ DEL MWALIMU
Ritirandosi dalla vita politica, Nyerere aveva dichiarato: «Nonostante il fallimento, rimarrò sempre socialista, perché il socialismo è la migliore politica per un paese povero come il Tanzania». I suoi successori hanno sposato capitalismo e libero mercato; ma i benefici non si vedono.
Nonostante tutto, l’esperienza dell’ujamaa ha consolidato il senso di unità e solidarietà del popolo tanzaniano e rimane l’humus naturale per sperare in un futuro migliore. È il senso «della famiglia estesa» a far sì che un nucleo familiare di otto persone, con un unico stipendio, in una capanna di fango alla periferia di Dar Es Salaam, accolga e curi un parente tisico venuto dall’interno del paese.
Lo stesso spirito comunitario tiene viva la tradizione del pombe ya kulima (birra indigena per la coltivazione) nei villaggi, dove tutti gli abitanti si aiutano a vicenda nel lavoro agricolo e la famiglia proprietaria dei campi prepara il pombe in abbondanza, da consumare fra tutti in un clima di festa.
La solidarietà comunitaria rende naturale la partecipazione di tutti alla gioia o al lutto del singolo. È altrettanto spontaneo, passando accanto al vicino, togliergli la zappa di mano e sostituirlo per un momento nel lavoro.
L’ujamaa è morta… Viva l’ujamaa!

Giulio Belotti

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