Scuse e perdono

Editoriale


Testo di Gigi Anataloni |


«Care Divany e Madina, scusateci».

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Così cominciava su Vita.it del 12 dicembre scorso l’articolo che Daniele Biella – autore del dossier di questo mese – ha dedicato a Divany e Madina. «Divany, originaria del Camerun, è morta annegata a tre anni nelle acque a 30 miglia dalla Libia nel naufragio del 6 novembre 2017». Il suo corpo non è mai stato ritrovato. «Medina Husein, afgana di sei anni, è stata investita da un treno merci alla frontiera tra Croazia e Serbia lo scorso 21 novembre 2017». Il corpo è stato restituito ai suoi genitori solo dopo diversi giorni. «Nessun pietismo, ma un atto di estrema denuncia sì. Le due piccole hanno trovato la morte alle frontiere europee, che siano di terra o mare: frontiere che chi cerca rifugio da guerre o violenze non può attraversare oggi in modo legale e che quindi mettono a rischio la vita di tutti, bambini e adulti. Con i trafficanti a guadagnarci cifre stellari e con intere famiglie con più nulla da perdere che provano a passare confini in ogni condizione, venendo poi respinti dalle autorità (come accaduto alla famiglia di Madina qualche minuto prima della tragedia)». In copertina abbiamo messo la foto di Madina scattata da Silvia Maraone (dell’Ong Ipsia delle Acli) il 12 luglio scorso nel campo profughi di Bogovadja in Serbia. La storia di Divany, invece, è parte di quanto ci racconta Gennaro Giudetti alle pagine 43 e 44 del dossier. Leggere quelle storie fa venire i brividi. Mentre causano tristezza e sdegno certi commenti che purtroppo spopolano sui social a proposito dei migranti.
La vicenda di Divany e Madina ci obbliga a riflettere, perché è emblematica di un dramma che sta attraversando questi primi decenni di un secolo pieno di promesse ma anche di grandi paure. La morte delle due bambine non è un caso isolato, un’eccezione imbarbarita. I minori sono tra le prime vittime di un esodo che riguarda milioni di persone e di cui noi, in Europa, conosciamo solo le frange marginali e forse addirittura più qualificate. Fossero anche in 200mila quelli che sono arrivati in l’Italia nel 2017 per poi disperdersi in Europa, non sono che briciole di fronte agli oltre 500mila (Rohingya) in Bangladesh, ai 600mila (siriani) in Giordania, ai 700mila in Etiopia, quasi un milione in Iran, oltre un milione in Libano, un milione e mezzo in Pakistan, più di due milioni in Turchia, senza contare le masse di rifugiati interni ed esterni del Sud Sudan (800mila), della Somalia (800mila fuori, 1,5 milioni dentro), e di Eritrea, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e paesi del Sahel, Colombia e Venezuela. E l’elenco è incompleto.
«Oggi stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65,6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Di queste, circa 22,5 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni». Questo scrive l’agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unchr) sul suo sito. Sono cifre da spavento (i dati forniti dall’Oim, Organizzazione internazionale per i Migranti, sono anche più elevati), mentre prosperano gli affari dei mercanti di armi, dei trafficanti di uomini, dei ladri di risorse naturali e di minerali strategici. E invece di una risposta internazionale coordinata ed efficace che affronti i problemi alle radici e metta l’economia e la finanza sotto il controllo della politica, vediamo i paesi ricchi costruire nuovi muri, aumentare i controlli e fomentare nuove guerre e tensioni in punti nevralgici del mondo.
Per questo è urgente avere il coraggio di dire a tutte le Madina e Divany del mondo non solo «scusateci», ma soprattutto «perdonateci». Perché le scuse rischiano di lasciare le cose così come stanno, senza sentire il bisogno di cambiare. Chiedere scusa è già un bel passo perché è riconoscere di aver sbagliato. Il chiedere perdono però è molto di più: è riconoscere lo sbaglio e assumerne la responsabilità per un impegno a cambiare mentalità e modo di agire. È anche mettere nelle mani dell’altro la propria persona. È stabilire relazioni profonde. Il dramma mondiale dei rifugiati e migranti richiede una rivoluzione nel pensiero e nel modo di agire.
«Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata della pace. Quattro azioni coordinate di cui la prima, accogliere, è la fondamentale. Accogliere non è solo un fatto logistico. Ricevere i migranti e chiuderli dentro a «simil campi di internamento», non è accoglienza. Accogliere è conoscere e farsi carico della persona del rifugiato, del suo dramma, dei suoi sogni. Accogliere è vedere la persona per quello che è, essere umano come me con un nome e una storia, e non uno stereotipo, un pericolo, una minaccia. Accogliere è creare relazioni nuove, costruire un futuro per tutti insieme, senza isolarsi nella difesa dei propri privilegi o identità. Accogliere è amare. Per questo a Divany e a Madina non basta chiedere «scusa», ma bisogna dire «perdonateci».

Gigi Anataloni

 

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