Ebola: Virus di famiglia

Testimoni da Guinea e Liberia
Sembra il virus fatto per
l’Africa: dove la famiglia si prende cura del malato. Dove i legami famigliari
sono più importanti di tutto. Dove ci si dà la mano ogni momento. E così il
contagio è assicurato. L’Ebola cambierà i costumi sociali degli africani? La
famiglia allargata sopravvivrà?

Guinea


Colpevoli di solidarietà

Simona Guida è un’operatrice della
Ong Cisv, è rientrata a fine agosto dalla Guinea dove è stata per una missione
breve. Responsabile di alcuni progetti del consorzio di Cisv con l’Ong Lvia, ci
racconta la situazione che ha trovato: «Fin da marzo è stata presa la decisione
di non sospendere le attività e di non evacuare il personale espatriato, anche
se ci era stato consigliato di farlo. Gli stessi cooperanti del consorzio, in
servizio nel paese, hanno detto per primi che volevano rimanere, che potevano
prendere tutte le precauzioni e gestire la psicosi da epidemia».

I progetti di Cisv-Lvia in Guinea sono in campo agricolo
e ambientale. «In effetti non sono attività
che mettono direttamente a rischio gli operatori. Però abbiamo rallentato le
riunioni, gli incontri, gli scambi tra diversi gruppi». L’epidemia sembrava
arginata a maggio, ma non è stato così, e un mese dopo ha ripreso a
diffondersi. A luglio il governo ha decretato lo stato di emergenza, con un
certo ritardo. Simona racconta: «Respiravo una doppia sensazione. Da una parte
quella che il governo non avesse fatto abbastanza. Non è stato proibito cibarsi
di cacciagione, portatrice del virus, come invece le autorità hanno fatto in
Burkina Faso con un decreto ad hoc. Non c’è stata comunicazione tempestiva,
come sulle norme di igiene, per esempio lavare la frutta dagli escrementi dei
pipistrelli, ecc.».

«La seconda considerazione è che la
paura dipende dal luogo in cui sei e se hai incontrato direttamente la malattia
oppure no. La differenza la fa la sfiducia in questo stato da sempre debole e
lontano dai cittadini. Chi si fida prende le precauzioni, chi si sente isolato
gestisce la cosa a modo suo. Ci sono storie di villaggi in cui c’è stato un
malato che è stato isolato bene, in altri casi la famiglia ha voluto fare in
modo diverso e la malattia si è propagata».

Simona: «Quello che ho percepito è
l’inumanità, “l’inafricanità” della malattia. La famiglia in molti paesi
africani è l’unico vero luogo di cura, e l’Ebola costringe la famiglia a non
prendersi cura del malato per il rischio contagio. Le strutture sanitarie non
sono all’altezza: in Guinea ci vai a morire in ospedale. Prima si cerca di
guarire in casa, poi dal guaritore tradizionale».

La gente è convinta che l’Ebola non
lasci scampo. Anche per questo i malati non vengono portati nelle strutture. «Si
sta facendo comunicazione per spiegare che si può guarire, che bisogna curarsi».

«Ma con l’Ebola non puoi curare il
familiare e non puoi neppure fare il funerale come la ritualità vorrebbe. Due
grandi fattori emotivi per cui non si riesce a dare uno stop alla propagazione
del virus in certe zone più tradizionali, più isolate».

In effetti il grande problema è
proprio quello del contagio famigliare, dovuto a queste abitudini.

A Conakry, la capitale, sono
spuntati ovunque, all’ingresso di uffici e servizi, bidoni con acqua e
candeggina per lavarsi le mani. «Ho anche notato che le persone tendono a non
darsi più la mano».

Simona pensa che l’epidemia sarà
fermata, ma anche che potrebbe lasciare dei segni di cambiamento sociale.

In capitale ci sono stati molti
casi di malati, perché la gente arriva da tutto il paese. Simona ha constatato
che la paura dell’epidemia è palpabile, soprattutto per chi abita in un
quartiere in cui l’Ebola è presente, o per chi lavori a contatto con persone più
esposte.

«Il nostro partner Sabou guinéen,
è un’associazione guineana che ha aperto diversi centri per bambini che si
spostano in Africa dell’Ovest per motivi vari, in particolare per studi
coranici. Adesso ha bloccato l’accoglienza.

In Africa dell’Ovest la mobilità di
persone è molto elevata, ed è impossibile chiudere veramente le frontiere.
Senegal e Mali hanno preso misure protettive e questo ha ridotto le loro
importazioni danneggiando la già fragile economia guineana.

Simona spiega come la presenza
degli operatori sia motivo di speranza: «I nostri partner sono molto contenti
che non abbiamo chiuso i progetti. Vuol dire che non c’è solo l’Ebola in
Guinea. Loro hanno la sensazione di essere stigmatizzati: c’è una malattia
importante e non la sanno gestire. Il problema è che non hanno i mezzi e le
competenze, mentre occorre un buon dispositivo sanitario. Solo negli ultimi
tempi la comunità internazionale sta stanziando ingenti somme per fermare
l’epidemia, mentre su malattie endemiche come malaria e tubercolosi, per le
quali la gente muore, i soldi non ci sono».

In Guinea l’Ebola ha fatto ancora
più sentire la di-sparità tra due mondi: «La gente capisce che c’è un
intervento solo perché europei e statunitensi hanno paura che la malattia
arrivi nei loro paesi».

Inoltre: «Si sentono quasi in colpa
per il loro sentimento di solidarietà, come dire: non riusciamo a bloccare la
malattia perché siamo così. Mentre invece è un loro punto di forza».


 
Liberia


L’esercito contro il virus
 

La Liberia è un piccolo paese in
Africa dell’Ovest con una superficie che è circa un terzo di quella
dell’Italia. Ha una storia singolare perché è nata da una strana
ricolonizzazione, iniziata nel 1821, da parte di schiavi emancipati
statunitensi su un territorio già colonia britannica. Negli Usa solo gli stati
del Nord avevano abolito la schiavitù, che sarebbe stata eliminata anche al Sud
dopo la guerra civile (1861-1865). I neri americani giunti in Liberia erano
molto diversi dagli africani, per lingua, usi e cultura. Costituirono l’élite
di potere e sfruttarono i nativi. La Liberia di oggi mantiene un legame molto
stretto con gli Usa. È il paese più colpito dall’epidemia di Ebola e Barak
Obama ha annunciato l’invio di 3.000 soldati e l’apertura di una base di
comando regionale a Monrovia, la capitale. La base dipenderà da Africom, il
comando Usa per l’Africa. Nel suo discorso del 16 settembre scorso, Obama ha
paragonato questo intervento a quello Usa ad Haiti, all’indomani del terremoto
del 2010. Anche quella fu un’operazione di forza, completamente ingiustificata.
Oggi suona strano che per combattere un evento sanitario servano i marines,
considerando poi che i soldati sono l’unica risorsa che negli stati africani
non manca.

Suor Annella Gianoglio, missionaria
della Consolata di Savigliano (Cn), vive nel paese dal 1977. «Siamo in tre
missioni – ci racconta -: Ganta al confine tra Guinea e Liberia, Harbel a 80 km
da Monrovia e Buchanan». In tutti i posti si è propagata l’epidemia. «Il primo
morto lo abbiamo avuto ad Harbel. Una donna era andata ad assistere un
ammalato, così ha preso l’Ebola. Aveva figli e marito. Poi sembrava che
l’epidemia si fosse fermata, allora la gente non aveva molta paura, poi invece è
esplosa. Adesso c’è ovunque in Liberia. Abbiamo una clinica a Buchanan: è morta
una persona, poi l’infermiera che l’assisteva».

«La gente pensa sempre che la morte
naturale non esista, ma sia causata da qualcuno. Il giu giu, una specie
di malocchio. Ad esempio a una convention di una chiesa protestante ci
sono stati 36 morti. Il pastore aveva negato che fosse l’Ebola, dicendo che
l’acqua del pozzo era stata avvelenata.

Per questo motivo all’inizio
nessuno seguiva le precauzioni. Adesso almeno bruciano i cadaveri.

Un altro problema è che continuano
ad andare a cacciare e pescare e a nutrirsi di selvaggina. E questo è fonte di
contagio».

Suor Annella ha una profonda
conoscenza del popolo liberiano, e si vede che anche lei è spiazzata di fronte
al fenomeno. «Quando la prendi è molto probabile morire. Ma c’è anche molta
confusione con altre malattie. Nell’ospedale cattolico in cui è morto il padre
spagnolo, di cui si è parlato, sono morte otto persone. Adesso cercano di
riorganizzarlo».

Intanto sono stati creati centri
sanitari per l’Ebola in diverse zone. Sono tende nelle quali si isolano i casi
e si impediscono i contatti con il resto della popolazione. «Però vengono
trascurati gli altri malati. Si continua a morire di malaria».

In Liberia lo stato ha preso in
mano la situazione utilizzando l’esercito. Le scuole sono rimaste chiuse, i
raduni sono proibiti, e si cerca di non far spostare la gente.

«I soldati hanno circondato intere
zone, villaggi dove magari c’è stato un caso. E sparano a vista contro chi
volesse entrare o uscire. Così diventa difficile trovare da mangiare, o andare
a vendere i propri prodotti agricoli. L’economia informale è rallentata e la
povertà aumenta. Anche noi siamo bloccate nelle missioni. A Ganta abbiamo il
centro dei lebbrosi e tubercolotici. Vi lavorano due suore, una volontaria e un
dottore. Cercano di non muoversi e non far entrare gente dall’esterno. Un po’
ovunque sono stati messi secchi con acqua e candeggina per lavarsi le mani». A
livello sociale l’epidemia è «un disastro, divide le famiglie». Continua suor
Annella: «Un ragazzo che lavora in missione ha il villaggio isolato, e non può
tornare a casa da settimane. Una donna che si è ammalata è stata portata in un
centro, ma i suoi figli li hanno tutti isolati per paura che siano già
contagiati».

I liberiani hanno appreso che sono
state testate delle medicine su malati occidentali e si sono convinti che i
ricchi le possono avere e loro no. Poi però hanno visto che anche gli stranieri
muoiono. «Qui ci sono pochissimi mezzi. Non hanno ambulanze, tute di isolamento.
È una spesa enorme che deve venire da fuori».

Le missionarie della Consolata sono
presenti in Liberia da 50 anni. Oggi sono in 10 nelle tre missioni.

«Lo stato liberiano è rovinato
dalla dipendenza dagli Usa. Non prende iniziative, aspetta sempre un’imbeccata.
L’attuale presidente, Ellen Johnson Sirleaf, è liberiana ma di origini
statunitensi».

Tanti liberiani hanno amici e
parenti in Usa, e adesso cercano di lasciare il paese in attesa che passi un
po’ di tempo e l’epidemia.

Marco Bello

Marco Bello

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