Il Papa del Sud e il risveglio di un continente

Uno degli eventi più importanti negli
equilibri inteazionali di questi ultimi anni è stato certamente il
riavvicinamento fra gli Stati Uniti d’America e la Rivoluzione cubana.

Un atto di coraggio del presidente nordamericano Obama,
possibile però solo ora che il primo presidente nero degli Stati Uniti è
arrivato all’ultima parte del suo secondo mandato alla guida del paese più
poderoso del mondo. Possibile soprattutto grazie alla mediazione di un papa
speciale (in visita proprio a Cuba e Stati Uniti dal 19 al 28 settembre), che
non ha avuto dubbi sull’esigenza di parlare seriamente di pace, e non rimanere
prigioniero, anche lui, delle troppe belle parole che circolano in un mondo
abituato ormai a non essere conseguente.

Quello che tuttavia non hanno voluto considerare i media
occidentali, specie quelli italiani, è che questo inatteso cambio nella
politica degli Stati Uniti riguardo all’isola della Revolución è
avvenuto perché tutta l’America Latina sta con Cuba, perfino le nazioni come
Colombia e Messico dilaniate dalla violenza e da sempre molto vicine agli
interessi del governo di Washington.

In America Latina, in questo momento, ci sono almeno dieci
paesi che hanno governi di centrosinistra o addirittura di sinistra dichiarata,
come la Bolivia indigena del presidente Evo Morales, quello che ha fatto dono a
papa Francesco, nella sua visita di luglio a La Paz, di un crocefisso guarnito
di falce e martello, o l’Ecuador del presidente Rafael Correa, laureato in
economia e con un master e un dottorato negli Stati Uniti e un altro master
conseguito all’Università cattolica di Lovanio in Belgio. Queste sono prove
inconfutabili del riscatto di un continente che solo vent’anni fa aveva al
potere feroci dittature militari e ora fa incetta di conquiste democratiche
(per esempio, nel campo dei diritti nel lavoro e nella sanità) le quali, al
contrario, incominciano a essere negate a molti proprio nei paesi dell’Occidente.
Ancora un esempio: chi violenta la natura è punibile, nelle nuove Costituzioni
di Bolivia ed Ecuador, con le stesse pene inflitte a chi offende un essere
umano. Questa non è forse modeità? Non è forse etica?

Piaccia o non piaccia, tutto questo è
stato ed è possibile anche per la resistenza, nel tempo, di un paese come Cuba,
o grazie al coraggio di un leader d’avanguardia come Hugo Chávez, il defunto
presidente del Venezuela che, proprio per la svolta impressa non solo nel suo
paese ma anche in buona parte delle altre terre di Simón Bolívar (1783-1830),
ha anticipato il cambio che ora si vive nel continente.

Al cospetto di questa trasformazione l’informazione
occidentale fa a gara a chi, pateticamente, è più capace di irridere le
speranze e i tentativi di liberazione dell’America Latina. Gli interessi degli
ex padroni o di quelli che furono i conquistadores non si discutono.

Nel frattempo, il Brasile, che dalla presidenza di Lula Da
Silva fino a Dilma Rousseff ha condiviso quella svolta politica, è diventato la
settima potenza economica del mondo. Un fatto che, come hanno dimostrato le
intercettazioni (ovviamente illegali) della Nsa statunitense (insieme alla Cia,
i servizi segreti Usa, ndr) ai danni della Petrobras brasiliana,
disturba le strategie commerciali del governo di Washington. Un paese, il
Brasile, che un tempo era considerato solo «la terra del samba e del calcio»,
oggi, insieme a Sudafrica, Russia, India e Cina (in pratica, metà
dell’umanità), è parte dei Brics, il gruppo principale tra i cosiddetti paesi
emergenti.

Alla fine di settembre (dal 28 al 30) si sono riuniti a
Quito, in Ecuador, alcuni fra gli intellettuali e i pensatori più prestigiosi
del continente latinoamericano. Una specie di proseguimento di quello che nel
2001 fu il Forum di Porto Alegre e che, insieme all’insurrezione zapatista in
Messico, venti anni fa (era il 1994), ha il merito, ormai riconosciuto, di aver
fatto risvegliare la coscienza di un continente per tanto tempo schiacciato.

L’Encuentro latinoamericano progresista (Elap) è un
appuntamento organizzato, per il secondo anno, dal Movimiento Alianza Pais
(il partito che sostiene il governo ecuadoriano) e voluto con forza dal
presidente Correa, che continua il discorso portato avanti per anni da Cuba e
ribadito da Hugo Chávez.

Come si può capire, completamente assente era l’informazione
italiana. Per questi media il mondo nasce e muore in Occidente, pur essendo
ormai chiaro che quello di oggi e di domani è un mondo multipolare e che le
istituzioni occidentali (come la Ue) politicamente ed eticamente spesso non
rappresentano più nessuno.

Forse non è un caso che questo vuoto di attenzione e di
conoscenza sia in questi ultimi anni coperto solo da papa Francesco che, quando
lo scorso luglio andò in visita in Ecuador (oltre che in Bolivia e Paraguay),
davanti a una folla di un milione di persone, affermò: «I poveri sono il debito
più grande che ancora abbiamo con l’America Latina». Un credo, come
l’avversione alle guerre, che, in questo momento, è ribadito con sincerità solo
da una parte della Chiesa cattolica, quella più vicina al papa venuto dal Sud.

Gianni Minà

Gianni Minà

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