Malindi padadise! Per chi? (2)

Incontri ravvicinati con
ragazze locali
Vivere l’ultima giovinezza
Sono
forse i racconti più comuni che si sentono sui turisti italiani a Malindi. Il
direttore di «Out of Italy» cerca di capire le cause intime del fenomeno del
turismo sessuale praticato da uomini e donne anziani per dargli una
spiegazione. Immedesimandosi nel loro punto di vista, mettendo in evidenza i
rischi, senza condannare troppo esplicitamente, senza dare voce alle condizioni
di sfruttamento delle «studentesse» coinvolte, ma suggerendo una presa di
distanza attraverso uno stile ironico e a volte sarcastico.

Ha dovuto, per l’ennesima volta,
recarsi al bagno perché la sua prostata ingrossata richiede continue attenzioni,
e ora ritorna al tavolo con il passo un po’ rigido di chi è costretto a
convivere con l’artrite e tutta una lunga serie di altri acciacchi acquisiti
nel corso delle molte primavere.

Il bicchiere di Tusker lo
aspetta (la miglior birra kenyana, premiata in tutto il mondo, ndr), in
barba alle limitazioni che gli imporrebbero la pressione alta e il diabete, ma
che importa? Lui sta vivendo l’ultima giovinezza e per nessuna ragione è
disposto a sciuparla.

Al tavolo c’è una splendida e
giovane fanciulla nera: pelle lucente, candido bagliore di denti e sguardi
ammiccanti carichi di prorompente sensualità.

C’è anche un giovane rasta
con le treccine non proprio pulite, ma sicuramente appariscenti. Questi ha il
merito di aver organizzato l’incontro tra la bella «studentessa» africana e
l’anziano muzungu (uomo bianco, in kiswahili; va notato che questa è una
traduzione di comodo, perché in realtà il termine non si riferisce al colore,
ma al fatto che la persona in questione «viaggia, va in giro e fa il turista», ndr).

Si può non essergli riconoscenti?

Siamo onesti. Chi di noi
ultrasessantenni può attirare lo sguardo di una bella studentessa italiana
mentre incrocia la nostra strada? Se non fosse per la regola fisica
dell’impenetrabilità dei corpi, potrebbe passarci attraverso senza neppure
accorgersi che esistiamo.

È triste, lo so. Soprattutto quando
si è ancora estimatori del bello e alcune pulsioni romantico sessuali fanno la
loro comparsa tra i desideri. Ma guai a manifestarli nella terra di Dante,
l’epiteto più grazioso che si potrebbe ricevere sarebbe un sonoro: «Guarda
questo vecchio porco!».

Lui, l’anziano, non ha neanche la
possibilità di sfogarsi confidandosi con le persone che gli sono care. Certo
non con la propria moglie, men che meno con la propria figliola. Allora al
poveretto non resta che rifugiarsi tra i propri coetanei – almeno tra quelli
che soffrono della stessa patologia – e lì, tra loro, sfogarsi a dovere
liberandosi del magone che lo opprime. Attenzione, però, che non sentano i più
giovani, perché trafiggerebbero il gruppo con sguardi disgustati, prorompendo
nuovamente in un velenoso: «Ma senti che schifezze si raccontano questi
vecchietti!».

È vero. Tutto ciò è profondamente ingiusto. Non è colpa
nostra se una natura birbante, irrispettosa e anche un po’ sadica, lascia che
in un corpo malandato sopravvivano gli stessi identici desideri di un corpo e
di un cuore giovani. E allora che si fa? Semplice: si emigra in Kenya, dove
l’età non è un ostacolo e dove le belle «studentesse» non ci passano attraverso
ma, anzi, ci arpionano con graziosi ammiccamenti.

Certo,
lo spettacolo che foiamo non è dei più edificanti, ma in fin dei conti, chi
se ne frega? Riscoprirsi giovani e ancora capaci di provare emozioni così
intense, val bene il costo di qualche malevolo pettegolezzo. Così si emigra in
Kenya. E si viene qui con un forte desiderio di rivincita perché, sì, siamo un
po’ più anziani, ma pur sempre uomini. Forse ancor più sensibili di un tempo ai
piaceri del vivere, alle emozioni, ai sentimenti. Non siamo degli illusi, non
pretendiamo travolgenti passioni, tutto ciò che cerchiamo è un po’ di
tenerezza, e se questo ci costa qualche spicciolo, va bene lo stesso.

Se la bella «studentessa» nera non cade in totale
deliquio per noi, pazienza, purché ci dia solo un grammo d’affetto, anche se
intriso di una certa dose di finzione.

C’è davvero del male in questo? Dobbiamo proprio auto
condannarci, come forse vorrebbero i molti benpensanti, a spegnerci nelle
panchine dei parchi pubblici, tediati dalle insopportabili storie nostre e dei
nostri coetanei ripetute all’infinito? Oppure assoggettarci alle litigate
catarrose sui terrapieni delle bocciofile, sui tappeti verdi delle partite a
scopa e dei «bingo» parrocchiali?

No. Sarebbe un tramonto grigio che non meritiamo da
questo mondo frettoloso e indifferente. Quel mondo l’abbiamo costruito noi con
fatica e sacrificio e oggi per quelli che l’hanno ereditato non siamo altro che
ingombranti, inutili fardelli.

Allora veniamo in Kenya. Ci rinnoviamo nel fisico e nello
spirito. Andiamo a ballare, pescare, nuotare e se qualche bella «studentessa»
ci offre la sua compagnia, l’accettiamo senza troppe remore. Abbiamo una sola
vita da vivere, viviamocela tutta, e al meglio.

Smettiamo ora i panni dell’anziano turista, e torniamo in
noi: tutto questo è umanamente comprensibile, ma ciò non toglie che comporti
non pochi rischi. Guardiamo intanto alla nostra situazione familiare: siamo
rimasti soli al mondo? Siamo certi che la «studentessa» non sia sfruttata o
spinta tra le nostre braccia dall’indigenza più che dall’amore per noi? Allora
non ci sono problemi, salvo quelli che possiamo auto infliggerci con
comportamenti maldestri; ma se, ad esempio, abbiamo una famiglia e dei figli,
le cose cambiano radicalmente. Abbiamo delle responsabilità e se è vero che il
nostro diritto alla felicità (o a ciò che ci sembra tale) è indiscutibile, lo
stesso vale per le persone che hanno con noi sinceri rapporti affettivi. Il
nostro dovere è di non ferirli con comportamenti dissennati ed egoistici.

Se della bella «studentessa» ci innamoriamo sul serio,
abbiamo già fatto un passo ad alto rischio, ma se ci convinciamo che anche lei
si è innamorata perdutamente di noi, allora abbiamo scatenato un vero disastro.
Per non perdere questo amore presunto accetteremo tutto, anche di fare forfait
della nostra dignità, del rispetto di noi stessi, del nostro buon senso che la
stagione dell’età d’oro avrebbe dovuto invece consolidare. Non avremo più un
carattere, un’identità, una nostra determinazione. Come drogati, diverremo
schiavi delle nostre illusioni, faremo scempio degli affetti più cari, quelli
veri, quelli che hanno accompagnato per decenni il nostro vivere e dato un
senso alla nostra personalità di genitori e di mariti. Ci abbruttiremo nella
vergogna, nell’isolamento, spesso anche nella miseria, ultima condizione che
spegnerà il bagliore delle nostre illusioni rispetto a quel mondo effimero che
credevamo di aver costruito. E allora sì, ci ritroveremo davvero, e
disperatamente, soli.

Dico questo perché vivo in Kenya da quasi 30 anni. Gli
ultimi 10 dei quali come direttore del periodico Out of Italy e come
consigliere del comitato degli italiani all’estero (Comites). Ho visto troppi
epiloghi drammatici in cui queste effimere infatuazioni sono sfociate. Ho visto
uomini maturi, rispettati e ritenuti saggi, perdere totalmente il senno e
cacciarsi in situazioni di indicibile sofferenza. Alcuni hanno totalmente
dilapidato il proprio patrimonio, perso l’affetto dei loro cari, qualche volta
anche la libertà e la stessa vita.

Parlo di uomini in senso lato, perché questo perverso
fenomeno riguarda anche molte donne. Madri di famiglia, fedeli e responsabili,
sulle quali nessuno poteva permettersi neppure la più piccola critica. Le ho
viste franare nella più nera indigenza, ridursi a vivere in catapecchie dove,
anni prima, non avrebbero neppure ospitato i propri cani. Le ho viste
insultate, picchiate, brutalizzate dai loro «innamorati» locali, quelli
dell’amore a prima vista esploso sui bagnasciuga, quelli con cui pianificavano
di costruirsi una nuova, romantica esistenza.

Molti connazionali, donne e uomini, caduti in queste
irresistibili infatuazioni e nel tentativo di dare legittimità alla loro
permanenza in Kenya, hanno dato fondo ai propri risparmi, alle liquidazioni
maturate in una vita di lavoro, per «investire» in attività di cui non avevano
la minima conoscenza in un paese nel quale appare tutto più facile e in cui «con
pochi spiccioli si può fare tutto ciò che si vuole». Terribile errore!

Diligenti ex tecnici ed ex impiegati, si trasformano
d’incanto in imprenditori e naturalmente, per superare il problema della
lingua, chi può dirigere al meglio la nuova attività se non il loro compagno
(compagna) di cui hanno piena e incondizionata fiducia?

E così si va avanti, finché i quattrini scarseggiano e
la nuova attività produce montagne di debiti. A questo punto finisce, allora,
la stagione dell’amore. Il nostro, la nostra, partner comincia a mostrarsi
distante, indifferente, affatto disposto al sacrificio.

A queste latitudini l’amore, pur in apparenza
corrisposto, non si alimenta di belle frasi romantiche, ma di quattrini. E
quando essi finiscono, finisce tutto.

Ecco allora che queste tristi storie approdano sui tavoli
della nostra ambasciata, dei consolati, del Comites, nella vana ricerca di una
giustizia che giustizia non è, ma è soltanto l’umiliante ammissione della
propria dabbenaggine.

È vero, nessuno ha il diritto di giudicarci per le
nostre scelte, ma noi sì che l’abbiamo su noi stessi. Allora usiamo quel
briciolo di buon senso che ancora ci è rimasto e riscattiamoci.

Franco Nofori

 

Franco Nofori

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