Bolivia. La speranza abita sugli altipiani

Da Puerto Quijarro a Desaguadero / 02

Paolo Moiola

Tra gli indigeni degli altipiani boliviani,
a 3.000-4.000 metri d’altezza, Evo Morales ha raccolto gran parte del proprio
consenso elettorale. La povertà è diminuita grazie ai programmi governativi.
Tuttavia, i problemi e le contraddizioni non mancano. La foglia di coca è
giustamente difesa, ma Morales è ambiguo sulla lotta al narcotraffico. E la brutta vicenda del Tipnis, un parco nazionale
e indigeno di inestimabile valore, macchia fortemente le credenziali
indigeniste e ambientaliste del presidente.

La Paz. Maxima
Machaca ha un negozio di artigianato in Calle Linares, una via popolarmente conosciuta come
«strada delle streghe». Sua sorella Ilaria è venuta a trovarla da El Alto. Ha un cappello bianco in testa e quasi
non parla spagnolo, ma anche senza tante parole risulta subito simpatica. Forse
perché, al contrario della sorella, lei non è in contatto con stranieri e
dunque è rimasta indigena anche negli atteggiamenti. Muovendosi tra pile di
maglie in lana di alpaca1, coperte colorate e borse in cuoio, buttiamo
lì qualche domanda di politica. Le due sorelle sono per Evo. «È uno di noi»,
dice Maxima senza alzare lo sguardo, mentre Ilaria annuisce con un sorriso.

Entriamo in un negozio molto diverso. Uno di quelli che
giustificano il nome di «strada delle streghe»: all’entrata sono esposti feti
di lama, usati dai locali come offerta alla Pachamama2;
all’interno, gli scaffali sono ricolmi dei rimedi erboristici più strani, ritenuti
capaci di risolvere ogni problema del fisico e dello spirito. Accanto a ciò, ci
sono poi i prodotti a base di coca: farina, unguento, liquore e altro ancora.
Perché la coca è nella storia e nella quotidianità della Bolivia.

UOMINI E COCA  

Un gruppo di persone, quasi tutte indigene, è
riunito in circolo a pochi metri dalla chiesa di San Francisco, nello spiazzo
costruito davanti al Mercado Lanza, un moderno (e brutto) centro
commerciale. Al centro,
per terra, c’è una coperta a strisce colorate su cui sono adagiate delle foglie
di coca.

Le donne stanno tra loro, sedute per terra,
avvolte nei loro abiti colorati e con in testa una bombetta nera o marrone. Gli
uomini sono in piedi. Chi vuole parlare fa un passo avanti. Parlano tutti con tono monocorde, senza
gestualità. Non si esprimono in spagnolo, ma in lingua aymara. Chiediamo
a uno spettatore quale sia l’argomento: la produzione della coca e le relazioni
con il governo.
Una persona gira tra il pubblico con un
bicchiere e una bottiglia di Coka Quina, una delle alternative locali
alla Coca Cola3: la serve a chiunque ne voglia. Tra i presenti alcuni evidenziano un
rigonfiamento su una guancia, quasi avessero in bocca una pallina. È la storica
pratica della masticazione delle foglie di coca, nota come acullico, che
soltanto da poco le Nazioni Unite hanno dichiarato legale all’interno della
Bolivia4.

Sulla questione della coca le relazioni tra
la Bolivia di Evo Morales e la comunità internazionale sono da tempo tese.
Trovare una soluzione che rispetti le esigenze (e gli interessi) di tutti pare
un’impresa ai limiti dell’impossibile. In Bolivia, l’importanza della coca è
addirittura sancita nella carta costituzionale del 2009. L’articolo 384 recita
infatti: «Lo Stato protegge la coca nativa e ancestrale come patrimonio
culturale, come risorsa naturale rinnovabile della biodiversità della Bolivia e
come un fattore di coesione sociale. Nel suo stato naturale essa non è uno
stupefacente. La rivalutazione, la produzione, la commercializzazione e
l’industrializzazione della stessa saranno regolate tramite legge».

Alcune province del paese – le due dello
Yungas (nel dipartimento di La Paz) e soprattutto quella del Chapare (nel
dipartimento di Cochabamba) – vivono grazie all’economia della coca. Per la
coca i confini tra legalità e illegalità, tra interessi locali e interessi
inteazionali sono alquanto labili. Di certo, a causa della coca, il
presidente Morales ha commesso un grosso errore. È successo nella vicenda –
tuttora insoluta – del Tipnis, un territorio naturale e indigeno di
inestimabile valore attraverso il quale il governo – incurante della Madre
Terra e dei diritti degli indigeni (leggere riquadro) – vorrebbe far
passare una strada. Una strada che risponderebbe alle richieste dei cocaleros
del confinante Chapare, bramosi di nuove terre per le loro coltivazioni.

Al riguardo, non va dimenticato che lo
stesso Evo Morales è un ex cocalero del Chapare ed è tuttora presidente
del sindacato dei produttori, che lo hanno rieletto nel luglio 2012, dando
buoni motivi a chi parla di conflitto d’interessi.

Anche i numeri della coca sono controversi.
Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite5, gli ettari coltivati a coca sono 27.200. Di questi
12.000 servono per soddisfare la domanda di acullico (compresa la coca
che viene assorbita da produzioni industriali). Dove finisce la restante
produzione se non nel circuito del narcotraffico? Una cosa è drammaticamente
certa: in tutti i paesi confinanti la droga rappresenta un’emergenza nazionale.
In particolare, in paesi come il Brasile e l’Argentina, invasi da sottoprodotti
della cocaina come il crack e la pasta basica, venduti a prezzi
molto bassi e dunque accessibili a chiunque.

GLI INDIGENI E LA DIGNITÀ RICONQUISTATA

Da plaza San Francisco a plaza Murillo sono
10-15 minuti a piedi. Qui si trovano il Congresso, la Presidenza della
repubblica e la cattedrale. Il giardino che è al centro della piazza, attorno
alla statua di Murillo, è luogo di ritrovo soprattutto per chi ama i piccioni,
presenti in gran numero.

Tre donne indigene, sedute sui gradini che
guardano verso la cattedrale, stanno gustandosi un gelato tra una chiacchiera e
l’altra. In Bolivia ci sono 5 milioni di indigeni su 10 milioni di abitanti:
dopo il Guatemala, è il paese latinoamericano con più popolazione indigena. Le
etnie principali sono, in ordine decrescente: i Quechua, gli Aymara, i Chiquitano, i Guaraní e i Moxeño6. È opinione diffusa che qui stia il principale successo
della presidenza Morales: il riscatto della dignità per ampie fette di
popolazione indigena. Sugli altipiani, dove gli indigeni sono in larga
maggioranza, la speranza è che, dopo aver riportato la dignità, il governo
riesca anche a vincere la povertà. Infatti, nonostante i progressi degli ultimi
anni (leggere intervista alle pagine seguenti), circa la metà dei
boliviani continua a vivere in povertà (relativa o estrema), soprattutto nelle
aree rurali.

UNA DURA ESISTENZA

Il micro (minibus) partirà soltanto a
pieno carico: 10 persone più l’autista. Il tempo passa e mancano ancora due
passeggeri. Siamo in tensione perché dobbiamo arrivare a Desaguadero, al
confine con il Perù. Sul lato peruviano c’è un bus a lunga percorrenza per
Lima, che però non aspetta i ritardatari.

Finalmente il minibus è pieno: si può
partire. Per il piccolo automezzo la salita per raggiungere El Alto sembra un
ostacolo insormontabile. Affronta i ripidissimi tornanti con una lentezza esasperante,
ma procede senza intoppi fino ai 4.000 metri di El Alto.

Passata la città, costeggiata la zona
archeologica di Tiahuanaco, l’altipiano appare in tutta la sua vastità e, se
così possiamo dire, nella sua nudità, dato che, a causa dell’altitudine, quasi
non ci sono alberi. Sullo sfondo s’intravvedono le cime innevate. Mentre lungo
la strada asfaltata si susseguono una miriade di minuscoli villaggi dove
l’esistenza è scandita dai tempi di un’agricoltura di sussistenza. Al contrario
che in altre zone, qui il reddito non può essere integrato dalla coltivazione
della coca, che a queste altitudini non cresce.

SUL CONFINE DI DESAGUADERO

Ecco finalmente Desaguadero, un brutto paese
che vive dei traffici con il confinante Perù. Tra le due frontiere è un
andirivieni di persone e cose. In direzione Perù biciclette-risciò a tre ruote
trasportano persone che vogliono attraversare la frontiera. Verso il lato
boliviano si dirigono invece carretti stracolmi di prodotti agricoli. Cerchiamo
un posto per cambiare i soldi. Lo fanno, in maniera informale ma sicura, una
fila di indigene sedute a lato del posto di controllo peruviano. Vestite
secondo tradizione, queste donne  hanno
lasciato i campi per un lavoro «moderno», ma senza rinnegare le proprie
origini.

Una donna con bombetta nera e treccia sulla
schiena ci cambia i bolivianos
avanzati in soles peruviani. Con la nuova moneta nelle tasche ci
avviamo alla fermata del bus.

Paolo Moiola
(seconda puntata – fine)7
Note

1 – L’alpaca è un mammifero
della famiglia dei camelidi originario dell’America Latina. Ne fanno parte
anche il lama, la vigogna e il guanaco.
2 – Indica la «Madre terra» in
lingua aymara e quechua.
3 – Le altre alternative
boliviane alla Coca Cola sono la Coca Colla e la Mendocina.
4 – Il 10 gennaio 2013 l’Onu
ha riammesso la Bolivia nella Convenzione di Vienna, legalizzando la pratica
del «masticato di coca» (acullico). Hanno votato a favore 168 paesi,
mentre 15 si sono dichiarati contrari.
5 – Unodc, Estado
plurinacional de Bolivia. Monitoreo de cultivos de coca 2011
, settembre 2012.
6 – Cepal, Los pueblos
indígenas de Bolivia: diagnóstico sociodemográfico a partir del censo del 2001
,
Santiago del Cile 2005.
7 – La prima puntata è stata
pubblicata sul numero di maggio 2013.

La vicenda del Tipnis

 

LA PACHAMAMA TRADITA

Il Tipnis è in pericolo. Il
governo vuole costruirvi una strada. Nessun dubbio sulle conseguenze: una
strada determinerebbe la fine del parco. Non lo dicono soltanto le associazioni
ambientaliste e indigene, ma anche un durissimo rapporto redatto dalla Chiesa
cattolica boliviana.

Il Tipnis – acronimo di
«Territorio Indigena Parque Nacional Isiboro Secure» – è un territorio indigeno
e parco nazionale di inestimabile valore naturale ed etnico. Localizzato nel
cuore della Bolivia, tra i dipartimenti di Cochamamba e Beni e soprattutto tra
le province cocalere di Yungas e Chapare, il Tipnis ha un’estensione di circa
1,2 milioni di ettari1. Da tempo il governo centrale spinge per costruire una
strada di 200 chilometri che dovrebbe attraversare il parco per unire Villa
Tunari (Cochabamba) e San Ignacio de Moxos (Beni). Evo Morales e il Mas
(partito Movimiento al Socialismo) sostengono che l’opera è necessaria per lo
sviluppo della regione e per semplificare i collegamenti tra i dipartimenti
coinvolti. Da più parti si sostiene invece che il vero obiettivo è aprire quel
territorio alla colonizzazione, soprattutto da parte dei cocaleros del Chapare
(sempre alla ricerca di nuove terre), ma anche di allevatori, boscaioli,
petrolieri e minatori. Qualunque sia l’obiettivo, è sicuro che una strada
decreterebbe la fine del parco, della sua straordinaria biodiversità e dei
gruppi indigeni ivi residenti (sul cui effettivo numero si litiga – si parla di
69, 58 e 42 – aumentando la confusione)2.

Il governo ha fatto leva sul
concetto di «intangibilità» del Tipnis, previsto dalla Legge 180, presentandolo
in maniera subdola alle comunità indigene: se vi appellerete all’intangibilità
– è stato detto loro -, non potrete più svolgere alcuna attività all’interno
del parco (né caccia, né pesca, né attività boschive). Una incredibile trappola
interpretativa, che non fà onore al governo di Evo Morales.

Infine, per ampliare il
consenso e dare una parvenza di legalità e democrazia, il governo ha indetto
una consultazione tra le comunità indigene del Tipnis. La consultazione –
svolta tra il 29 luglio e il 7 dicembre 2012 – avrebbe decretato, stando ai
dati ufficiali, che la maggioranza delle comunità indigene approvano la
costruzione della strada. Tuttavia, sia il risultato che le modalità di
consultazione sono fortemente contestate. Anche dalla Chiesa cattolica
boliviana e dall’Assemblea permanente per i diritti umani. Dal 29 novembre al
13 dicembre una commissione delle due organizzazioni ha visitato 36 comunità
del Tipnis. Il rapporto che ne è uscito è duro e circostanziato, parlando di
gravi violazioni nel processo consultivo, di mancanza di informazioni
sull’impatto della strada, di regali e minacce alle comunità per influenzare la
loro decisione e infine di risultati completamente falsati. Delle 36 comunità
indigene visitate dalla commissione soltanto 3 si sono espresse a favore
dell’opera3.

Per un ambientalista – e chi
scrive è tra costoro – leggere la Costituzione della Bolivia o alcune delle sue
leggi sulla Madre Terra è come leggere la descrizione di un mondo ideale in cui
uomo e natura convivono. La realtà mostra però altre facce. Anche nella Bolivia
di Evo Morales.

Paolo Moiola
Note

1 – Un’estensione di poco
inferiore a quella del Trentino Alto Adige.
2 – Fonti dei dati: Huellas,
La Paz, febbraio 2012; Mojón 21, Santa Cruz, novembre 2012.
3 – Il rapporto, presentato il
17 dicembre 2012, è reperibile sul web: www.cedib.org/documentos.

Incontro con il prof.
Francesco Zaratti
«NÉ INDIGENISTA, NÉ AMBIENTALISTA. EVO SENZA MASCHERA»

La presidenza Morales ha
ottenuto alcuni  significativi successi. Tuttavia,
l’attaccamento al potere e l’invasività governativa stanno producendo gravi
danni.  Le critiche (severe, ma  circostanziate) di  Francesco Zaratti, intellettuale conosciuto e
rispettato. La Paz. L’appuntamento è
davanti alla torre della Umsa, l’Universidad Mayor de San Andrés.
Francesco Zaratti vi ha insegnato fisica dal 1974. Oggi è professore emerito e
direttore del Laboratorio di fisica dell’atmosfera. Tuttavia, nonostante i
meriti professionali, la sua notorietà tra il grande pubblico non è nata in
ambito accademico, bensì dal suo incarico di assessore durante la presidenza di
Carlos Mesa1, editorialista di numerosi quotidiani (La Prensa, La
Razón, Página Siete, El Día
, ecc.) e oggi volto televisivo di Cadena A. In
ogni caso, Francesco Zaratti è un grande conoscitore della realtà boliviana.

Professor Zaratti, qualche anno fa lei disse che la vittoria elettorale
di Evo Morales rappresentava un’opportunità unica per il paese2.
Dopo 7 anni di presidenza, la sua opinione è cambiata?

«La presidenza di Evo Morales
era inevitabile o quasi. C’era troppa insofferenza sociale nelle classi
contadine ma anche in quelle medio-basse per una situazione che non cambiava. O
meglio: cambiavano i presidenti, ma non la situazione. I governi precedenti non
avevano avuto né la volontà politica né le risorse per fare riforme vaste e
profonde, soprattutto per il problema principale: l’estrema povertà della
popolazione. Evo Morales era l’unico condidato con proposte veramente
rivoluzionarie. Per questo, nel dicembre 2005, vinse con il 54% dei voti: una
cosa mai successa. Da quel momento è cominciata anche la fortuna di Morales.
Parlo di fortuna perché alcune delle sue idee ha potuto realizzarle grazie a
una bonanza economica mai vista, dovuta principalmente alla vendita del gas
boliviano al Brasile e all’Argentina».

Sui giornali e in televisione lei è un critico severo del governo.

«Con tutta evidenza lo sono.
Tuttavia, questo non mi ha impedito e non mi impedisce di riconoscere alcuni
successi che esso ha ottenuto. Una delle cose più interessanti è stata
l’inclusione sociale, che tutti – anche gli oppositori più intelligenti – gli
riconoscono. Evo è riuscito a fare in modo che anche le classi di etnia
indigena potessero accedere al potere. Adesso si può trovare un ministro o un
viceministro di discendenza aymara, cosa prima rarissima. C’è poi stata una
redistribuzione economica attraverso i sussidi (i cosiddetti bonos) che si
danno a settori poveri della popolazione, compresi anziani e donne con bambini.
Sono pochi soldi ma, se utilizzati bene, servono, soprattutto nei piccoli
villaggi. Oltre a ciò, ci sono stati investimenti nei municipi (scuole, strade,
infrastrutture), pur in presenza della corruzione».

Detto questo, cosa contesta a Evo Morales?

«Questo governo ha un
obiettivo principale: quello di rimanere al potere. Tutto è subordinato a
questo, compresa l’economia, che però ha tempi più lunghi, non coincidenti con
quelli delle elezioni. Succede così che gli
investimenti dall’estero siano praticamente nulli. I pochi che si sono
azzardati, si sono scottati. Nessuno vuole investire: è un segno di sfiducia
verso un paese dove non ci sono o non si rispettano le regole».

Professore, lei ha parlato di una bonanza economia fondata sullo
sfruttamento del gas. Come esperto in materia energetica, come valuta la
situazione?

«Allo stato va piú del 50% del
valore alla fonte. Nelle casse pubbliche entrano tanti soldi, ma la Bolivia
continua ad essere uno stato estrattivista senza un modello sostenibile di
sviluppo: estrae la ricchezza dalla terra (gas, ma anche stagno, zinco,
argento) e la esporta. Quando le riserve saranno esaurite, che faremo? Non si
fanno investimenti. Non si fanno esplorazioni per ricercare nuovi giacimenti e
non si industrializza responsabilmente il gas. La compagnia statale Ypfb
è inadeguata. Per parte loro, le compagnie petrolifere straniere che operano in
Bolivia (Petrobras, Repsol, ecc.) non fanno investimenti in esplorazione
perché non si fidano».

All’estero il presidente Morales è molto conosciuto per le sue origini
indigene e per le sue posizioni ambientaliste.

«Evo ha il volto indigeno, ma
non la cultura. Lui è un cocalero. Ha lavorato nel Chapare muovendosi
nell’ambito culturale del sindacato e non certo in quello indigeno. Un esempio
concreto: per gli indigeni è inconcepibile che un capo sia una persona non
sposata. Ed Evo non è sposato. Lui si giustifica dicendo che si sacrifica per
il bene pubblico e che non ha tempo per una famiglia. Sia come sia, il suo
indigenismo è soltanto di facciata. Quanto all’Evo ambientalista, è un ruolo
che prima non aveva mai vestito. Lo hanno introdotto i suoi collaboratori per
fare di lui un difensore della natura. Alla prima grande prova è stato però
smentito: voleva fare una strada nella foresta del Tipnis. Insomma, anche
questa è una maschera ad uso e consumo degli stranieri e degli europei in
particolare».

La coca viene coltivata in Chapare e Yungas. Ci spiega dove sta il
confine tra produzione legale e illegale?

«Chapare e Yungas sono
territori molto diversi. In Chapare ci sono più raccolti annuali, ma si  produce una foglia di coca che non serve per
l’acullico. Tanto che i contadini del Chapare masticano la coca dello Yungas.
Ora, se per l’acullico ci vogliono 12.000 ettari e se gli ettari
coltivati sono circa 30.000, allora la domanda è: dove va la coca eccedente? E
ancora: come utilizzare la produzione del Chapare? Hanno cercato di fare
prodotti industriali: mate di coca, dentifricio di coca, spaghetti di coca e
quant’altro3. Stringi stringi non si tratta però di volumi
importanti, soprattutto perché questi prodotti non si possono esportare a causa
delle convenzioni inteazionali4. Dunque, tutta la produzione
eccedente va al narcotraffico, un affare che muove milioni di dollari».

La Dea, l’agenzia statunitense per la lotta alla droga, è stata espulsa
dalla Bolivia nel 2008, così come l’ambasciatore Philip Golberg. Come si
combatte allora il narcotraffico? 

«Con la cooperazione
internazionale, ma non con le modalità che erano state imposte dagli Stati Uniti.
L’accordo antidroga con il Brasile e gli Usa (firmato il 20 gennaio 2012) è una
buona cosa. Inteamente invece il governo sbaglia. Dato che i cocaleros sono
suoi alleati, non fa alcuna azione repressiva. Soprattutto se si tratta di cocaleros
affiliati al sindacato del Chapare».

Esiste ancora un progetto camba? In altri termini, il
separatismo della Mezza Luna è un’istanza ancora viva?

«In Santa Cruz, ci sono almeno
2 settori – curiosamente agli antipodi – che appoggiano Evo. Uno è quello delle
classi popolari, il secondo è quello dei grandi industriali. Questi ultimi
furono i grandi avversari del presidente. I gruppi separatisti dell’Oriente –
con i loro pregiudizi razzisti – erano finanziati dall’oligarchia di Santa
Cruz. Avendo perso, si sono accordati con il governo centrale. In fondo,
l’unica vera ideologia dell’oligarchia cruceña era quella di fare i
soldi. Se si fanno i soldi, allora “Viva Evo”».

Proprio in Santa Cruz e Beni, abbiamo incontrato persone che ci hanno
parlato di questo paese come di una dittatura. La Bolivia è una democrazia?

«È una democrazia perché ha
strutture democratiche. Però è una democrazia sui generis, dato che il potere
esecutivo controlla il parlamento, la giustizia, la polizia, l’esercito, i
sindacati. Se le elezioni fossero oggi, vincerebbe Evo Morales senza problemi,
anche perché non c’è una figura significativa dell’opposizione».

Professore, la Costituzione boliviana del 2009 è un testo di
straordinario valore. Come lo sono altre leggi. Ad esempio, quella sui diritti
della Madre Terra (legge 71 del 2010) e quella sulla Madre Terra e sullo
sviluppo integrale per il benvivere (legge 300 dell’ottobre 2012). Lei è
critico anche su queste?

«Su questo ha ragione: si
tratta di leggi interessanti, ben fatte, modee. Purtroppo, sono anch’esse
delle maschere. Come accaduto con la Costituzione, il governo di Evo Morales ha
fatto approvare delle belle normative, che però vengono immediatamente messe da
parte quando si scontrano con i piani politici. La vicenda del Tipnis è lì a
dimostrarlo».

Paolo
Moiola

Note

1 – Carlos Mesa è stato
presidente dall’ottobre 2003 al giugno 2005.
2 – Si fa riferimento a
un’intervista con Francesco Zaratti pubblicata su Missioni Consolata nel marzo
2006.
3 – La coca industrializzata
non raggiunge l’1 per cento della coca prodotta legalmente.
4 – In particolare, le
convenzioni Onu del 1961 e di Vienna del 20 dicembre 1988. Nel gennaio 2013 il
governo di Evo Morales ha espresso la volontà di chiedere alla comunità
internazionale la possibilità di esportare la coca industrializzata (prodotti
alimentari e medico-farmaceutici).

Paolo Moiola

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Paolo Moiola
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