Cana (26) La «donna» sacramento dell’abbandono credente

Il racconto delle nozze di Cana (26)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»
[lèghei hē mêtēr autoû toîs diakònois: Hò ti an lèghēi hymîn poiêsate]

Per capire questo versetto in tutta la sua portata è necessario ritornare indietro brevemente per sottolineare ancora il pensiero di fondo che stiamo cercando di dimostrare: il racconto delle nozze di Cana è un midràsh (commento attualizzante) del racconto dell’alleanza di Es 19. Come il Sinai fu «l’inizio» di Israele in quanto nazione, perché l’alleanza lo costituisce «popolo» a tutti gli effetti, così Cana è per l’autore «il principio» del nuovo popolo che nasce dall’antico. La madre di Gesù è il simbolo dell’Israele/sposa dell’alleanza nuova, che aspetta la redenzione del Messia, e i discepoli sono la premessa/promessa del nuovo popolo messianico che partecipa al banchetto nuziale, proiettato verso il futuro delle genti.
Il paradosso: prima fare e poi ubbidire
Sappiamo che l’evangelista vuole mettere in parallelo Mosè e Gesù: il primo come mediatore, il secondo come autore dell’alleanza. L’alleanza annunciata da Gesù non è un’altra alleanza, diversa da quella del Sinai, ma è la continuità di essa, anzi ne è lo sviluppo naturale. Con buona pace dei fautori della «teologia della sostituzione» che ancora oggi, dopo il concilio Vaticano II, propugnano ancora che la Chiesa è subentrata a Israele, eliminandolo dalla storia di salvezza, iniziata con l’esodo. La Chiesa è «dentro» Israele, da cui si discosta perché porta a compimento la sua fede in Gesù Messia.
È evidente che nel v. 5 la frase importante è: «Quello che vorrà dirvi, fate[lo]», che immediatamente richiama quanto gli Ebrei dicono ai piedi del Sinai, prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!». Il confronto tra i testi è sorprendente, si direbbe che Giovanni copia direttamente dalla Bibbia ebraica (non dalla versione greca della LXX che traduce in modo diverso, come vedremo):

Es 19,8 (cf 24,3)           Gv 2,5
Quanto il Signore          Quello che [egli = Gesù]
ha detto,                        vorrà dirvi
noi [lo] faremo               fatelo

Da una parte c’è Yhwh che ordina, dall’altra c’è Gesù che deve essere obbedito, per cui Gesù è posto dall’autore sullo stesso piano di Yhwh. Un modo per porre l’accento discretamente sulla divinità del figlio di Maria? Non possiamo spingerci oltre, ma il quarto vangelo non è nuovo a questo metodo (cf, per es., Gv 18,4-5). Questo parallelo, quasi fotocopia, tra i due testi si colloca all’interno del più generale confronto tra il Sinai e Cana:

Es 19,11.9                        Gv 1,11
Il terzo giorno                    Il terzo giorno
Yhwh rivelò                       Gesù rivelò
la sua gloria a Mosè         la sua gloria
e il popolo                         e i suoi discepoli
credette anche in lui         credettero in lui

Anche qui Gesù non è posto sullo stesso piano di Mosè, ma al livello di Yhwh perché Gesù nella nuova alleanza che ha in Cana il suo «principio» ripete e rinnova esattamente quello che Yhwh ha fatto e ha detto sul Sinai. Lo scenario è lo stesso, e i temi sono identici: il terzo giorno, la rivelazione, la gloria, il popolo/discepoli, la fede.
La madre impregnata del passato
Su tutti questi temi però quello che domina è quello della «obbedienza»: a Yhwh nel Sinai e a Gesù a Cana. L’obbedienza qui è espressa con due verbi «faremo» e «credettero». Da ciò possiamo rilevare che «obbedire» non è un atteggiamento passivo di sottomissione, ma una scelta attiva di adesione a una alleanza, a un progetto da realizzare («faremo») che si basa su un rapporto di intimità e di confidenza reciproca («credettero»). C’è una differenza tra i due testi: al Sinai il popolo ascolta il Signore e crede in lui, ma anche in Mosè; a Cana i discepoli/nuovo popolo ascoltano e credono in Gesù.
Il raffronto tra Mosè e Gesù, come spesso abbiamo detto, non è mai alla pari: a Cana Gesù supera notevolmente il grande condottiero, perché l’evangelista lo colloca sempre allo stesso livello del Signore. Infatti al Sinai non parla Yhwh, ma Mosè che riceve da Dio le parole da riferire al popolo nella sua funzione di mediatore; a Cana non c’è mediatore perché Gesù parla e agisce direttamente.
Le parole della madre di Gesù non sono una novità, ma riecheggiano una storia lunga e articolata, pro-vengono dal cuore della storia di Israele che si esprime in varie circostanze. Riportiamo solo qualche esempio: la risposta di Israele è così importante che la Bibbia la ripete quasi uguale tre volte (Es 19,8; 24,3.7). Dopo Mosè, il suo «attendente» Giosuè [in greco è sinonimo di Gesù – Yoshuà], prima di entrare e prendere possesso della terra promessa, rinnova l’alleanza a Sìchem in modo simile: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce» (Gs. 24,24).
La madre di Gesù è Israele
A Cana ci troviamo di fronte a un evento che non si può ridurre a un semplice matrimonio di circostanza. L’autore infatti con questo racconto ripropone, rinnova e celebra «il fatto» più importante di tutta la storia di Israele, quello che è la sorgente della sua stessa esistenza come «popolo/sposa di Yhwh», l’esodo, letto nella sua duplice valenza storica: di liberazione dalla schiavitù e di costituzione di una comunità ordinata e organica, l’assemblea di Israele nata dall’alleanza del Sinai.
Le parole del Signore dette tramite Mosè e la risposta del popolo detta tramite gli anziani, costituiscono la formula sponsale che sancisce le nozze definitive d’amore e di obbedienza. A Cana è la madre che in rappresentanza dell’Israele antico, introduce il nuovo invitandolo a entrare nel circuito salvifico del suo popolo che ora esce dal suo particolarismo e si apre al mondo intero. Sono infatti presenti i discepoli, dodici secondo la tradizione, un numero simbolico delle dodici tribù d’Israele, costituite da Giosuè prima dell’ingresso in terra promessa (cf Gs 14-19; Es 24,4; 28,21; Gen 49,28; Sir 44,23):

«3Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte,
dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai
agli Israeliti: 4“Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto
all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho
fatto venire fino a me. 5Ora, se darete ascolto alla mia
voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me
una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è
tutta la terra! 6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e
una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti.
7Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro
tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore.
8Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore
ha detto, noi lo faremo!”» (Es 19,3-8).

L’obbedienza incondizionata che il popolo di Israele mette in atto, secondo la versione greca della LXX ha dell’inaudito perché il popolo accetta di coinvolgersi nell’avventura di Dio prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza che esprime il sentimento di abbandono tipico dell’innamoramento. Chi è innamorato non ragiona, ma «si butta», non fa calcoli, ma ama, non teme le conseguenze, ma sperimenta l’inatteso con trasporto e abbandono fiduciosi. «Faremo e ascolteremo» infatti esprime non l’ubbidienza a un ordine ricevuto, ma la libera e spontanea adesione della volontà che rende la scelta ancora più importante.
La tradizione giudaica, commentando questo comportamento di Israele, arrivava a paragonarlo al melo del Cantico dei cantici, dove l’amante donna dice del suo innamorato: «Come un melo fra gli alberi del bosco, così l’amor mio tra i giovani» (Ct 2,3). Il Talmud babilonese, a nome di Rabbì Chama figlio di Rabbì Chanina (260 ca.), commenta: «Perché gli Israeliti sono paragonati a un melo? Per insegnarti che come il melo mette fuori il frutto prima delle foglie, così anche i figli d’Israele dissero “faremo” prima di “ascolteremo”» (TB, Shabbat 88a).
Lo stesso testo del TB riporta l’insegnamento di Rabbì Simai (210 ca.) che immagina come nel momento della professione di fede di Israele che si abbandona al Signore, senza alcun calcolo, «seicentomila angeli del servizio scesero a deporre due corone sopra ogni membro del popolo eletto: l’una come premio del “fare” e l’altra dell’”ascoltare”» (in A. SERRA, Le nozze di Cana, 314).
Si capisce perché immediatamente prima (cf Gv 2,4), Gesù si rivolge alla madre con l’appellativo di «donna», assolutamente inconsueto in un dialogo tra madre e figlio. Anche Gesù sa che la madre non è la sua madre naturale, ma a Cana è il simbolo della sposa/Israele che qui svolge il ruolo di mediazione che al Sinai fu proprio di Mosè. Ella si indirizza ai «diaconi/servi», ma è come se parlasse per se stessa e per tutto Israele: «Quello che egli eventualmente vi dirà, noi dobbiamo farlo». Non un semplice invito esortativo, ma una constatazione obbligante: non possiamo esimerci da «quello che egli dirà» perché la sua parola è creatrice, prima di trasformare l’acqua in vino trasforma le persone che vi sono coinvolte assumendo un ruolo preciso: non sono servi dipendenti di un padrone per svolgere lavori di fatica, ma diventano «diaconi», ministri di una comunità che si appresta a celebrare le nozze con il suo Signore.
La madre di Gesù è la sposa fedele
Se l’evangelista fa dire alla madre di Gesù la stessa professione di fede del popolo d’Israele, ci sembra logico pensare che egli voglia porre una relazione tra i due e forse anche una identificazione. Nella letteratura profetica e sapienziale, Israele è spesso identificato con l’immagine della «donna» che il quarto vangelo usa cinque volte, e sempre a una svolta nella vita di Gesù: qui a Cana, con la donna samaritana (Gv 4,21), con la donna adultera (Gv 8,10), dalla croce di nuovo alla madre con «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26) e, infine, con Maria di Magdala (Gv 20,15), cinque pietre miliari che segnano la salvezza che si fa storia nell’immagine della «donna», figura del nuovo credente nella comunità nuova. L’uso di questo appellativo è anche diffuso nell’At e basta leggere i profeti (Os 1-3; Ger 2,2; 31,4.15; Ez 16,8; 23,4) o anche la letteratura extra-biblica (Il Targum del Ct; Sal-LXX 86,5; Apocalisse di Baruc 10,7; IV libro di Esdra 9,38-10,57; Qumran: 1QH III,3-12, ecc.).
Luca esporrà questa idea sviluppando il tema della «Figlia di Sion» del profeta Sofonia e applicandola a Maria nel saluto dell’angelo che annuncia il «vangelo della nascita» non a Maria di Nàzaret in quanto singola persona, ma a lei, espressione della «Figlia di Gerusalemme» cioè Israele (cf Lc 1,28; Sof 3,14).
Anche Luca non chiama Maria con il suo nome, ma la descrive come «piena di grazia – chekaritomēnē» che corrisponde alla qualifica di «graziosa» come Giuditta (Gdt 11,23), come Ester (Est 2,7), come la donna del Cantico (Ct 1,5; 6,4), come Susanna (Dn 13,31), come Sara, moglia di Tobia (Tb 6,12).
Anche Matteo tocca il tema in chiusura del suo vangelo, quando Gesù sul monte di Galilea si accomiata dai suoi e lascia loro il suo testamento per il futuro:

«16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul
monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro,
si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e
disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla
terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”» (Mt 28,16-20).

Al Sinai, Israele impegna se stesso nel professare la propria fede indiscussa in Yhwh; a Cana la madre di Gesù crede preventivamente per sé, in quanto Israele, e per i diaconi, in quanto Chiesa; in Matteo la professione di fede diventa la missione da portare in tutto il mondo fino alla fine della Storia. Il rapporto tra gli eventi non è casuale, perché in Matteo Gesù non incontrerà i discepoli «da qualche parte», ma esattamente «sul monte che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16), così come Dio incontrerà il futuro popolo liberato non in un deserto senza vita, ma «su questo monte» dove Dio è già presente e aspetta una massa di schiavi che trasformerà in popolo a cui darà la carta costituente, la Toràh, cioè la coscienza di essere comunità.
Anche nell’esodo, il monte è indicato da Yhwh stesso a Mosè come segno di liberazione e di libertà: «Rispose: “Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”» (Es 3,12).
Israele sul monte Sinai dovrà «servire» Dio, secondo il testo ebraico («’abad») e «fare un servizio liturgi-co», secondo il greco della LXX («latrèuō»). In Mt abbiamo gli stessi atteggiamenti: i discepoli «si prostrarono» (in greco: proskynèō) in un gesto di servizievole adorazione liturgica.
Al Sinai, Israele si consacra in una professione di fede senza ambiguità; in Mt è il Signore che prospetta la loro fede futura che assume la forma della missione universale, «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).
Al Sinai Dio è con il condottiero Mosè: «Io sarò con te» (Es 3,12), sul monte di Galilea è Gesù che assicura la sua perenne Shekinàh/Dimora/Presenza: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Al Sinai, Dio dichiara la ragione del suo intervento: «Voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra!» (Es 19,5), mentre in Matteo è Gesù che dichiara: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Anche in Matteo come in Giovanni, la figura e l’opera di Yhwh sono appannaggio personale di Gesù di Nàzaret, ora risorto.
Alla luce di queste finestre che si aprono davanti ai nostri sguardi per la nostra contemplazione della parola di Dio in tutta la sua ampiezza, possiamo dire che il mandato missionario non consiste in altro che nell’invitare tutti i popoli «a fare e obbedire quanto il Signore ha ordinato»: il Signore dell’esodo e Gesù di Nàzaret.
Tutto questo può realizzarsi solo in un modo, sull’esempio della madre di Gesù: testimoniare con la pro-pria vita, la propria parola, la propria speranza che come discepoli crediamo veramente nella Persona di Gesù e accettiamo la sua Parola come criterio di vita prima ancora che come conoscenza razionale.
È in fondo quello che avviene nella celebrazione dell’Eucaristia che è il «luogo» privilegiato dove l’Assemblea di Dio «fa tutto quanto il Signore ha detto», memoriale perenne dell’esodo di Gesù, lungo tutto il cammino della Storia.
(26- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella

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