Viva la differenza!

Diversità, divisioni e ritorni all’Unità

«Il Medio Oriente ha visto sempre, dai tempi di Gesù fino ad oggi, nonostante vicende spesso difficili e tormentate, la continuità della presenza dei cristiani. In quelle terre, l’unica Chiesa di Cristo si esprime nella varietà di tradizioni liturgiche, spirituali, culturali e disciplinari delle 6 venerande Chiese orientali cattoliche sui iuris, come pure nella Tradizione latina» (Benedetto XVI, Omelia di apertura del Sinodo).

arlando di «Chiesa cattolica», noi occidentali pensiamo al singolare, alla comunità dei credenti sparsi in tutto il mondo. I cristiani mediorientali, invece, pensano al plurale, alle differenti «chiese cattoliche» che riconoscono il primato ministeriale del papa di Roma, ma hanno caratteristiche dottrinali, liturgiche e giuridiche proprie. Vengono dette anche «Chiese particolari» o «Chiese sui juris», cioè con diritto proprio, tecnicamente espresso nel Codice dei canoni delle chiese orientali.
Le Chiese sui juris sono 23, in maggioranza appartenenti ai Paesi dell’Europa centro-orientale; quelle orientali coinvolte direttamente nel Sinodo sono sei: chiesa greco-melchita, chiesa siriaca, chiesa maronita, chiesa caldea, chiesa copta, chiesa armena. Per ragioni storiche in Medio Oriente si è strutturata anche una presenza della chiesa occidentale latina. Queste chiese spesso si definiscono e si distinguono in base al «rito»: termine che non indica semplicemente azioni e gesti sacramentali, ma tutto un patrimonio teologico, liturgico, spirituale, disciplinare, culturale, artistico e storico, con cui ogni Chiesa esprime la propria fede (vedi riquadro).
Tale ricchezza e molteplicità è incomprensibile se non si tiene presente l’evoluzione storica, con cui esse si sono distinte nel corso del primo millennio cristiano dalle Chiese greca e latina.
Al principio la diversità
La diversità è iniziata al momento della nascita, il giorno di Pentecoste. Fra i tremila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua: parti, medi, elamìti, abitanti della Mesopotamia, Giudea, Cappadòcia, Ponto, Asia, Frìgia, Panfìlia, Egitto, Libia, romani, cretesi e arabi (cfr At 2,8-11).
Dalla città santa apostoli e discepoli di Cristo portarono la Buona Notizia ai popoli delle regioni affacciate sul Mediterraneo, dall’Egitto, evangelizzato da san Marco, alla Persia e ad altri popoli oltre i confini orientali dell’Impero romano per opera dell’apostolo Tommaso. Non per nulla le chiese del Medio Oriente sono orgogliose di essere chiese apostoliche.
La predicazione degli apostoli diede origine a comunità composte da cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo, ma distinte nella pluralità di modi d’intenderla e di esprimerla. La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la crescita e organizzazione delle comunità cristiane attorno ai vescovi, successori degli apostoli, e nelle città più importanti in campo politico e culturale. 
Mentre in Occidente c’era solo Roma, come città di profonda cultura, in Oriente, ben prima del cristianesimo, c’erano centri importantissimi come Alessandria, Edessa, Gerusalemme, Antiochia. Alle più importanti Chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità, cinque in particolare, chiamate patriarcati (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), che si affermarono come centri di espansione missionaria e punti di riferimento attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di là dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
E così, mentre in Occidente unificazione e uniformità erano un fatto scontato, in Oriente si svilupparono sei varietà di tradizioni liturgiche, culturali, spirituali, disciplinari e teologiche. Dogmaticamente c’era unità, teologicamente c’era una grande ricchezza e varietà di posizioni. Nell’esegesi e interpretazione della Bibbia, per esempio, fecero scuola due grandi correnti: quella di Alessandria, più allegorica e mistica, con Origene già alla fine del II secolo; e quella di Antiochia, più grammaticale e letterale.
unità strappata
Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e l’unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie.
I decreti dei primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano), furono accettati da tutte le chiese. Non così quelli dei concili di Efeso (431) e Calcedonia (451). A Efeso fu condannato il nestorianesimo, dottrina che sosteneva l’immutabilità di Dio e l’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, rifiutando a Maria l’appellativo di «Madre di Dio» (Theotókos), attribuendole semplicemente il titolo di Christotókos, genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Questo concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu stabilito che in Cristo esistono due nature dopo l’incarnazione in una sola persona, condannando così la dottrina di Eutiche, che affermava in Cristo la sola natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena. In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
La chiesa bizantina rimase in comunione con la chiesa di Roma (o latina) fino al 1054, quando, dopo un progressivo e reciproco estraniamento, per motivi più politici che teologici, si consumò il grande scisma d’Oriente tra le chiese di Bisanzio e di Roma, trascinando nella rottura anche le chiese dell’Europa orientale, dando origine a una ventina di Chiese ortodosse autocefale e indipendenti.
Ritoo all’ovile
Per ricucire gli strappi furono organizzati vari concili ecumenici, con risultati non sempre incoraggianti. In alcuni casi, il fatto che alle radici delle scissioni ci fossero ragioni politiche e culturali più che dogmatiche ha favorito il ritorno spontaneo alla comunione con Roma di alcuni settori delle chiese orientali. In molti paesi dell’Oriente, poi, l’invio di missionari riuscì a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma. Nacquero così le «chiese cattoliche orientali», dette in passato anche chiese «Uniate», termine non più in uso per il suo senso dispregiativo in ambito ortodosso.
Nelle chiese ortodosse, infatti, la presenza di missionari cattolici fu sentita come fumo negli occhi, la loro attività come proselitismo e i cristiani tornati alla comunione con Roma furono oggetto di disprezzo e talora anche di persecuzione. E le polemiche non sono ancora finite.
In ambito cattolico non mancarono le diffidenze nei riguardi dell’opera di riunificazione e i tentativi di latinizzare le nuove comunità, intendendo la restaurazione della comunione ecclesiale come ritorno all’«ovile» di Pietro. Di fatto i cattolici orientali rimasero sotto la giurisdizione della congregazione de Propaganda fide fino al 1917, quando fu resa autonoma la Congregazione per le Chiese Orientali.
Con il decreto Orientalium Ecclesiarum, il Concilio Vaticano II riconosce ufficialmente l’uguaglianza delle Chiese cattoliche orientali con quella latina, le invita a riscoprire le loro autentiche tradizioni e afferma la loro speciale vocazione nel promuovere le relazioni ecumeniche con gli Ortodossi. La loro vita ecclesiastica è regolata in base al Codice di canoni delle Chiese orientali, promulgato da Giovanni Paolo II nel 1990 ed entrato in vigore il 1° ottobre dell’anno seguente. Secondo il nuovo Codice esse sono suddivise in quattro categorie: Chiese patriarcali (Caldea, Armena, Copta, Siriaca, Maronita, Melchita), Arcivescovili maggiori (Ucraina, Romena, Siromalabarese, Siromalankarese), Metropolitane sui juris (Etiopica, Ruteniana americana, Slovacca), Chiese sui juris (Albanese, Bielorussa, Bulgara, Croata, Greca, Italo-albanese, Macedone, Ungherese, Russa).
Pericoloso contarsi
La regione che nell’uso comune viene indicata con l’espressione Medio Oriente abbraccia ben 16 paesi, che vanno dall’Egitto all’Iran, passando per Israele e Territori Palestinesi, Giordania, Libano, Cipro, Turchia, Siria, Iraq e Paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar, Yemen) e copre una superficie di oltre 7 milioni di kmq, con una popolazione di circa 370 milioni di abitanti, in grande maggioranza musulmani; in questo oceano islamico il numero dei cristiani delle differenti confessioni (ortodossa, cattolica, protestante) oscilla tra i 13 e i 16 milioni. Si tratta quindi di una minoranza, 3-4% circa dell’intera popolazione mediorientale, distribuita in maniera molto dissimile da paese a paese, da un meno 1% in Iran al circa 40% in Libano.
I cattolici del Medio Oriente coinvolti nel Sinodo contano circa 4-5 milioni di fedeli: una minoranza nella minoranza. Essi appartengono a sette chiese di tradizione o rito differenti: i sei Patriarcati orientali, a cui si aggiunge, per ragioni storiche, il patriarcato di Gerusalemme dei latini, di tradizione e rito latino (vedi riquadro).
Per varie ragioni, il numero dei cristiani mediorientali (cattolici compresi) è soggetto a variabilità e indeterminazione. Nei censimenti ufficiali di diversi stati (Libano, Siria, Iraq), non viene rilevata l’appartenenza religiosa e le stime ufficiose proposte sono spesso adattate e manipolate per mostrare rapporti di maggioranza o minoranza rilevanti nella vita sociale e politica del paese. In società fortemente tribali come nel Medio Oriente, il clan o la comunità vale e conta in proporzione del numero dei suoi membri. Per questo in Libano, per esempio, da molti decenni non si tiene un censimento, per paura che la disparità demografica tra i vari gruppi religiosi possa compromettere l’equilibrio sociale e politico sempre in bilico. Istruttivo è pure il caso dell’Egitto: secondo il governo, i cristiani copti sarebbero 6 milioni, mentre la Chiesa copta ne conta 12 milioni.
Ma anche i dati foiti dalle stesse chiese locali non sono sempre affidabili, sia per mancanza di censimenti scientifici, sia perché vengono gonfiati per motivi apologetici o per richiedere diritti e privilegi, sia perché vengono ridotti al minimo per evitare di assumere oneri e responsabilità.
La varietà e indeterminatezza statistiche sono dovute anche all’emigrazione (o fuga) dei cristiani, ortodossi e cattolici, dalle zone di presenza storica in Medio Oriente, specie dai paesi in preda a guerre, violenze e intolleranze religiose, in cui si paventa la loro totale scomparsa.
Il fenomeno non è nuovo: nella prima metà del secolo scorso, lo sterminio degli armeni e poi la cacciata dei greci dalla Turchia, ad esempio, furono di proporzioni colossali. Oggi, però, esso sta aumentando, fino a produrre un esito inatteso: molte diocesi create nella diaspora dagli emigranti dal Medio Oriente sono più ricche e popolose delle chiese madri. I cristiani armeni, ad esempio, sono da decenni più numerosi nella diaspora che nella terra d’origine, mentre i maroniti libanesi hanno diocesi di emigrati negli Stati Uniti, Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia. Le «statistiche» ufficiose calcolano che 12 milioni di cristiani, di diverse confessioni, risiedono nei territori patriarcali, mentre più di 7 milioni sono nella diaspora.
una chiesa pellegrina
Negli ultimi decenni un fenomeno nuovo sembra tamponare l’emorragia: flussi migratori stanno vacendo lievitare la presenza cristiana proprio in quelle regioni che fino a oggi appaiono le più impermeabili al cristianesimo, come i paesi del Golfo.
Il boom petrolifero, la costruzione di infrastrutture, gli investimenti in edilizia hanno richiamato in Arabia Saudita e nel resto della penisola arabica oltre 13 milioni di lavoratori migranti, provenienti dall’estremo oriente (indiani, filippini, singalesi, vietnamiti…), dall’Africa (etiopi, sudanesi…), dal Sud America, nonché dai vicini Libano, Siria, Iraq, Palestina. Il fenomeno è in continuo aumento.
Tra questi migranti, circa tre milioni sono cattolici. In Arabia Saudita, su una popolazione di 28,5 milioni di abitanti (8 milioni di immigrati) i cattolici sarebbero quasi due milioni. Negli Emirati Arabi dove gli immigrati superano ormai la popolazione locale (sei milioni), i cristiani sarebbero un milione, metà dei quali cattolici. Analoghe proporzioni si riscontrano in Barhein, Oman, Qatar, Kuwait.
È vero che non si tratta di autoctoni convertiti, ma di semplici lavoratori che puntano a guadagnare abbastanza per poi ritornare nei paesi di origine, di comunità instabili per natura, di una «chiesa pellegrina», come si esprimono i padri sinodali, ma non per questo priva di semi di speranze, capaci di modificare gli scenari religiosi del futuro, nonostante le difficoltà e le limitazioni con cui si scontra la pratica della fede delle comunità cristiane e cattoliche.
Il paese più repressivo è ancora l’Arabia Saudita, teocratica e influenzata dal wahabismo; gli altri paesi del Golfo sembrano lasciare maggiori spazi alla libertà religiosa; negli Emirati sono sorte alcune parrocchie; nel Qatar è stata costruita una chiesa capace di accogliere fino a 5 mila fedeli.
nuova pentecoste
Un nuovo e significativo fenomeno interessa il cristianesimo del Medio Oriente: la chiesa giudeo-cristiana, scomparsa dopo i primi secoli, sta rinascendo oggi in Israele, grazie soprattutto all’immigrazione dai paesi dell’Est Europa. I cristiani di lingua ebraica non sono molti, ma è già un segno incoraggiante (vedi riquadro).
I padri sinodali hanno parlato di «nuova Pentecoste», non solo per lo Spirito Santo che li ha animati, ma anche per la varietà di lingue, popoli e culture che sono la ricchezza dell’unica Chiesa di Cristo. I popoli menzionati in quell’evento profetico ci sono tutti… e di più: cristiani autoctoni di antica origine, risalenti ai primi secoli del cristianesimo (ebrei, arabi o arabofoni, turchi, iraniani, greci…), e cristiani delle ultime generazioni di tutti i continenti, di ogni colore e razza.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi

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