A testa alta e denti stretti

Da Kartum a Gidel: per conoscere le popolazioni nuba

Un viaggio nel cuore dei Monti Nuba, per raccontare il dramma del popolo nuba, isolato e martoriato da decenni di guerra, ma sempre colmo di fierezza e tanta voglia di vivere. La guerra è finita da poco; le organizzazioni umanitarie hanno rotto l’isolamento; cominciano a sbocciare fiori di speranza. Ma il futuro è ancora incerto: la pace non è ancora garantita.

Tra le città africane Khartoum è la più africana. Il colpo d’occhio che si ha dall’alto è quello di un grande villaggio fatto di case costruite in terra, il colore dominante è quello della sabbia, insieme al giallo ocra. È passato poco più di un anno dall’ultima volta che sono atterrato in questo angolo di mondo, ma tutto, mi sembra diverso, a parte la polizia dell’aeroporto.
Nel precedente viaggio avevo percorso le piste del deserto nell’antica Nubia dei faraoni neri, con le sue piramidi e storia millenaria. Oggi il viaggio da affrontare è ben diverso: non c’è nulla di archeologico da scoprire, nessuna storia lontana da capire; l’obiettivo è molto più vivo e attuale: conoscere il popolo nuba e la sua quotidianità.
La zona abitata dai nuba copre un’area montagnosa molto vasta, posizionata quasi esattamente nel centro geografico del Sudan, il paese più grande dell’Africa. Raggiungere questa terra non è facile; lo si può fare in due modi: con un volo dal Kenya messo a disposizione dalle Nazioni Unite, una volta alla settimana; oppure, via terra, dalla capitale sudanese con un viaggio molto più interessante, ma anche più impegnativo.
Ho scelto la seconda via, perché m’interessava conoscere in modo profondo il dramma di questo popolo uscito da una guerra durata più di 20 anni. Facendomi catapultare direttamente sui Monti Nuba avrei perso il filo cucito dalla storia recente, non avrei visto e capito il cammino che ha generato l’odio verso questi gruppi etnici.

PERMESSI E CONTROLLI
Seguire l’itinerario via terra, da Khartoum, non è stato facile. Ci sono voluti tre mesi per ottenere dei permessi dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla, Sudan People’s Liberation Army), un mese per il visto del governo sudanese, qualche giorno per il permesso giornalistico di scattare fotografie e qualche ora per il travel permit (permesso di viaggio). Solo quando è stato tutto regolamentato, secondo la legge, sono potuto partire.
Ho affittato una vecchia ma affidabile Toyota 60. L’autista si chiama Jamal: sarà lui, per quasi un mese, il mio unico compagno di viaggio. Jamal è un tipo sveglio, ha già provveduto alle scorte alimentari; nella dispensa ancorata nel baule del fuoristrada c’è di tutto: scatolette di carne, pasta, frutta sciroppata, verdure, acqua… Non manca nulla. Un rifoimento veloce alla prima pompa di gasolio e siamo in marcia, direzione: tutto sud.
Dopo aver superato i controlli di polizia in uscita dalla capitale, si percorre la strada asfaltata in direzione di Kosti, che dista solo 350 chilometri. Non perdiamo tempo, solo qualche sosta per il pranzo e per il rifoimento. La voglia di arrivare nel cuore del viaggio è ossessionante e non posso permettermi di fare il turista.
I primi intoppi arrivano a El Obeid, la capitale del Kordofan. La polizia, che da queste parti si fa chiamare Security, ci blocca mentre percorriamo le vie centrali del souk. Jamal non desta nessun sospetto; io, invece, uomo occidentale armato di macchina fotografica, vengo preso in consegna da due giovani in borghese e portato in una casermetta alla periferia della città. Controllano bagagli, passaporto, permessi, mi chiedono perché sono venuto da queste parti e se tifo per il Milan o per la Juve. Insomma, come in ogni parte del continente nero, la polizia non sa come far passare le giornate e l’occasione di far valere la propria autorità, di sentirsi importanti e curiosare in altri mondi sconosciuti non può essere lasciata scappare.
Lasciare El Obeid e dirigersi verso sud significa abbandonare il mondo arabo ed entrare nell’Africa Nera. È un processo naturale: la sabbia del deserto lascia spazio agli arbusti spinosi della savana e la gente assume tratti somatici più decisi. La porta verso il mondo Nuba è vicina.
Bastano poche ore di fuoristrada e Kadugli è ormai a portata di mano, anche se l’asfalto finisce per lasciare il posto alla pista, a tratti sconnessa, a tratti ancora ben percorribile in quanto levigata dal passaggio degli automezzi.

DI FRONTE ALLE 99 MONTAGNE
Kadugli è una città tipicamente africana: solo la via principale è asfaltata, il resto delle strade è un bazar polveroso a cielo aperto, dove la vita pullula dall’alba al tramonto, senza tregua. Situata nel Sud Kordofan, questa città è anche la porta per accedere alle Montagne Nuba: qui si sbrigano le pratiche burocratiche e si ottengono i permessi necessari per poter superare i mille controlli che la blindano come in una cassaforte.
I numerosi posti di blocco della Security rallentano il viaggio, ma ormai ci siamo: le 99 montagne narrate dalla leggenda locale sono davanti a me.
Le chiamano montagne, ma anche se hanno delle pareti molto scoscese non possono essere definite tali: sono solo un mosaico di colline che raggiungono al massimo i 1.500 metri s.l.m.
Quando si lascia Kadugli le strade non esistono più, anche se sono segnate sulle carte: sono state inghiottite dai bombardamenti e, quelle rimaste, cancellate dall’ultima stagione delle piogge. Facciamo fatica a trovare la direzione giusta per Luere; la individuiamo quando è quasi buio e dopo qualche ora di pista siamo costretti a cercare un posto dove montare la tenda e passare la notte.
Arrivare a Kauda significa superare decine di posti di controllo presidiati dai militari dell’Splm (Sudan People’s Liberation Movement). I giovani in uniforme controllano attentamente i permessi, a volte ne richiedono altri, a volte, semplicemente, mi invitano nelle loro capanne per bere un tè. Sono sempre gentili e sorridenti, sanno che la comunità internazionale sta lavorando per loro, sanno che lo straniero che si muove da queste parti non lo fa solo per turismo. A Luere mi fanno perdere un pomeriggio per i controlli, ma questa, si sa, è la roccaforte dell’Splm e i militari non scherzano, devono fare il loro lavoro fino in fondo.
Arrivo a Gidel al tramonto. La missione dei padri Comboniani appare come un miraggio nascosto dagli alberi che la circondano. Il cancello si apre: mi sento quasi a casa.

UN POPOLO MITE E FIERO
Nonostante la ricchezza naturale di queste terre, la gente Nuba è stata costretta ad abbandonare quest’area per l’impoverimento dovuto al conflitto; la popolazione, stimata in circa 2 milioni, per metà, è sfollata a Khartoum e quella restante si è divisa sotto il controllo dell’Splm e il governo centrale. Le autorità governative sono riuscite per anni a isolare la regione da un punto di vista umanitario, economico, mediatico, educativo.
Durante il conflitto solo poche e coraggiose organizzazioni umanitarie riuscivano a lavorare sui Monti Nuba; ma da qualche anno le azioni di solidarietà si sono moltiplicate. Nonostante le difficoltà di comunicazione non siano affatto finite, si è aperto uno spiraglio e si sta cercando di far fronte a questo isolamento attraverso rischiosi e costosi voli illegali in partenza dal Kenya. In questa terra, dove mancava anche l’essenziale, ora arrivano medicinali, sale, sapone e soprattutto attrezzi agricoli, che permettono alla gente del posto di non dipendere dagli aiuti estei. 
Le terre dei Nuba sono tra le più fertili del Sudan, anche un occhio poco attento non può non notare le falde delle montagne, a tratti accuratamente terrazzate; da queste parti, anche nella stagione secca, crescono cipolle, tabacco, pomodori, arachidi e sesamo.
Fra i Nuba si distinguono oltre 50 gruppi etnici, ognuno con un nome specifico, lingua, cultura e tradizioni diverse. Anche le abitazioni presentano architetture differenti: alcune ricordano l’Africa australe, altre le regioni del Sahel. Nonostante la varietà di etnie questa gente ama definirsi con un nome solo, unico e orgoglioso: Nuba.  
Fino a poco tempo fa i Nuba erano bersaglio del governo di Khartoum. Gli arabi erano decisi a eliminare la loro identità culturale per fae docili lavoratori al servizio dei ricchi sudanesi. Ma questo popolo di «roccia e miele» non si è mai arreso; ha lottato in una guerra senza fine e ha stretto i denti per non rischiare di scomparire. Ora che la guerra è finita, sui Monti Nuba, è tutto da ricostruire, bisogna rimboccarsi le maniche e partire dall’inizio, dalle cose primarie, dal quotidiano.

«PENNELLATE» DI SPERANZA
Sui Monti Nuba non è facile accorgersi quando si arriva effettivamente in un luogo: non esistono indicazioni. Spesso le capanne sono state disseminate sulle colline per evitare che, durante la guerra, i bombardamenti colpissero interi nuclei abitativi, magari formati dalla stessa famiglia.
Ma a Gidel non ci si può sbagliare: arrivando dall’aeroporto di Kauda, prima di attraversare il wadi, c’è un enorme edificio in costruzione, una «pennellata» di speranza nella savana, è il nuovo ospedale che «Sorriso per il Sudan onlus», in collaborazione con altre associazioni, sta costruendo. Il lavoro da fare è ancora molto, ma quando la struttura sarà ultimata e diventerà operativa, per l’intera comunità dei monti sarà un punto di riferimento importante, un luogo dove potersi sottoporre a cure mediche senza andare fino a Kadugli o, peggio ancora, fino a El Obeid.
«Sorriso per il Sudan» non è l’unica associazione che opera sui Monti Nuba; ce ne sono molte, ognuna con il proprio compito: c’è chi si occupa dello sminamento delle piste, chi segue le donne disagiate, chi si prende cura dei bambini. Un esercito di persone tutte con lo stesso obiettivo: portare il popolo Nuba alla normalità. 
A Gidel vengo ospitato nella missione gestita dalla diocesi di El Obeid. Nella parte riservata alle suore stanno costruendo un edificio, mi dicono, che è la nuova casa che dovrà ospitare l’eventuale arrivo di personale missionario.
Le «sisters», come le chiamano i ragazzini, hanno un ruolo importante nella comunità di Gidel: alcune insegnano alla scuola matea, altre si occupano del cornordinamento educativo dei bambini delle scuole elementari, altre ancora seguono gli adulti nell’integrazione sociale. La missione è un punto di riferimento per tutta la gente della zona: per qualunque problema basta bussare alla porticina in ferro, qualcuno apre sempre.
Oltre il muro di cinta, dove abitano le suore, c’è la missione operativa di mons. Macram Max Gassis. La struttura è costituita da un grande cortile con edifici in muratura, nella parte centrale ci sono alcune capanne in stile africano: sono gli alloggi dei fratelli che vivono qui e svolgono il loro lavoro ecclesiastico.

CURIOSANDO NELLE ABITAZIONI
A Gidel si respira un’atmosfera particolare. È bello svegliarsi la mattina e fare due passi per vedere i bambini con i libri sottobraccio che vanno a scuola: alcuni arrivano dalle abitazioni vicine, altri invece, si fanno anche un’ora di cammino per raggiungere le aule dove i maestri li aspettano per la lezione.
A pochi passi dal fiume in secca ci sono i campi dove le donne lavorano nella raccolta delle arachidi. Ore e ore piegate su se stesse, stringendo tra le mani un piccolo aese in ferro dalla forma di una falce. È raro vedere una donna nuba sola, di solito sono in compagnia di altre donne. Insieme lavorano, passano il tempo libero e vivono i loro momenti di complicità.
Gli occhi delle donne più anziane sono profondi e pieni di mistero. A volte si muovono silenziosamente, facendo strisciare le infradito; a volte le vedi accelerare l’andatura, vestite dei loro abiti colorati mossi dal vento. Anche da queste parti, come in tutta l’Africa, alla donna spetta il lavoro più oneroso della famiglia: accudire i figli, lavorare nei campi, attingere l’acqua dai pozzi e portarla fino alla propria casa.
Seguendo una di queste donne, quelle che camminano verso la collina col carico di acqua sulla testa, sono riuscito a entrare in contatto con alcune famiglie e a curiosare nelle loro abitazioni.
Da quando è finita la guerra, i nuba stanno cercando di riunirsi in piccoli villaggi. Nei dintorni di Gidel non si trovano più capanne completamente isolate; si sono formati piccoli nuclei familiari composti da due o tre abitazioni. Ognuna di queste case ha il proprio cortiletto, dove vivono gli animali e vengono costruiti piccoli silos per la conservazione dei raccolti. L’interno delle case è ridotto all’essenziale. Di solito vi è un atrio abbastanza ampio nella parte centrale, dove la famiglia si raduna per discutere o più semplicemente per la cena.
Ai lati di questa stanza, la principale dell’abitazione, ci sono le «camere da letto». La «stanza della notte», come è chiamata dalla gente del posto, non ha finestre; i muri sono più spessi rispetto al resto della casa, per creare l’isolamento necessario a mantenere una temperatura gradevole durante i periodi più caldi dell’anno.

ATTENZIONE AI… «TARTUFI»!
A pochi minuti d’auto da Gidel operano i volontari di Save the Children. Nel piccolo villaggio di Kumo hanno costruito un dispensario dove la gente si può curare e ricevere medicinali. I posti letto sono sempre occupati e molti ammalati, purtroppo, non possono essere curati. Patrick, un giovane volontario che arriva dal Kenya, mi dice che tutto sarà diverso, quando «il grande» centro clinico di Gidel sarà operativo.
Vorrei fermarmi per sempre in questo luogo di pace, ma mi rendo conto che il viaggio deve continuare, non prima però di aver curiosato nella scuola di Kauda, dove studiano i bambini vittime del bombardamento del 2001.
Mi faccio accompagnare dalla suora della diocesi. Nella mia moleskine ho i nomi dei bambini che mi sono annotato durante l’ultima riunione con i volontari di «Sorriso per il Sudan». Li mostro agli insegnanti, i quali si consultano tra di loro e poi, con un sorriso di consenso, mi dicono che ci sono tutti.
In pochi minuti li ho davanti a me. Sono cinque, forse sei, non ricordo, ma quelli che più mi colpiscono sono Amani e Adil, i più segnati. Il ragazzo ha l’avambraccio mozzato; la ragazzina, Amani, ha dovuto subire l’amputazione dell’intero arto. Non credo ci sia da dire altro a riguardo, le parole sarebbero solo retoriche e superflue.
Osservando la carta topografica che mi ha fotocopiato un amico milanese, posso notare una pista tracciata che collega Luere a Talodi. Mi metto subito alla ricerca dell’imbocco, ma perdo più di due ore. Chiedo informazioni a chiunque: nessuno ne sa nulla. Deduco che la mappa è sbagliata e me la prendo con chi l’ha disegnata.
Non mi rassegno; riprovo a chiedere informazioni in un campo delle Nazioni Unite e, finalmente, un soldato malese dall’aria gentile mi dice che la pista è stata cancellata anni fa dalle piogge e quel poco che è rimasto è stato inghiottito dalla vegetazione o è minato.
Muoversi sui monti può essere davvero pericoloso, ci sono molte zone disseminate di «tartufi» e, nonostante il lavoro del centro di sminamento della Dca (Dan Church Aid), gli ordigni inesplosi sono ancora tantissimi.
Non ci sono alternative, bisogna ripercorrere la pista fino a Kadugli e poi imboccare l’altra strada, anche questa minata, per Talodi in direzione est. È già tardo pomeriggio quando si decide di lasciare Kauda; tra non molto bisognerà cercare un posto dove fare campo e passare la notte. È bello montare la tenda in questo nulla africano, potersi rilassare davanti a un fuoco, fare due chiacchiere con Jamal e poi, quando la natura si placa, rilassarsi guardando le stelle negli occhi.
In Africa la proporzione della natura è predominante; è la natura stessa che vince su tutte le tentazioni di sostituirla a qualcosa d’altro, rimane lei l’unica intermediaria possibile di un contatto, che qui rimane esclusivo, tra gli elementi naturali e l’uomo.
Purtroppo i viaggi africani non sono fatti solo di immensi cieli stellati e grandi distese incontaminate; a volte bisogna fare i conti con i guasti meccanici del mezzo di trasporto. Prima la rottura della pompa del gasolio, poi le forature, poi ancora la balestra che cede ai contraccolpi rimandati dalle pietre. Alla fine ci vogliono quasi due giorni per poter ritornare a Kadugli.
Si arriva in città col buio, non ci sono alberghi e l’unica soluzione per la notte sarebbe quella di bussare a qualche organizzazione umanitaria. Provo a Save the Children, ma non hanno posto, sono al completo; alla polizia è meglio lasciar perdere; faccio un tentativo all’Unicef, mi dicono di aspettare; dopo quasi mezz’ora di attesa, mi propongono una stanza nella loro sede staccata, ubicata nella periferia della città: anche questa volta è andata bene.

TRA I NUBA MASAKIN
Percorrendo il tragitto da Kadugli a Talodi si dovrebbero incontrare alcuni villaggi masakin, ma non ne sono sicurissimo. A scanso di equivoci chiedo conferma a un «ragazzone» svizzero di nome Peter, che lavora per l’Unicef. Dopo una breve consultazione della mappa, Peter traccia dei punti e spiega: «Questi sono i villaggi che cerchi, ma attenzione: su questo percorso, due giorni fa, un autobus che trasportava dei locali è saltato su una mina». Per un percorso più sicuro, mi consiglia di chiedere agli addetti delle Nazioni Unite i punti gps (sistema di rilevamento satellitare della posizione, ndr). Agli uffici Onu mi sconsigliano vivamente la pista che passa dai villaggi masakin perché, oltre alle mine, ci sono problemi di banditismo.
Il morale cade a pezzi, non so cosa fare. L’alternativa sarebbe quella di rifare il giro da El Obeid, ma il tempo stringe, non ce la farò mai. Guardo Jamal negli occhi, non c’è neppure bisogno di parlarci, saliamo in macchina, si parte. Se il destino è quello di saltare su una mina o essere preda di banditi, allora è giunto il momento.
Nei primi chilometri di pista ci sono numerosi controlli di polizia, la strada è sbarrata da bidoni e filo spinato, che vengono spostati solo dopo la verifica accurata del passaporto e di tutti i permessi rilasciati dalle autorità militari del luogo. Man mano che ci si allontana dai centri abitati i controlli si fanno sempre più rari, fino a scomparire del tutto dopo l’ultima collina, che all’epoca della lunga guerra era controllata dalle milizie arabe.
Il paesaggio è armonioso; di tanto in tanto si incontrano gruppi di giovani con i loro dromedari. In questa zona i nuba convivono con molte altre etnie di ceppo arabo, ma la loro quotidianità è pacifica, non c’è odio.
Si viaggia per l’intera giornata, cercando di non lasciare mai la traccia dei punti che ci hanno consigliato di seguire. Prima di arrivare a Talodi faccio una sosta per fotografare i villaggi dei nuba masakin. Ormai ne sono rimasti pochi, la maggior parte, mi dicono, è migrata verso sud.
Quando è già buio arriviamo a Tosi, villaggio famoso per l’imponente jebel (monte) dove si possono ammirare graffiti rupestri. Chiediamo ospitalità alla polizia, ma questa volta la risposta è negativa: ci dicono che per regolamento non possono far montare le tende nel cortile della caserma. Mentre discutiamo con i militari, si forma il solito gruppo di persone e una di esse ci offre la possibilità di usufruire del piazzale della scuola come campeggio. A tarda sera scopro che questi gentili giovanotti sono gli insegnanti della scuola stessa.
Il posto è grazioso e recintato, non fa molto caldo; poi c’è anche la luna che mi fa da faro, mentre infilo i picchetti della tenda nel terreno. Un solo neo, l’intero spiazzo è invaso da formicai, me ne accorgo solo dopo aver montato il telo impermeabile dell’igloo, troppo tardi per rimediare.

EX GUERRIERI E LOTTATORI
Dopo una notte quasi insonne, a causa delle formiche che hanno invaso tenda e sacco a pelo, si riparte verso Kau, Fungor e Nyaro, tre villaggi resi famosi dalla fotografa tedesca Leni Riefenstahl con la pubblicazione del libro fotografico «I Nuba di Kau» (1976). Guerrieri e lottatori nuba non sono più quelli delle foto di quel tempo. Il progresso, si fa per dire, è arrivato anche qui. Non mi ero fatto nessuna illusione prima di partire dall’Italia: sapevo di non trovare più le scene di vita quotidiana rappresentate nel libro, ma mi aspettavo un insieme di villaggi e una comunità abbastanza autonomi.
Purtroppo la realtà è un’altra: i villaggi di Kau, Nyaro e Fungor sono ubicati in una zona difficilmente raggiungibile dalle arterie principali, se non dopo almeno due giorni di fuoristrada, e il primo impatto è la visione di un agglomerato di capanne dimenticate dal mondo. 
Avevo portato con me dall’Italia alcune fotocopie a colori del libro di Leni. Ho provato a cercare le persone ritratte: alcune sono andate a vivere altrove, altre sono decedute, altre ancora, con sorpresa, le trovo nelle loro abitazioni.
Un anziano signore si riconosce nella foto e mi fa capire che è passato un po’ di tempo da quello scatto, non sa dirmi quanto, ma lo so io: quasi 30 anni. Dopo qualche attimo di attesa per controllare e vincere il comprensibile imbarazzo, l’uomo allunga il braccio e prende in mano la fotografia, la guarda attentamente, poi chiama alcuni amici e si mette a discutere e ridere con loro.
Li lascio soli per un po’, mentre cerco di distrarmi fotografando l’impagliatura dei tetti delle capanne. Dopo qualche minuto ritorno verso il gruppetto di uomini, ancora intenti nella discussione. Con delicatezza li interrompo e chiedo, cercando di farmi capire, se posso ritrarre l’ex «guerriero» con la vecchia foto tra le mani. Si guardano tra di loro, poi il più giovane si rivolge a me, mi guarda e fa un cenno di assenso con la testa.
Il signore della foto ha un nome mai sentito da queste parti: dice di chiamarsi Sathir. Lo metto in posa, mentre cerco di pronunciare ripetutamente il suo nome per rompere la sottile, ma robusta parete, che di solito si crea tra il soggetto e l’operatore. Ricerco e studio la luce in un fazzoletto di ombra creata dai rami degli alberi, per provare a registrare un’immagine morbida, dolce, senza contrasti. Ma il soggetto che ho davanti all’obiettivo è troppo imponente e autoritario. Nemmeno l’uniformità di una luce piatta riuscirà a portargli via lo sguardo pieno di fierezza. Bastano solo tre scatti, quello giusto dovrebbe esserci. Ci salutiamo con la promessa di lasciare a Jamal la nuova fotografia, lui magari da queste parti ci ripasserà.
Consumo la mia giornata gironzolando per i tre villaggi, che distano solo pochi minuti di fuoristrada l’uno dall’altro. Pensavo di trovare qualcosa che mi portasse in qualche modo al passato, invece nulla: del passato sono rimasti solo i sassi levigati dal vento, a fare da guardia alla montagna.

È ARRIVATA LA PACE?
Mentre sto per lasciare Nyaro, in un campo non lontano dalle capanne, atterra un elicottero delle Nazioni Unite. I motori si spengono quasi subito e, lasciato passare il tempo per permettere alle pale di fermarsi, dalla scaletta scendono alcuni ufficiali in uniforme.
La gente si raduna subito sotto il grande albero, viene improvvisata un’assemblea collettiva a cui partecipa l’intero villaggio. L’inizio del dialogo è abbastanza chiassoso e confuso: tutti vogliono parlare, c’è chi si alza in piedi e sbraita con tono autoritario, chi agita le mani per farsi notare, chi invece se ne frega e va a vedere il «grande uccello» bianco con la scritta UN arrivato dal cielo.
Dopo il prevedibile caos iniziale, cala il silenzio; un ufficiale dello Sri Lanka prende la parola: con tono deciso, in un inglese quasi perfetto, chiede alla gente di cosa ha bisogno. La risposta è quasi immediata e risuona come un eco provieniente dalle montagne vicine: water. Nel terzo millennio può sembrare strano, ma è proprio così: a Kau, Nyaro e Fungor non c’è acqua.
Ma cosa ne sarà del futuro di questo popolo, ora, a pochi mesi dalla morte di John Garang, il carismatico leader dello Spla? Da quasi un anno sui Monti Nuba si è riversato «il mondo». Le Nazioni Unite pare abbiano il controllo della situazione e le organizzazioni umanitarie riescono, finalmente, a lavorare senza grossi intoppi.
Sarà finalmente arrivata la pace?

A volte la fine di un viaggio è come l’improvviso risveglio da un sogno: provi a richiudere gli occhi per riprendere sonno, ritornare nella favola, continuare a vivere lontano dalla realtà.
I ricordi scorrono veloci come i fotogrammi di un vecchio film. Come potrò dimenticare tutte quelle strette di mano prima di ogni «scatto»? Duemila o forse più. Di solito la stringevo anche a coloro che non fotografavo o magari a un intero gruppo di persone prima di metterli in posa. Poi ci sono tutti i bambini incontrati ai bordi della strada, le loro manine sempre alzate in segno di saluto, i loro sorrisi, gli occhi neri e misteriosi, le sagome scure che si confondono con quelle della natura negli ultimi attimi di luce, prima del tramonto.
In questo viaggio, come sempre, ho voluto contemplare e cercare situazioni, mai crearle. Poi le ho fissate nella memoria, mia e in quella di un supporto di gelatina. Sì, perché il viaggio è uno stato d’animo che guarda il mondo, un modo di essere, di vivere. E noi viaggiatori siamo come il vento, condannati a correre per non morire.
Di Giovanni Mereghetti

Giovanni Mereghetti

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