Quando le genti non balbettano più

Qual è per la chiesa l’eredità più ricca del secolo appena trascorso?
Senz’altro il Concilio ecumenico Vaticano II.
Il Concilio è una grazia anche per il 2000.
«Missioni Consolata»
ne ricorda il decreto sull’attività missionaria,
aggiornato da altri significativi documenti.
E sorge spontanea
la domanda:
dopo 35 anni
di «Ad gentes»,
i missionari
sono in crescita?

R icordo ancora il libro di Piero Gheddo Concilio e terzo mondo del 1964. Dal titolo se ne intuiva già il contenuto; ma più espliciti erano la copertina e il suo retro, che riportavano foto di vescovi e cardinali provenienti soprattutto dal sud del mondo. Così pure la «seconda» e la «terza» di copertina. Complessivamente si contavano 30 prelati con tricorno, zucchetto, colbacco, fez o altri copricapo.
Il libro attirò la mia attenzione anche perché, tra le foto, spiccava quella di Carlo Cavallera, missionario della Consolata, vescovo sui verdi altopiani di Nyeri e, poi, nel deserto di Marsabit (Kenya). Con lui trascorsi alcuni mesi a Roma durante il Concilio ecumenico Vaticano II.
«Nell’aula conciliare – confidò un giorno monsignor Cavallera – c’è battaglia tra noi missionari e gli altri vescovi: vogliono liquidare in fretta il problema delle missioni, facendone un’appendice di qualche altro tema. Ma noi insistiamo per un documento a parte, perché il futuro della chiesa si gioca soprattutto nel terzo mondo. Eppoi: la chiesa è o non è missionaria?».
Vinsero la battaglia i padri conciliari missionari, ma sul filo di lana. Ecco perché il decreto su «l’attività missionaria della chiesa» fu approvato «in zona Cesarini», cioè il 7 dicembre 1965, ad un solo giorno dalla chiusura del Concilio.
Barbari, pagani e Genti
Il documento sulle missioni è noto come «Ad gentes», le due parole latine di inizio: un’espressione che si è imposta specialmente fra i missionari. «Ad gentes» significa «alle genti».
E chi sono le «genti»? Il termine ricorre nelle lettere di san Paolo, che si definisce «apostolo delle genti», mentre san Pietro è «apostolo dei giudei» (cfr. Gal 2, 8). Nella concezione di Israele, «popolo eletto», l’umanità è divisa in «ebrei» e «genti».
Esisteva anche un’altra distinzione: «greci» e «barbari». Questa era etnocentrica: esprimeva un giudizio tutt’altro che positivo sui «barbari». Infatti barbaròs, secondo l’etimologia greca, era colui che (parlando una lingua straniera) balbettava; significava pure rozzo, incivile e crudele.
«Genti», invece, era un termine neutro e, forse, più rispettoso sotto il profilo culturale; ma non nella valutazione dell’ebraismo, perché «le genti» praticavano l’idolatria, sinonimo di peccato… Fu un merito di san Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, l’essersi dedicato all’evangelizzazione dei «non ebrei» e avere imposto alla chiesa nascente l’apertura a tutti i popoli.
Accanto a «genti» e «barbari», ricorreva anche «pagani». Era una parola innocua: definiva semplicemente gli abitanti dei villaggi di campagna. Ma, a partire dal quarto secolo, «pagani» assunse un significato negativo, in contrapposizione a «cristiani». Il messale romano, edito dal papa Pio V e riformato da Pio X, conteneva una Missa contra paganos, in cui si invocava Dio «affinché i popoli pagani, che confidano nella loro ferocia, siano schiacciati».
Oggi, caduto l’uso di «pagani», resta quello di «gentes», che designa coloro a cui non è stato annunciato il vangelo. È da sottolineare l’«ad» gentes. La preposizione ad significa «verso»: suggerisce attenzione, disponibilità e comprensione verso i popoli da evangelizzare.
Dunque: non «contra», ma «ad» gentes.
«Sembra strano (però ce lo dobbiamo pur dire) – commentava a Torino il cardinale Anastasio Ballestrero – che qualche volta facciamo i missionari con spirito di conquista, di dominio, per contare le nostre vittorie e i nostri trionfi».
Al contrario, la chiesa non deve mirare ad ambizioni politiche, sociali o religiose; non è mandata per giudicare, ma per salvare e servire.
Non basta un tocco
di vernice
Già prima del Concilio ecumenico Vaticano II, alcuni missionari illuminati avevano parlato di «adattamento» alle culture dei popoli. Poi il decreto Ad gentes ha richiesto che, nei paesi di missione, la vita cristiana fosse «commisurata al genio e all’indole di ogni civiltà» (n. 22). Si è auspicato un cristianesimo più rispettoso delle culture: quindi adattato nello stile delle chiese e nelle celebrazioni liturgiche, con la valorizzazione di canti, ritmi e danze locali. Ma era un modo di evangelizzare ancora superficiale.
Pertanto dall’«adattamento» si è passati all’«inculturazione», cioè all’incarnazione del messaggio evangelico in una cultura non cristiana e non europea. È un problema complesso. Ci si dibatte tutt’oggi.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’accoglienza del vangelo deve sfociare nella nascita di nuove espressioni cristiane. Ebbene: sono state composte orazioni eucaristiche particolari e manuali di preghiere che accolgono elementi tradizionali. Ma non basta. Si richiedono elaborazioni teologiche «dal» sud del mondo.
Incombe però un rischio: quello del miscuglio, della confusione, del sincretismo. Ciò crea sconcerto e (fatto assai più negativo) divisione. Ecco perché nell’esortazione apostolica del 1975, Evangelii nuntiandi, Paolo VI insistette sull’evangelizzazione delle culture: «Occorre evangelizzare, non in modo decorativo, a somiglianza di vernice superficiale, la cultura e le culture dell’uomo, partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (n. 20).
Tuttavia i pericoli, insiti talora nelle novità, non devono comportare il riflusso verso posizioni teologiche stantie. Si camminerebbe fuori della storia. Il servizio dell’evangelizzazione deve continuare con coraggio, «anche quando bisogna seminare nelle lacrime». Parole di Paolo VI.
un «Ad gentes» in crescendo
Il decreto sull’attività missionaria della chiesa Ad gentes è da completarsi con altri documenti conciliari: specialmente la costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis umanae, la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Sono testi che sollevano problemi cruciali per il missionario: si pensi alla Nostra aetate nel contesto del Sudan, dove i cristiani sono perseguitati dal regime islamico. Anche il rapporto con il fondamentalismo induista è spigoloso. Giovanni Paolo II l’ha sperimentato nel suo recente viaggio in India.
Traumatico per alcuni missionari (che fino a ieri predicavano che «fuori della chiesa non c’è salvezza») può essere il tema della libertà religiosa. Al che il cardinale Ballestrero rilevava: «Purtroppo i pavidi che rifiutano quel testo ci sono ancora, eppure esso è intriso dell’audacia dello Spirito e va letto in questa prospettiva e con questa sensibilità. La chiesa, proprio perché missionaria, non è mai sulla difensiva e non deve esserlo. Non siamo mandati a difendere una cittadella, ma a servire il mondo con il messaggio della parola che salva».
Il messaggio del Concilio sull’Ad gentes va aggiornato pure con i successivi documenti che ne sviluppano i problemi. Ho già ricordato l’Evangelii nuntiandi.
Nel 1967 appariva l’enciclica Populorum progressio. In essa Paolo VI sottolineava lo sviluppo integrale di tutto l’uomo come un aspetto fondamentale dell’evangelizzazione. Inoltre il documento sensibilizzava i cristiani sui problemi nel sud del mondo e stimolava la solidarietà verso i fratelli impoveriti da poteri nazionali e inteazionali.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione dei popoli è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990). Ha riaffermato l’urgenza della missione ad gentes, anche di fronte alla penuria di vocazioni sacerdotali in Europa. Però il problema della scarsità di sacerdoti non si supera chiudendo i cancelli delle diocesi, affinché nessun prete «scappi».
«La fede (in crisi) si rafforza donandola» (n. 2).
N el 1976, ritornato in Italia dalla missione in Tanzania, mi capitò tra mano una rivista missionaria, di cui non ricordo la testata. Mi colpì, come nel libro di Gheddo, la copertina: ritraeva un ragazzo che scriveva sulla lavagna: «Anch’io sono missionario».
Da questa affermazione, in perfetta sintonia con l’Ad gentes del Vaticano II, ci si sarebbe aspettati una crescita di vocazioni missionarie. Ma la dichiarazione del ragazzo è stata «una» rondine che… non fa primavera. In compenso, sono cresciuti i laici impegnati. Gli istituti missionari (che lamentano la mancanza di vocazioni) non dovrebbero forse fare i conti con i volontari, ripensando i propri comportamenti e regole? Però i laici, missionari part time, non sostituiscono gli evangelizzatori full time.
Allora «udii la voce del Signore che diceva: “Chi invierò? E chi andrà?…”. Io risposi: “Eccomi, manda me”» (Is 6, 8-9).

Francesco Beardi

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