La gamba moderata è troppo corta

In politica è meglio essere «moderati» o «coraggiosi»? Il cattolicesimo sociale
coincide con il «berlusconismo»? Da Lilliput, dal profeta Geremia e dal cardinal
Martini possono venire insegnamenti importanti. La realtà è difficile, complessa,
travolgente, ma va affrontata. È come l’atteggiamento di Davide con Golia:
Davide osò sfidare Golia, non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale
e scontato e invece… L’alternativa può essere trovata: ricerca contro pensiero unico, cooperazione contro competitività, sobrietà contro spreco…

Che cosa significa «osare il futuro»? Qual è la traduzione di un verbo così ambizioso? Quali possibili strategie oggi possiamo utilizzare per raggiungere lo scopo? Ci sono tre strategie, a cui occorre richiamarsi: la strategia lillipuziana, la strategia di Geremia (dal libro del profeta omonimo) e la strategia portata avanti dal cardinal Martini.
Noi abbiamo bisogno di «un fare alternativo» e di «un pensare alternativo», perché l’approccio integrale è sempre teorico e pratico insieme. Che serve una persona che non capisce quello che sta facendo? Allora ci vuole un nuovo pensiero. E per un nuovo pensiero c’è bisogno di svellere e distruggere per edificare e piantare. Perché, se tu non attraversi il momento della «pax destruens», tu non crei niente.
DECOLONIZZARE E DELEGITTIMARE
Il professor Latouche parla sempre di «decolonizzare l’immaginario».
Che vuol dire? Significa questo: noi che vogliamo cambiare il mondo, che diamo vita alla «scuola per l’alternativa», noi siamo colonizzati nel nostro sistema cognitivo, nel nostro cervello. Il nostro modo di ragionare, che crediamo spontaneo, in realtà non ci appartiene. È quello che l’opinione dominante, la narrazione economica dominante (oggi neo-liberista) ci fa pensare. Poiché occorre fare i conti con questo pensiero, dobbiamo svellere e distruggere, se vogliamo edificare e piantare.
Non possiamo correre subito a creare il nuovo. Perché, se prima non ci liberiamo del vecchio, il nuovo non sarà altro che un prolungamento del presente. Questo significa «decolonizzare l’immaginario».
Si prendano i libri di Riccardo Petrella. Qual è il ritornello continuamente ripetuto? «Delegittimare». Delegittimare la narrazione economica dominante, perché se non si mostrano i suoi principi antropologici (inaccettabili e pseudo-scientifici!), allora quelle affermazioni e quelle dottrine avranno la meglio nell’opinione pubblica.
Noi dobbiamo fare questo lavoro critico di pensiero. Dobbiamo tornare a pensare. L’azione è fondamentale, ma se non la si accompagna con una produzione originaria e critica di pensiero, non si va molto lontano. Prima o poi si viene risucchiati. Noi non dobbiamo avere paura di realizzare forme di «violenza ermeneutica», cioè dobbiamo dire: «Su questo non ci stiamo e vi combattiamo fino in fondo. Certo vi rispettiamo, perché siamo non violenti. Ma noi stiamo cercando con il nostro impegno di costruire una società che è diversa da quella che volete voi, e ve lo diciamo in faccia. Ce la mettiamo tutta per svelare la carica di ideologie che intravvediamo nelle cose che voi affermate».
Però, neanche questo basta più.
IL CARDINAL MARTINI E IL «BERLUSCONISMO»
Molti di noi fanno riferimento al cristianesimo, al vangelo, alla dottrina sociale della chiesa, al cattolicesimo sociale. Qui occorre introdurre la «strategia ambrosiana».
Con tale termine io intendo la pastorale sociale che il cardinale Martini, nei suoi discorsi di S. Ambrogio agli inizi di dicembre di ogni anno, ormai ha maturato.
Basta con il moderatismo dei cattolici in politica, basta con l’accidia politica e l’ignavia dei conservatori. Questo è un passaggio importante: noi abbiamo persone che fanno banca etica, commercio solidale, adozioni a distanza, frequentano ambienti missionari ecc. e poi magari non riescono a distinguere il cattolicesimo sociale dal «berlusconismo».
Qui il problema è: io non ti dico chi devi votare, fai quello che ti pare; però ti metto in guardia su cosa c’è dietro una possibilità e dietro un’altra. E ti spiego perché il cardinal Martini dice basta al moderatismo dei cattolici.
Chi sono i cattolici nell’uno o nell’altro schieramento politico? «La gamba moderata della politica» viene risposto. «Io la gamba moderata?» dovrebbe domandarsi un cattolico che fa riferimento al magistero sociale, che vuole vivere il giubileo.
Oggi il magistero sociale della chiesa (soprattutto quello della Sollicitudo rei socialis e della Centesimus annus) e i discorsi del papa sono il serbatornio di un discorso alternativo, sono una cisterna di acqua sorgiva. Solo che se non ci sono cristiani e cattolici che in politica si comportano coerentemente con questi principi…
In politica bisogna essere coraggiosi, perché, come dice il cardinal Martini, il pensiero sociale della chiesa è portatore di iniziative e proposte d’avanguardia per la società di oggi. E comunque il vangelo nella storia ha sempre una eccedenza di senso e noi non possiamo sterilizzarlo facendoci considerare dei moderati. Se noi accetteremo il discorso del moderatismo, allora saremo neutralizzati, non daremo più fastidio a nessuno. A tutto ciò occorre ribellarsi.
È un discorso politico, ma la politica serve. Altrimenti il cambiamento è solo un cambiamento simbolico.
«OSARE IL FUTURO»
Il verbo «osare» ha almeno tre significati.
Nella liturgia si usa una bella espressione: «Osiamo dire: Padre nostro…». Il primo significato di «osare» è questo che la liturgia ci regala. Significa prendersi una libertà, essere impertinenti: «non siamo degni, ma osiamo dire». È una impertinenza esigente.
Il secondo significato di «osare il futuro» è operare una forzatura, affrettare il parto della storia, anticipare. La storia porta in grembo qualcosa, prima o poi lo darà alla luce. Osare il futuro significa: facciamo presto. Questa cosa nuova (che deve nascere) nasca ora. C’è un atteggiamento messianico in chi osa il futuro: egli vuole che quanto appare come salvifico anticipi i tempi, spingendo per una accelerazione della storia.
Un terzo significato è accettare la sfida. Osare il futuro vuol dire: la realtà è difficile, complessa, sembra che voglia anche travolgerci, ma noi accettiamo la prova. È l’atteggiamento di Davide con Golia: Davide osò sfidare Golia. Non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale e scontato, e invece…
Quindi, «osare il futuro» significa buttarsi, rischiare, sperimentare cose nuove. Significa contemporaneamente resistere, reagire, misurarsi con le nuove sfide che ci interpellano.
Un ultimo significato di osare il futuro è quello di sfondare il presente. Cioè aprire dei varchi, innovare, essere generativi. Mentre prima l’innovazione veniva da fuori, adesso siamo noi a produrla. Pertanto creare alternative, essere capaci di futuro, essere portatori di idee, valori, modelli di sviluppo, di «altro» insomma (purché sostenibile, compatibile, dolce).
LA STRATEGIA LILLIPUZIANA
Non basta, ovviamente, questo pensare in grande. Innanzitutto è importante fare. Ecco perché una delle prime strategie d’azione è la «strategia lillipuziana».
In Italia chi ci ha informati su questa strategia sono stati Alex Zanotelli e Francesco Gesualdi. Entrambi fanno riferimento a un testo di due studiosi americani, Jeremy Brecher e Tim Costello (Contro il capitale globale, Feltrinelli 1996).
Partendo appunto da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, i due economisti ci fanno capire che ciascuno di noi può diventare protagonista di un cambiamento, perché non è vero che non abbiamo più poteri.
Noi avremo ancora dei piccoli poteri, se sapremo metterli insieme, riusciremo a resistere alla minaccia del «Gulliver globale», che in questo momento sta appiattendo, sta schiacciando tutto e tutti.
La globalizzazione, la new economy ci hanno portato internet. Di chi è internet? Chi può usare internet? È uno strumento ambiguo. Ci possono andare i pedofili, come pure i cittadini o i «lillipuziani». L’ambiguità di internet è l’ambiguità del «Gulliver globale».
I LIVELLI DELL’AZIONE
La strategia lillipuziana va articolata in almeno tre livelli: personale, associativo e politico-istituzionale.
Partiamo dal concetto di «economia leggera». Che c’è dentro all’economia leggera? Ci sono comportamenti economici alternativi. Se io voglio, già oggi ho a disposizione tante scelte alternative: dipende da me. Io come cittadino che risparmia, consuma, viaggia, produce rifiuti, dispone di tempo libero, ho a disposizione delle alternative.
Ma questo è soltanto il primo livello della strategia lillipuziana. Guai se tutto finisse qui, guai se noi curassimo unicamente la diffusione orizzontale dei comportamenti alternativi! Guai ad accontentarsi di 300 botteghe nel mondo. Perché, se avee 300, a livello di risultati effettivi finali, è come avee 100, che cosa è cambiato? Bisogna dare efficacia al potere dirompente che hanno questi comportamenti.
Ognuno di noi, se ci crede fino in fondo, deve passare dal primo livello della strategia lillipuziana (il livello della cittadinanza attiva personale) al secondo livello (il livello della cittadinanza attiva associativa). È la democrazia associativa, nella quale ci sono gruppi, parrocchie, movimenti, comunità, soggetti collettivi. Lì noi possiamo compiere gesti molto più forti, molto più efficaci di quelli che possiamo fare da soli o con la famiglia.
Facciamo qualche esempio. Il movimento dei focolari ha dato vita a esperienze di economia di comunione: è partito da un concetto spirituale (la comunione trinitaria) per fare delle proposte alle piccole aziende, diffuse in tutto il mondo, di questo movimento.
Che cosa accade in una azienda che pratica l’economia di comunione? Che l’utile viene tripartito: un terzo viene utilizzato nell’azienda, un terzo per fare formazione, un terzo viene donato. Donato gratuitamente ad altri, perché si crede nella dinamica del dono.
Scelte spirituali tradotte in comportamenti economici: così sono nate la Banca etica, il marchio Transfer, la Global March, l’associazione Chiama l’Africa, la campagna Sdebitarsi o quella della riduzione del debito estero della Cei e così via. Quando le associazioni si mettono insieme danno vita a realtà molto più incisive di quelle che si possono fare singolarmente.
C’è, infine, il terzo livello della strategia lillipuziana. Dobbiamo raggiungerlo, perché senza di esso i cambiamenti precedenti non saranno strutturali e politici, ma solamente simbolici.
Se il cittadino lillipuziano ha fatto tanto per contrastare la Nike (che produce le sue scarpe attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile), egli deve fare tutto questo non per lavarsi la coscienza e sentirsi più buono, ma per modificare leggi e costumi.
Questo passaggio richiede il coinvolgimento di altri soggetti: un sindacato internazionale, un organismo internazionale, forze politiche. Altrimenti il cittadino lillipuziano non può farcela. Soltanto così si arriva alle clausole sociali, alla Tobin Tax, al superamento dei paradisi fiscali o a qualche altro cambiamento sostanziale.
Noi dobbiamo curare tutti e tre i livelli della strategia lillipuziana: dobbiamo agire con i nostri comportamenti personali e famigliari; dobbiamo portare la strategia lillipuziana nelle associazioni, parrocchie, collettivi, nel sociale dove operiamo (diffusione orizzontale); dobbiamo poi puntare all’impatto politico verticale.
Per questo dobbiamo tornare ad agire con tutta la società civile e con i suoi organismi. Ai sindacati, per esempio, dobbiamo far capire che hanno commesso tanti errori, ma che essi sono una risorsa preziosa per la democrazia e per questi cambiamenti. Perché, finché percepiremo i sindacati come nostri primi nemici, non faremo tanta strada.
Bisogna cambiare gli attuali meccanismi istituzionali, cristallizzati nelle loro concezioni sociali e politiche. Occorre mandare a casa i sostenitori di Bretton Wood. Bisogna dar vita ad una nuova generazione di istituzioni che oggi non esistono. In sostanza, è una agenda di lavoro per tutto il ventunesimo secolo e, quindi, ci vorrà del tempo. Anche per questo occorre far crescere la sensibilità politica rispetto a queste problematiche. Lo sottolineo per coloro che credono di poter fare le rivoluzioni senza i livelli intermedi del cambiamento. E, alla fine, queste persone rimangono astratte o troppo pretenziose.
STILI DI VITA, SOBRIETÀ, LETIZIA
Nella strategia lillipuziana, ci siamo dentro noi, con i nostri stili di vita. Con questo termine mi riferisco a qualcosa di molto profondo, perché uno stile di vita non s’improvvisa. Lo stile di vita è il risultato di una opzione fondamentale, che si rende visibile nella quotidianità; lo stile di vita di una persona è ciò che la caratterizza in modo permanente e profondo. Lo stile di vita quando è vero, quando è coerente, rende visibile la nostra etica.
Come altri fanno scelte improntate al profitto, alla dinamica del mercato, alla competitività, così il cittadino lillipuziano fa scelte improntate al bene comune e alla cultura della sobrietà. Questa è la nuova virtù sociale alla quale formarci, che è l’antica virtù cardinale della temperanza. Ma che è la temperanza? È scomparsa dal vocabolario.
Oggi la sobrietà può tornare. Essa deve essere, come oggi si dice, una sobrietà felice; non deve essere una cosa sofferente. Perché il barbone non è l’esempio di un uomo sobrio? Perché gli mancano troppe cose per essere un uomo sobrio.
Gli manca, in primis, la scelta; quasi sempre una persona non sceglie di fare il barbone. Al barbone manca la letizia. Se lui avesse fatto una scelta personale, trasmetterebbe la letizia. Ma al barbone mancherebbe ancora qualcosa. Che cosa? Il buon gusto, l’eleganza della semplicità, l’estetica della sobrietà. Una persona sobria non deve essere trasandata, arruffata, dimessa. L’obiettivo da perseguire è diverso. La sobrietà deve essere caratterizzata bene dalla leggerezza della vita, che sa fare a meno di zavorre, sprechi, cose ridondanti, inutili. Liberiamoci da tutto ciò: cerchiamo l’essenzialità.
La sobrietà deve anche essere un modo di giudicare e guardare il mondo con lo sguardo dei poveri. Perché è da essi che possiamo imparare qualcosa che ha a che fare con questa virtù. Insomma, secondo me è importante la dimensione francescana della sobrietà.
La sobrietà non deve essere equivocata con la casistica di quante cose dobbiamo avere o non avere: numero di paia di scarpe, televisore, motorino, milioni da spendere per le vacanze, e così via. È importante la qualità della sobrietà che uno vive e ciò è suggerito dalla coscienza del cittadino lillipuziano.
La sobrietà deve anche liberarsi dalla deriva pauperistica: non è la rinuncia a quello che riteniamo essenziale per uno stile di vita dignitoso. Possiamo avere delle cose, basta condividerle con altri, perché chi non ha abbia di più. La sobrietà è un vivere meglio, consumando meglio.
Detto questo, passiamo alla seconda strategia, quella che è centrata sul pensare alternativo. Abbiamo bisogno di un pensiero alternativo nel tempo del pensiero unico. Noi abbiamo bisogno di un altro logos, rispetto al logos trionfante in questo momento nella società. Perché noi dobbiamo svellerare, distruggere per edificare, piantare mentalità nuove.
Che vuol dire un pensare alternativo? È un «pensare alla Geremia». Significa introdurre antidoti cognitivi all’interno dell’organismo sociale e dell’opinione pubblica in cui viviamo. Antidoti cognitivi. Ossia là, dove vediamo pensatori, esperienze, opere, che risultano essere veramente alternative, noi dobbiamo dare informazione e fare formazione. Personalmente non mi stanco mai di fare riferimento alla cultura del dono e della gratuità, portata avanti da un gruppo di economisti a livello internazionale riuniti nel Maus, «movimento degli antiutilitaristi nelle scienze sociali».
I loro studi sul dono sono fondamentali in tempi di idolatria del mercato. Sono antidoti che tu lanci, che tu semini, perché le persone (che sentono parlare solo di certe logiche e dinamiche) abbiano la possibilità di sapere che non c’è solo mercato.
Occorre parlare di cooperazione come antidoto alla competitività: è questo che fa Riccardo Petrella. Se si va a svelare quale immagine di uomo e di società c’è sotto la competitività, cosa si scopre?
Dietro il concetto di competitività c’è un pensiero che suona così: homo homini lupus; ed anche mors tua, vita mea. È l’antropologia dello sbranamento, perché cresce e si fa strada quello che ruba fette di mercato all’altro. Ma un mondo con questi fondamenti non ha futuro. Quindi, dobbiamo temperare la competitività con il principio di cooperazione, condivisione, sussidiarietà, solidarietà, responsabilità.
DAL PENSIERO UNICO AL PENSIERO PLURALE
La responsabilità è anche avere l’etica del limite. Mi autolimito, non perché qualcuno me lo impone, ma perché ho capito che autolimitarmi significa aiutare l’altro a crescere.
Ci sono dei pensatori che aiutano ad avere questi pensieri. Ad esempio, Simon Veil che dice: quando Dio ha creato il mondo ha decreato se stesso, si è fatto piccolo, si è limitato, perché il mondo fosse, perché noi fossimo. Non è vero che il limite equivale sempre al fallimento o all’impotenza. Nel limite c’è una capacità generativa: fa crescere la nostra società.
E ancora va ricordato il principio di responsabilità e il «pensiero plurale». Se noi vogliamo combattere il pensiero unico, abbiamo bisogno di declinare tante parole, tante categorie di pensiero al plurale, per rompere il processo di omologazione e uniformità.
Oggi chi aiuta a pensare al plurale? Demoren, ad esempio, e tutti i morenisti. Demoren dice: basta con l’universo, occorre il pluriverso, perché c’è una pluralità dentro l’universo. Non «uni» ma «pluri» perché siamo dentro le culture delle differenze e lo scontro delle civiltà. Un pluriverso, appunto.
Questi sono titoli cognitivi, che serviranno quando, un domani, al cittadino lillipuziano si proporrà l’universo come la cosa più grande, quella che abbraccia tutto. In quell’occasione, egli potrà tirare fuori il proprio antidoto che suggerisce un concetto diverso: attento, dice, che forse l’universo non è un universo. Noi abbiamo bisogno di prendere alcuni concetti e di rivederli al plurale; l’«epistemologia della complessità», dicono quelli che parlano difficile.
Abbiamo bisogno di riscoprire un nuovo modo di pensare, altrimenti rimaniamo tutti prigionieri delle opinioni dominanti. Soprattutto, dobbiamo riscoprire alcune parole: la communitas, per esempio, è irrinunciabile. Ma con quale significato? Nella parola c’è il cum dell’insieme e il munus, ha un duplice significato: munus come compito, ufficio, responsabilità, mansione e munus come dono. Pertanto, far parte di una comunità, avere il senso di appartenenza ad una comunità, dovrebbe comportare due cose: chi ne fa parte ha un compito da svolgere ed è dentro una ragnatela di reciprocità, di scambi, di doni. Allora è bello appartenere ad una comunità! Ma chi sente l’appartenenza comunitaria in questi termini?
Oggi altre parole importanti vanno reinterpretate. Il libro La cittadinanza multiculturale (Il Mulino, Bologna 1999) ha introdotto il concetto di cittadinanza multiculturale. Come facciamo, ci si chiede nel volume, ad usare ancora i vecchi criteri per definire una persona cittadino, in un mondo con 184 stati nazionali, 5 mila gruppi etnici e 600 gruppi linguistici? Per non parlare della altissima mobilità umana: gente che si sposta da un paese all’altro tutti i giorni. In questo mondo stiamo lavorando con un concetto anacronistico di cittadinanza, ancora basato sullo jus soli e lo jus sanguinis. Che possono servire nella mutata realtà di oggi?
Abbiamo bisogno di una nuova civiltà giuridica, altrimenti ci troveremo con 200 mila bambini nati in Italia, figli di coppie miste o multietniche, ma che non sono cittadini italiani, perché bisogna aspettare 8-10 anni prima di diventarlo. Intanto vanno nelle scuole italiane, ma non hanno la qualifica di cittadini. È colpa loro? No, siamo noi che dobbiamo rinnovare le nostre istituzioni, le nostre culture.
CATTOLICI, SUPERATE IL MODERATISMO
Strategia lillipuziana, strategia di Geremia; svellere e distruggere per edificare e piantare; delegittimare, decolonizzare; inventare, creare un nuovo pensiero. Ma per la realtà cattolica, c’è un altro lavoro da fare: occorre ripensare la via dell’impegno politico nel nostro tempo per arrivare al superamento del moderatismo.
I cattolici non possono più accettare di essere la gamba moderata o neutrale o super partes rispetto agli schieramenti. Bisogna fare riferimento ad un tesoro: è il tesoro della tradizione del cattolicesimo sociale, che è intriso di solidarietà. Non ci sono dubbi: un cristiano che s’impegni, in politica non sta da tutte le parti. Sta soprattutto dalla parte che lavora per aumentare solidarietà, sussidiarietà, responsabilità, giustizia, equità, nella nostra società.
Dobbiamo osare il futuro, perché c’è una eccedenza di senso del vangelo nella storia. Noi dobbiamo lasciarla trasparire questa eccedenza di senso, che è la porta più scomoda e più profetica che abbiamo a disposizione.
Guardiamo a ciò che sta accadendo in questo anno santo. La società non ce la fa a recepire le proposte del giubileo: lasciate riposare la terra, le macchine della produzione, i lavoratori. Pensiamo al debito, alla campagna sul debito o al solenne mea culpa del papa. Questa società non ce la fa proprio a capire. Ci sono dei valori veramente profetici che sono propri del pensiero sociale cristiano.
Noi, cristiani, dobbiamo capire che per molto tempo siamo rimasti dentro la «trappola dell’illuminismo». Che cos’è? È credere quello che ci lasciano credere. Cioè: la ragione pensa, la fede crede. Bella fregatura! Perché, se la ragione pensa e pensa all’organizzazione della società e della politica e se la fede crede, crede soltanto, al credente rimane unicamente il privato. Se prevale il bisogno di intimizzare la fede, cioè se la fede non è più capace di rendersi visibile, di incidere, allora siamo spacciati. Diventiamo dei moderati e gli altri neanche se ne accorgono che esistiamo.
I cattolici potevano essere anche moderati fino a quando erano una maggioranza nella società naturale intercristiana e avevano un partito politico di maggioranza relativa. Ma, se sei in minoranza nella società e nella politica, dire pure che sei un moderato è proprio un autogol. Per cui o i cattolici si svestono di questo involucro che li sterilizza, oppure politicamente sono destinati a divenire irrilevanti e insignificanti.
L’IMMAGINE E LA MISERIA DELLE PAROLE
Questo è il tentativo che stiamo facendo: conciliare etica ed economia, non in astratto, ma concretamente. Il mercato fa schifo? Le banche anche? Il consumo è ingiusto? Proviamo allora un altro mercato, un’altra banca, un altro consumo. Ma come fare nella società dell’immagine e dello spettacolo?
L’immagine può essere un problema, perché viviamo in una società iconizzata e in una politica mediatizzata. Si pensi allo spot di Emma Bonino, confezionato da Oliviero Toscani. Sono 4 minuti in cui la Bonino non dice una parola. Solo mimica facciale, smorfie, apertura e chiusura delle palpebre degli occhi e così via. Ma non dice niente. È efficacissimo in questa società dell’immagine e dello spettacolo.
È facile rendersi conto della miseria delle parole nella nostra società. Da tempo noi viviamo nella società della chiacchiera, di un blob continuo. Le parole si sono logorate; le parole per avere un significato hanno bisogno di essere ri-autenticate dalla forza del gesto.
Se vogliamo che le cose che pensiamo raggiungano le persone, dobbiamo saper usare il linguaggio (nuovo e pericoloso) delle immagini e della pubblicità, senza per altro trascurare la possibilità di sperimentare linguaggi alternativi.

Antonio Nanni

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