COLOMBIA – Quando volano missili e pallottole

La guerriglia attacca i municipi dove sono presenti distaccamenti
di polizia. Tra l’esercito
e le Farc è in corso una
guerra di logoramento che
sembra non avere mai fine.
Ma la gente, per la quale tutti dicono di combattere,
è stanca e lo fa sapere.
Come a Caldono, piccolo centro agricolo vicino
a Santander de Quilichao, dove gli abitanti hanno appeso delle bandiere bianche davanti
alle porte delle loro case. Non in segno di resa,
ma per chiedere finalmente un po’ di pace.

La stazione di polizia è come un castello medioevale di brutta fattura. La costruzione, tozza e squadrata, si trova nella parte alta del paese, sovrastando le piccole case circostanti. Al posto dei merli e del mitico fossato ci sono delle maglie metalliche che avvolgono le entrate e la terrazza, posta sul tetto. Un estraneo che veda una siffatta costruzione non può che rimanere perplesso. Almeno finché non conosce la storia.
La stazione è un «castello assediato». Gli assalitori sono i guerriglieri delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Negli ultimi due anni ci sono stati 4 attacchi. «L’ultimo è durato 15 ore ed ha fatto molti danni, ma come potete vedere ha lasciato intatto il bunker della polizia». A parlare è padre Orlando Hoyos, missionario della Consolata. Assieme a padre José Jesus Ossa, è responsabile della parrocchia di Caldono.
Con lui percorriamo le vie, apparentemente tranquillissime, di questo piccolo paese del Cauca, non distante da Santander de Quilichao. Ma chiunque si accorgerebbe che è una calma apparente. Basta guardare la filiale della Caja Agraria, la locale cassa rurale, con i muri crivellati di colpi d’arma da fuoco.
Molte delle case costruite sotto o a fianco della caserma sono ridotte in macerie, quasi avessero subìto un bombardamento. «In effetti è così – ci spiega padre Orlando -. Queste sono le conseguenze della caduta delle cosiddette pipas de gas, lanciate dai guerriglieri». Con questo nome vengono indicati dei cilindri ripieni di gas che le Farc usano come missili rudimentali e a buon mercato. «Purtroppo, le pipas non possono essere guidate sul bersaglio. Le traiettorie che esse assumono sono imprevedibili».
Nel corso dell’ultimo attacco ne sono state lanciate ben 22. Alcune di esse sono cadute su una scuola gestita dalle suore laurite. Avrebbero potuto fare una strage. Invece, è morta «soltanto» una suora, a causa di una scheggia vagante. Ora la scuola è fuori uso perché tutto il tetto è crollato. Finalmente diventa chiaro il significato di quelle maglie metalliche, poste attorno alla stazione della polizia. Servono per «respingere» le pipas dirette sul bersaglio.
Poco distante dall’istituto religioso, sopra la finestra di una casa è stato appeso uno striscione di stoffa dipinto a mano. Accanto ad una piccola colomba bianca, una grande scritta dice: Caldono unido por la paz, Caldono unito per la pace. Ma questo non è l’unico segno contro una guerra che si trascina ormai da troppi anni. Davanti alle abitazioni sventolano infatti delle bandierine bianche, quale esplicita richiesta di pace.
Come sempre, tutti dicono di combattere per il «bene» del popolo, che in effetti se la passa proprio male. «La gente – ci spiega padre Orlando – conduce un’esistenza di assoluta precarietà. Vive alla giornata. Mangia quello che coltiva. Ma ha poca terra e molti figli… Alcuni campesinos producono caffè e sisal (una fibra tessile usata per fare sacchi, stuoie, corde). Però i prezzi sono sempre molto bassi e il poco denaro che ricavano lo hanno già impegnato con i commercianti».
Il centro di Caldono è abitato in prevalenza da meticci e bianchi. La maggioranza della popolazione è india nasa, ma vive nelle campagne circostanti. «Adesso – racconta il missionario – anche lì sta arrivando la luce e l’acqua. Le famiglie indigene credono che sia un bene, ma in realtà è proprio l’opposto. I servizi costano e gli indios soldi non ne hanno».
Anche in Colombia i principi neoliberisti hanno attecchito. Chiediamo come le famiglie povere (che sono la grande maggioranza) affrontino bisogni primari quali la salute e l’educazione. «Tra gli indigeni – spiega padre Orlando – molti bambini non vanno a scuola. È vero che l’educazione pubblica costa ancora poco, ma ci sono le spese per l’uniforme, i quadei, le penne. Questa cosa li blocca e così, quando va bene, sono costretti a fare i tui tra i bambini. Per esempio, due anni per ciascuno. In pratica, un paio di figli vanno a scuola, gli altri ad aiutare nei campi o in casa. E possono avere anche soltanto 5 o 6 anni…».
Né la situazione è migliore nel campo della salute. «Sì, purtroppo anche questa rappresenta un grave problema. A volte gli indios debbono lasciare morire i figli, anche se le malattie sono curabili. A Caldono c’è una specie di ospedale, che però non ha degenza e non fa interventi chirurgici. Gli indigeni hanno diritto all’assistenza gratuita. Poi, comunque, vengono prescritte loro delle medicine, che non possono acquistare non avendo i soldi per pagarle. Quando c’è qualcosa di serio, vengono invitati ad andare all’ospedale di Cali. Ma ben pochi, nonostante la vicinanza, possono permettersi di andare in città e allora, pur malati, se ne tornano a casa…».
Intanto, presi dalla conversazione, abbiamo camminato fino all’entrata di Caldono. Qui è stato costruito un capannone industriale con tanto di piscine ed impianti chimici. Un gigantesco cartellone spiega: «Industria pilota per la trasformazione dell’agave. Progetto colombo-italiano». Non facciamo in tempo a provare un moto di simpatia e gratitudine verso l’Italia, che padre Orlando fredda ogni entusiasmo: «La fabbrica è chiusa da anni. Anzi, a dire il vero, non ha mai aperto».
Nel frattempo il mercato dell’agave (dalle cui foglie spinose si ricava il sisal) è crollato. Ma la fabbrica-fantasma è rimasta, a futura memoria, monumento allo spreco, alla corruzione e a un certo tipo di cooperazione internazionale che fa arrossire dalla vergogna.

La piazza di Caldono sta a metà tra la parte alta e quella bassa del paese. È una piazza rettangolare che al centro ospita un piccolo parco con alberi d’alto fusto. Su essa si affacciano tutte le istituzioni ufficiali. Ci sono il municipio, l’ufficio dei produttori di caffè, la compagnia dei telefoni. E c’è la chiesa dai colori pastello con a fianco la casa parrocchiale.
Sul lato della piazza tutto sembra in ordine. Ma, girato l’angolo, i danni prodotti dalle pipas de gas sono ben visibili. Il muro della casa parrocchiale è deformato, porte e finestre sono state distrutte, il tetto è crollato.
«No, non ce l’avevano con noi. Volevano colpire la caserma della polizia. Guardate com’è vicina -spiega padre Orlando facendo un cenno con la mano -. Saranno poche decine di metri… Di solito, i guerriglieri rispettano chi lavora con la gente comune. Magari non condividono una parte delle nostre idee, ma tollerano la presenza della chiesa e di noi sacerdoti».
Entriamo nella casa parrocchiale. Questa accoglie i visitatori con un bel patio verde, sulle cui pareti sono state disegnate scene evangeliche viste con gli occhi degli indigeni. Ma anche all’interno i danni del bombardamento sono ben visibili. Un’intera ala dell’edificio è inservibile perché pericolante. Anche la camera del nostro accompagnatore è andata distrutta. «Ma io non c’ero» scherza padre Orlando.
Poi ci conduce a vedere la sua nuova stanza, posta al pianoterra, sul lato della piazza. Qui è sicuro?, chiediamo. Insomma… Tempo fa una pallottola ha bucato la porta di legno e si è conficcata nel muro. «Ma non possiamo abbandonare questa gente al suo destino. Bisogna accompagnarla. È nostro dovere stare con loro». Ci sarà una nuova azione delle Farc contro il «castello» della polizia? «Questa è una certezza – risponde con tono pacato padre Orlando -. Non si conosce mai il giorno dell’attacco, tuttavia prima che esso avvenga nel paese iniziano a girare “voci”. E allora ci si prepara…».
(Terza puntata – Continua)

Paolo Moiola

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