RUSSIA – Fabbrica di sordomuti

Chiusa agli stranieri e inaccessibile ai russi, la città di Severodvinsk è la Cheobyl del Mar Bianco. L’autore
di questo articolo, che per ovvie ragioni si firma con uno pseudonimo, è riuscito a visitarla e ha scoperto cose mostruose.

Sono le 8 del mattino; il termometro segna 25° sotto lo zero all’aeroporto di Arcangelo, 1.300 km a nord di Mosca e 100 dal Circolo Polare Artico. L’impatto col gelo polare viene attenuato dal sorriso dolce di Sacha, la interprete, che mi aspetta all’uscita del velodromo, reggendo un cartello col mio nome scritto in rosso. L’accompagna Anatolij. Entrambi mi guideranno a Severodvinsk, meta del viaggio.
Chiusa agli stranieri, la città è quasi inaccessibile anche ai russi: fino a pochi anni fa avevano bisogno di un passaporto speciale per accedervi. L’isolamento geografico e politico la rendono misteriosa all’interno del paese e pressoché sconosciuta all’estero. Il permesso per accedere a questa «terra incognita» viene rilasciato occasionalmente agli stranieri dai servizi segreti (Fsb), dopo autentiche acrobazie diplomatiche e raccomandazioni di politici influenti.
CITTÀ GULAG
Costruita per ordine di Stalin nel 1936 a 35 km a ovest di Arcangelo, sulle rive del Mar Bianco, Severodvinsk è battuta dai venti polari 12 mesi all’anno, con temperature invernali di 30-40° sotto lo zero. «In realtà – rassicura Anatolij – a Severodvinsk fa freddo solo due mesi all’anno; gli altri 10 sono freddissimi!».
Negli anni ’30 furono scaricati nella zona circa 60 mila carcerati per costruire la città; nasceva così un campo di lavori forzati (gulag), dove vennero deportate le vittime del terrore staliniano, per essere fucilate o semplicemente lasciate morire di fatica o di freddo. Tra il 1936 e 1953 vi morirono 25 mila persone.
Oggi Severodvinsk conta 210 mila abitanti ed è una città strategica per il sistema di difesa russo: il gulag è sostituito dai cantieri navali Sevmash e Zvezdochka. Dal 1992 la Sevmash è l’unico cantiere della Russia in cui si costruiscono sottomarini nucleari (ufficialmente assembla macchine spazzaneve).
Dai cantieri di Severodvinsk sono usciti i sottomarini classe typhoon, nella denominazione americana, o akula (squalo), secondo quella russa: la più grande e devastante macchina da guerra creata dall’uomo, lungo 175 metri ed equipaggiato di 20 missili intercontinentali con testate nucleari multiple.
DAL NORD UN FANTASMA
Tre anni fa un uomo denutrito e assiderato dal freddo bussò alla porta di una Ong moscovita per chiedere aiuto. Raccontò la sua storia. Arrivava da Severodvinsk, dopo vari giorni di viaggio a piedi e autostop. Aveva lavorato nella fabbrica Sevmash fin dai tempi della guerra fredda, quando lo stipendio governativo per chi lavorava nell’industria bellica in zone disagiate era quattro volte superiore alla media nazionale. Da quando il governo non aveva più soldi per pagare gli operai, tutta Severodvinsk era senza lavoro e senza cibo.
Ma non era questo il motivo del viaggio di quel denutrito. Suo figlio, come molti bambini della città, accusava strane sindromi d’immunodeficienza che portano alla sordità. Il medico ne attribuiva la causa a iniezioni di antibiotici scaduti e non poteva farci nulla.
Sfidando la rete dei servizi segreti e della polizia che controllano la città, l’uomo aveva affrontato un viaggio così rischioso per far conoscere al mondo il problema che aveva colpito suo figlio e trovare i soldi per curare i bambini della città.
Quell’uomo era Anatolij. Ora è con me nell’auto con la quale andiamo a Severodvinsk, perché io capisca (ma non troppo) cosa vi sta succedendo.
NEL VENTRE DELLA BALENA
Alle mie domande Anatolij è evasivo. Continua a insistere che la versione ufficiale è giusta: nessuna relazione tra malattia del figlio e radioattività; questa è sotto controllo. Dice qualcosa che Sacha non traduce e finisce con Fsb (polizia segreta).
Pochi secondi dopo, l’auto si ferma davanti a una sbarra. Dalle folate di blizzard si materializzano due figure in divisa che appoggiano i colbacchi contro i finestrini appannati. Sacha si tormenta il labbro con gli incisivi. Dobbiamo scendere. Uno degli agenti mi porta in disparte nella neve ed esamina con lentezza esasperante il lasciapassare. «Viene da Mosca» spiego nel mio russo stentato. «Moskva daliekò» (Mosca è lontana) risponde l’agente, per sottolineare che oramai siamo nel ventre della balena della macchina militare.
Intirizziti dal freddo e dagli sguardi ancora più gelidi dei poliziotti, risaliamo sulla macchina e raggiungiamo la città. Dalla tundra s’innalza una ciminiera con un debole pennacchio. Anatolij spiega che è la centrale termica che riscalda l’intera città e fornisce acqua calda e gas per cucinare. «Anzi, riscaldava – continua la guida -. All’inizio dell’inverno Mosca ha stanziato, come al solito, i soldi per l’acquisto del gas; ma quest’anno il sindaco è sparito col malloppo, lasciandoci tutti al freddo. Tenuta a regime minimo, la centrale fornisce saltuariamente acqua calda, con gravi problemi per anziani, neonati e ospedali. Per cucinare la gente usa i ferri da stiro».
Mosca si è dimenticata di loro. Non esiste alcun piano di aiuto. Anzi, con la sua pesante burocrazia, il governo centrale ostacola l’invio di aiuti esteri. Recentemente un’organizzazione umanitaria tedesca aveva inviato una costosa e sofisticata apparecchiatura per sordomuti; arrivata alla frontiera, Anatolij si sentì comunicare che la tassa di sdoganamento era superiore al costo del macchinario. Non avendo i soldi necessari per il riscatto, l’apparecchiatura era rimasta nei magazzini della polizia di frontiera.
Anatolij racconta tutto con distacco, come se riguardasse qualcun altro. Il sorriso del suo viso scao, da prigioniero di gulag, diventa radioso quando entriamo in casa, accolti dalla moglie, figli e gatto Simion.
L’appartamento minuscolo è al quarto piano di un alveare prefabbricato, senza ascensore. Un paio di stufette elettriche non riesce a sciogliere il ghiaccio dai vetri. Per cena ci vengono serviti mirtilli, lamponi e funghi, raccolti nella bella stagione e conservati sotto vetro.
Quel poco che possiede questa fiera gente del nord lo divide con l’ospite, obbligandolo a mangiare a sazietà. Sacha commenta con tristezza che questa cena costringerà la famiglia di Anatolij a stringere la cinghia per qualche giorno.
SILENZIO! L’FSB TI ASCOLTA!
Nella luce rarefatta dell’inverno artico, le gru dei cantieri navali e l’interminabile profilo dei capannoni della Sevmash si stagliano sulla baia di Severodvinsk. Non possiamo sostare nei paraggi o fotografare: l’Fsb è sempre presente, anche se non si vede. In Russia i servizi segreti continuano a incutere paura, nonostante la fine della guerra fredda.
Anatolij non è da meno: teme per la sua famiglia e rifiuta di dare spiegazioni convincenti. Sacha, giovane e impulsiva, non tollera tale reticenza e sbotta: «I miei genitori sono entrambi morti di cancro a 40 anni; da sola ho dovuto crescere la mia sorellina. Ho 24 anni. Non vedo l’ora di andarmene da questo posto maledetto. Non è un luogo per vivere, ma solo per morire. Qui ho quattro probabilità in più di ammalarmi di cancro che a Mosca. La radioattività strettamente sotto controllo è una fandonia. Aria, acqua, funghi e mirtilli che hai mangiato a casa di Anatolij sono contaminati. Severodvinsk non è un cantiere, ma un’immensa pattumiera nucleare e noi ci viviamo come topi. Voglio mostrarti qualcosa, a mio rischio e pericolo. Fino a quando queste cose rimarranno nascoste, qui non cambierà mai niente».
La reticenza degli abitanti di Severodvinsk non è cosa da sottovalutare. Tra il ’94 e ’95 Alexandr Nikitin, ex capitano della flotta russa, poi impiegato di un’associazione ecologista norvegese, contribuì alla stesura di un rapporto sulla drammatica situazione della costa del nord. Quando le notizie furono divulgate, Nikitin fu imprigionato, processato e condannato a morte per alto tradimento, anche se l’esecuzione rimane sospesa.
Secondo l’articolo 10 della legge sull’informazione, infatti, «è proibita la pubblicazione di documenti relativi all’ambiente o situazioni straordinarie che possano compromettere la sicurezza delle aree industriali russe».
UNA CHERNOBYL
«AL RALLENTATORE»

Secondo il rapporto menzionato, Severodvinsk rischia di diventare una delle aree più contaminate della Russia, una Cheobyl «al rallentatore». Mentre nei cantieri Sevmash si costruiscono nuovi sottomarini, la Zvezdochka procede allo smantellamento di quelli vecchi e allo stoccaggio del combustibile nucleare esausto della marina militare. Tre grandi silos all’interno dei cantieri e uno fuori città contengono 12.530 metri cubi di materiale radioattivo solido per un totale di 4.620 tonnellate.
Dall’inizio degli anni ’80 è in funzione un inceneritore, capace di bruciare 40 chili di scorie all’ora. Ma fino al 1991 buona parte delle scorie erano scaricate negli antistanti mari di Kara e Barents (quei «mari puliti» dove i pescherecci della pubblicità prendono i merluzzi più appetitosi); altre erano gettate nella discarica municipale, in barba ai regolamenti sulla sicurezza. È vero, che quando esse venivano scoperte, erano riportate nei contenitori Zvezdochka, ma nessuno saprà mai quanta immondizia nucleare sia sepolta nei dintorni della città. Tale immondizia aumenta ogni anno di 520 metri cubi e i silos sono oramai al collasso della loro capacità ricettiva.
A 12 km dalla città, sulle alture di Mirovna, un bunker sotterraneo (il misterioso «oggetto 379») racchiude 1.840 metri cubi di scorie radioattive. L’acqua piovana che entra e esce attraverso le sue crepe, secondo una verifica fatta nel 1991, contiene da 100 a 10.000 Bq al litro di cesio e 100 Bq di cobalto (Bq = becquerel, unità di misura dell’attività nucleare; corrisponde a una disintegrazione al secondo: ndr).
Durante le riparazioni delle navi e ricarica dei reattori, i cantieri Zvezdochka rilasciano 10.000 metri cubi di gas radioattivo. Una quantità incalcolabile di radiazioni viene riversata sulla costa e l’area circostante da un silos per la raccolta di scorie a elevata attività, aperto in più punti, e dagli innumerevoli fusti sforacchiati sparsi nei capannoni, pronti per essere inabissati in fondo al mare.
Infine cinque contenitori galleggianti, tra cui la vecchia nave cisterna Ossezia, ormai in disarmo, contengono 563 metri cubi di liquidi venefici e disperdono una radioattività di 83,8 giga Bq.
Sacha non esagera.
LA CASA DEL BAMBINO
Sacha affretta il passo e punta come un siluro la porta di una casa bassa, con vetri rotti, addobbati con figurine di cartone. Sullo stipite una scritta sbiadita e contraddittoria: «Dietzky Dom» (casa del bambino).
«Noi la chiamiamo casa dei mostri. Non ho mai avuto il coraggio di entrarci prima d’ora. E capirai perché» spiega Sacha, mentre m’introduce in un ufficio, dove ci accoglie una simpatica signora corpulenta, che si presenta come la direttrice.
Fa freddo. Non c’è riscaldamento. «Questo è un ospedale speciale per bambini – comincia la direttrice -. Dipendiamo dal governo. Ed è già un problema. Sono nove mesi che non riceviamo lo stipendio; le medicine sono quasi finite; non abbiamo più cibo per i bimbi. Però c’è molta solidarietà. Il personale continua a lavorare, perché ama sinceramente questi poverini. Venga! Potrà vedere e fotografare quanto vuole».
Mi viene aperta una porta a vetri smerigliati alla fine di un lungo corridoio buio. La bianca luce artificiale mi abbaglia per un attimo, come l’alba di un nuovo giorno, finché scorgo nei lettini un centinaio di creature che si agitano informi, urlando suoni terribili. Non sembrano bambini. La maledizione nucleare ha tolto loro quegli attributi che li contraddistinguono come figli di una natura buona, che dona mani per giocare, occhi per vedere i colori, gambe per correre a scuola.
Sacha piange in silenzio, con le braccia strette alla vita, mentre la direttrice spiega che sono tutti figli di genitori sani, operai e impiegati dei cantieri Sevmash e Zvezdochka.
Una tragedia per gli abitanti di Severodvinsk. Alcuni bambini nascono deformi; molti diventano presto sordi o si ammalano di cancro; altri rimangono orfani, perché i genitori, nella disperazione di non riuscire a sfamare i propri figli, si suicidano.

Il permesso dell’Fsb è scaduto da diverse ore. All’aeroporto, Sacha e Anatolij mi salutano appoggiando la testa contro la mia. È l’usanza dei nenets, le etnie nomadi di origine mongola, che abitano nella parte orientale della regione e vivono da secoli in armonia con la natura, prima che arrivassero la guerra fredda e i sottomarini nucleari.

E. Knight

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