ECUMENISMO – Anche Dio scuote la testa?

L’unità tra cattolici, ortodossi e protestanti
(nonché «con» e «tra»
le altre religioni)
è un rompicapo, anche perché gli uomini
amano complicare
gli «affari di Dio».
Ma basta un ottavario
di preghiera
una volta all’anno?

L’ecumenismo o «movimento ecumenico» può rappresentare per le chiese e religioni ciò che, in un’automobile, è la quinta marcia.
«Ecumène» (in greco oikouméne, da oikéo = abitare e oìkos = casa) indicava la terra abitata, l’orbe terracqueo, l’impero romano: una casa sempre più grande, ma abitabile.
«Ecumène», in senso cristiano, venne ad indicare la «terra abitata dai cristiani»; ma divisioni, guerre di religione e intolleranze la resero e rendono in buona parte inabitabile. Le spaccature tra le chiese e religioni si possono paragonare a sacchetti di plastica non biodegradabili: infestano mari, laghi e fiumi. Le divisioni inquinano, come le pile al mercurio e l’ossido di carbonio.
Il movimento ecumenico è conscio di questi danni; però, oggigiorno, è molto più avanzato dei movimenti ecologici, che stentano a rendere abitabile il pianeta-terra.
È assodato che le chiese cristiane (compresa la cattolica) non possono ritenere le altre fedi una «moneta fuori corso», senza alcun valore salvifico.
D’altro canto, il cristianesimo ha il diritto di considerare le altre religioni una «moneta fuori corso» o (concedendo qualcosa) una «moneta più o meno inflazionata»?
BIDONI TOSSICI E ALTRO
Non è facile per l’ecumenismo reperire immagini eloquenti o simboli adeguati, per farsi capire. Tuttavia…
Esistono «centri di ricerca contro il cancro». Ebbene, anche le divisioni tra i cristiani sono un cancro. Sono bidoni tossici, sono discariche inquinanti. È indispensabile, per la salute dei popoli, trovare mezzi per eliminare tutti i prodotti velenosi. Tra l’aggressività ostile o lo scontro frontale e la fuga o la neutralità indifferente non esistono altre scelte o strategie? Questo è ciò che caratterizza l’ecumenismo moderno tra le chiese e religioni, così bello e promettente, anche se difficile.
La poetessa russa, Marina Cvetaeva, il 9 settembre 1923 scriveva da Praga ad un amico: «Ora vado alla messa russa (molto lunga). La prima mezz’ora sarò rapita in estasi; la seconda penserò alle mie cose e la terza semplicemente bramerò di tornare all’aria aperta… Ma sono convinta che Dio mi sente, e scuote la testa». Il Dio dell’ecumenismo è proprio questo: un Dio che scuote la testa. E dice ai cristiani: «Ma possibile?!».
Tutti gli esponenti delle chiese cristiane, come pure la maggioranza dei fedeli, hanno capito che era ed è assurdo trasportare i nostri «bidoni inquinanti» (ossia tante dispute) nelle missioni.
Gli studenti africani di teologia, di fronte alle nostre polemiche sui concili, su natura, sostanza… e poi su Lutero e Calvino, in genere rimangono seri. Ma, se si riuscisse a leggere nei loro cervelli, ci si accorgerebbe che esiste un turbinio di pensieri; forse concordano sul Dio della poetessa russa, per dirci: «Ma voi siete pazzi!».
La storia dell’ecumenismo cristiano, poiché le divisioni sono malattie gravi, è corredata di «bollettini medici» e anche di «libri neri», con un susseguirsi di avvenimenti, date e personaggi allucinanti.
Nel secolo XII san Beardo, riferendosi al mondo (e non solo alle divisioni tra i cristiani), scrisse: «Habet mundus iste suas noctes et non sunt paucas» (questo mondo – cristiano – ha le sue notti, e non sono poche).
Origene, nel III secolo, scrisse di un dotto ebreo (probabilmente dell’Accademia rabbinica di Cesarea), che aveva paragonato la sacra scrittura ad un palazzo con molte stanze; accanto alla porta di ogni stanza erano appese le singole chiavi, ma erano sbagliate… Compito di chi spiega la bibbia non è di sforzare le porte con chiavi false né, tanto meno, abbatterle con violenza, ma di trovare la chiave giusta per la porta giusta.
Però che pasticcio! Proprio come, secondo il Talmùd, le spiegazioni che il rabbi Aquibà offriva ai suoi discepoli sulla legge di Mosè, ma in modo così astruso che, un bel giorno, Mosè stesso ottenne da Dio il permesso di assistere alle lezioni del maestro. Il risultato fu che Mosè non riusciva più a capire la sua legge… e se ne andò scuotendo la testa.
ACQUA CALDA E FREDDA
Nell’ecumenismo è necessaria una bussola, per non smarrire l’orientamento. Forse occorrerebbe pure qualcosa di simile agli impianti idraulici delle nostre case, dove l’acqua fredda e calda escono dallo stesso rubinetto, ben dosate e temperate: perché l’acqua, se troppo fredda, causa brividi e, se troppo calda, ustioni.
L’ecumenismo possiede impianti del genere? Forse sì.
Prendendo la Sacra Scrittura (in particolare i vangeli) come bussola, è possibile leggere in modo nuovo la complicata storia del passato. E, valorizzando i documenti ecumenici sottoscritti dai rappresentanti ufficiali di varie chiese, frutto di dialoghi serrati, sarebbe possibile miscelare in modo giusto acqua fredda e calda.
Il 13 marzo 1984 apparve un testo («audace» secondo gli stessi firmatari), intitolato «L’unità davanti a noi». Qui sembra di sognare, investiti da un pathos straordinario, che è qualcosa di più della giusta miscela di acqua fredda e calda; rassomiglia all’acqua della piscina di Gerusalemme, dalla quale, dopo essersi immersi, «infermi, ciechi, storpi e paralitici» uscivano guariti (Gv 5, 1-4).
Bussola, pathos, saggia utopia per ridurre in sintesi armoniosa quanto l’ecumenismo sta facendo in tanti modi e in tutto il mondo. Infatti esiste l’ecumenismo del vangelo e quello del pane (giustizia, liberazione…), che non sono la stessa cosa, ma si integrano; l’ecumenismo ecclesiologico, centrato sulle chiese; l’ecumenismo teologico; l’ecumenismo di vertice e di base. Ancora: l’ecumenismo dei giovani, delle religioni, delle culture. L’ecumenismo missionario.
PIÙ GESTI CHE PAROLE
L’ecumenismo deve essere più «televisivo», cioè più visibile, concreto e meno arzigogolato.
Racconta Elio Toaff, rabbino di Roma: un sabato di primavera papa Giovanni XXIII, mentre passava per il Lungotevere con un seguito di macchine, vide alcuni ebrei mentre uscivano dalla sinagoga; fece fermare il corteo che lo accompagnava e benedì gli ebrei; costoro, dopo un istante di comprensibile smarrimento, lo circondarono applaudendo entusiasti. «Era la prima volta nella storia che un papa benediceva gli ebrei, ed era forse quello il primo vero gesto di riconciliazione» (1). Questo era lo stile di Giovanni XXIII.
Avvenne pure, il 26 marzo 1959, che il vescovo anglicano, Marwin Stockwood, fece visita a papa Giovanni. Si vide poi il vescovo uscire dall’udienza tutto raggiante, stringendo un grosso uovo di pasqua, che il papa gli aveva donato. Ai giornalisti il vescovo disse: «Con un papa così non sarà difficile riportare i cristiani all’unità».
Ritornando agli ebrei, il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II visitò la sinagoga di Roma. Rivolgendosi ai convenuti, disse tra l’altro: «Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori». A queste parole scoppiò un applauso (2).
Perché i gesti valgono di più delle parole.
VERITÀ PIÙ ALTE
Tra i vari ecumenismi (sopra ricordati) emerge quello «spirituale», fatto di interiorità, cuore nuovo, riconciliazione, che si concretizza soprattutto nell’«ottavario di preghiera per l’unità delle chiese». Si tratta dell’anima del movimento ecumenico.
Ma è sufficiente? Già da tempo sono state formulate riserve su questo modo di esprimersi e di ridurre l’ecumenismo: perché è tutto il movimento ecumenico, nei suoi vari momenti e forme, che dovrebbe essere «spirituale». Ridurre tutto quasi esclusivamente ad «una settimana di preghiere», una volta l’anno, è troppo poco.
In una parola: l’ecumenismo spirituale, per essere efficace, deve trasformarsi in «spiritualità ecumenica», nel senso che tutta la spiritualità cristiana dev’essere ecumenica. È la spiritualità liturgica, eucaristica, mariana e, soprattutto, quella missionaria che devono essere ecumeniche. Ciò avviene?
Occorre, certo, pregare, ma anche valorizzare i documenti ecumenici esistenti, molto numerosi, servirsene non solo come materiale di lettura e cultura, ma anche strumenti di meditazione negli esercizi spirituali e ritiri, come manuale di metodologia missionaria e pastorale, come momento di pathos.
Quasi tutti noi siamo stati formati nello spirito cartesiano, che ci impedisce di capire (come, invece, l’aveva capito Paolo VI) che ci sono verità più alte, nelle quali ci si può trovare d’accordo. Questo perché Dio non continui a scuotere la testa.

(1) Elio Toaff, Perfidi Giudei – Fratelli maggiori, Brescia 1987, pp. 219-220
(2) Cfr. Ivi, p. 240

BACIAMI I PIEDI

Il fiume dei litigi tra le due «chiese sorelle» (quali sono quella cattolica-latina e quella ortodossa-orientale) si è talmente ingrossato nel corso dei secoli da uscire dagli argini, seppellendo il bene più prezioso lasciato da Cristo alla chiesa: la carità. R. Kipling (1865-1936) diceva: «Tu non riuscirai mai a conciliare l’orgoglio dei latini con l’ostinazione degli orientali».
Questo stato di cordiale antipatia scoppiò definitivamente, come un bubbone, nel 1054. Poi nel 1453 Costantinopoli cadde sotto i turchi. Ma prima, per impedire il disastro dell’invasione islamica, gli orientali capirono che dovevano fare pace con i latini. Venne indetto nel 1438 un concilio, che si riunì prima a Ferrara e poi a Firenze. Gli orientali vi parteciparono numerosi (oltre 700 persone), con a capo l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, Giuseppe II. Si giunse ad un accordo, che però minacciò di saltare subito, per una faccenda di prestigio, oggi a noi incomprensibile. All’atto del commiato a Venezia, il papa pretese che il patriarca lo salutasse baciandogli i piedi. Questa era la prassi. Cosa che il patriarca rifiutò. Un abbraccio tra fratelli e niente di più! Era l’anno 1439.
Passarono cinque secoli. Nel 1965 Paolo VI e il patriarca Athenagoras nei loro incontri si scambiarono l’abbraccio di pace, come vecchi fratelli che s’incontrano dopo tanti anni… Finché si giunse al 14 dicembre 1975. A Roma, nella cappella sistina, avvenne l’incontro tra il metropolita di Calcedonia, Melitone, delegato del patriarca di Costantinopoli, e Paolo VI. Al termine Paolo VI andò incontro al metropolita per l’ultimo saluto e, inaspettatamente, si inginocchiò e gli baciò i piedi. Il gesto fu accolto da un vibrante applauso. Il papa volle riparare l’incomprensione di Venezia.
Paolo VI aveva fatto suo il programma di Lacordaire: «Non si tratta di convincere l’altro di errore, ma di unirmi a lui in una verità più alta». E questi livelli «più alti» generalmente ci sono sempre, non solo sopra i «piedi», ma anche sopra le teste.

Igino Tublado

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