Badanti: Sempre più essenziali

Tre storie di lavoratrici domestiche

Violeta, dalla Moldavia, nella cucina della casa in cui lavora. Foto Simona Carnino
Italia
Simona Carnino

Sono quasi un milione le collaboratrici e i collaboratori domestici con contratto regolare, e altrettanti in nero. Dietro a questi numeri troviamo volti, storie, famiglie divise. Il settore è in continua espansione, nonostante la frenata dovuta alla pandemia.

Sono le 8 del mattino di uno dei primi giorni dell’anno e Mercedes Areola, 63 anni, di origine filippina, cammina veloce per andare al lavoro in una zona residenziale di Torino. Alla stessa ora, ma dall’altra parte della città, Corina Bautista, 50 anni, di origine peruviana, è già entrata in servizio e sta aiutando il suo datore di lavoro di 93 anni ad alzarsi, lavarsi e iniziare la giornata. A 30 km di distanza, la stessa cosa sta facendo Violeta Dobrea, 39 anni, di origine moldava, che ogni mattina e ogni sera di tutti i giorni dell’anno presta la sua opera in una casa di provincia, dove prepara colazione, pranzo e cena, mette i bigodini alla sua titolare, sostiene il marito mentre si infila la camicia e, più in generale, aiuta la coppia a vivere una quotidianità che a un certo punto della vita diventa straordinariamente complicata.

Mercedes, Corina e Violeta non si conoscono, probabilmente non si conosceranno mai, ma in comune hanno tanto. Sono donne, sono di origine straniera e sono essenziali.  Da anni in Italia, garantiscono il buon funzionamento delle case e delle famiglie per cui lavorano.

Mercedes (Mercy), 63 anni, da quasi quaranta in Italia. Lavorando ha fatto studiare i tre figli nelle Filippine. Oggi ha cinque nipoti. Foto Simona Carnino

Lavoro domestico

Mercedes, colf da oltre 33 anni, Corina e Violeta, assistenti familiari, sono tre delle 920.722 lavoratrici e lavoratori domestici con regolare contratto di lavoro, secondo gli ultimi dati Inps aggiornati al 2020. A loro si aggiunge un sommerso di oltre un milione di collaboratori e collaboratrici in nero, che equivale al 57% dei circa 2 milioni di lavoratori domestici presenti in Italia, secondo quanto riportato dall’Osservatorio nazionale Domina sul lavoro domestico. Parlare del comparto domestico significa parlare prevalentemente al femminile, perché, sempre secondo l’Inps, l’87,6% dei lavoratori regolari che si occupano della cura della casa e delle persone anziane è donna. Il 68,8% è rappresentato da forza lavoro immigrata, nonostante un aumento di circa il 12,8% di lavoratori italiani, secondo il Dossier statistico immigrazione 2021 (di seguito utilizzeremo sempre il femminile, perché l’inchiesta si è occupata in specifico di donne, ndr).

La maggior parte delle lavoratrici domestiche impiegate in Italia proviene da Romania, Ucraina, Filippine e Moldavia. Il 73,4% delle badanti regolarmente contrattate è dell’Est Europa, così come il 47% delle colf. Ma nel settore delle collaboratrici domestiche è alta anche la componente di donne di origine filippina e dell’America Latina.

Dietro ai numeri ci sono i volti di donne forti, spesso straniere, con alle spalle la necessità di aiutare la famiglia e nell’anima quell’energia di chi vuole essere indipendente.

Nata e cresciuta a Ballesteros Cagayán nelle Filippine, Mercedes Areola si è ritrovata sposata a 16 anni e con 3 figli a 23 anni. Nel 1983 è partita lasciando i figli alla madre, per seguire il marito a Messina, dove vivevano i suoceri. Abbandonata dal coniuge nel giro di pochi mesi dall’arrivo, ha trovato impiego come assistente familiare convivente di una donna anziana. «Mi sentivo malissimo. Ero in un paese di cui non parlavo la lingua, sola e affaticata – racconta Mercedes -. Dopo circa un anno il lavoro si è concluso, allora ho preso un treno e sono arrivata a Firenze, dove la comunità filippina mi ha aiutata a trovare un lavoro come colf. Mandavo tutto quello che guadagnavo a mia madre, nelle Filippine, che si stava occupando dei miei tre figli. Ogni volta che spedivo i soldi mi mettevo a piangere. Sapevo che stavo facendo il meglio per i bambini, ma ero triste perché mi mancavano».

Famiglie spaccate

Spesso le lavoratrici domestiche extracomunitarie migrano da sole verso l’Italia e successivamente, in caso riescano a ottenere un permesso di soggiorno, procedono con la richiesta di ricongiungimento familiare che permette ai figli di raggiungerle.

Così è successo a Violeta Dobrea arrivata in Italia nel 2009 da Teșcureni in Moldavia, dopo un viaggio da sola, di quelli che si riescono a raccontare solo quando sono finiti. In Moldavia Violeta lavorava come muratrice in estate e come venditrice al mercato in inverno. Divorziata nel 2006 e con due figli ancora piccoli da crescere, ha pensato di seguire le orme di tante sue connazionali e cercare un lavoro più redditizio in Italia, dove vivevano alcuni conoscenti. Duemila euro e due tentativi dopo è arrivata a Exilles, un piccolo paese dell’alta Val Susa, in provincia di Torino.

«Avevo il passaporto moldavo ma non riuscivo a ottenere un visto per nessun paese europeo, allora ho pagato una persona per portarmi in Italia. Sono partita insieme ad altre donne, ma durante il primo tentativo siamo state respinte sul confine con l’Ungheria – ricorda Violeta -. Abbiamo pagato altri 400 euro per un secondo tentativo. Dopo tre giorni di viaggio in macchina sono arrivata a Exilles. Ho avuto paura per tutto il tragitto. Non avevo controllo sul viaggio e temevo che la polizia di frontiera di uno dei paesi attraversati ci rimandasse in Moldavia».

Sorte migliore è toccata a Corina Bautista, originaria di Trujillo, una città costiera del Nord del Perù. Partita nel 1996, è riuscita a raggiungere Torino con un visto turistico e in sicurezza su un volo transoceanico. «Volevo fare l’infermiera, ma eravamo cinque figli e in casa mia non c’era la possibilità economica per farmi studiare – ricorda Corina -. Arrivata in Italia ho provato a lavorare come assistente familiare e studiare allo stesso tempo, ma non ci sono riuscita. All’inizio vivevo in casa con la persona anziana per cui lavoravo e mandavo le rimesse a mio padre, per restituire il prestito per il viaggio. Nel 1998, grazie a una sanatoria e a un contratto di lavoro regolare, sono riuscita a ottenere il permesso di soggiorno, e nel 2014 sono diventata cittadina italiana. Intanto ho conosciuto un mio concittadino qui, ci siamo sposati e abbiamo avuto due figli».

Corina, peruviana, mostra una vecchia foto della sua famiglia.
Foto Simona Carnino

Tra contratti regolari e lavoro nero

Un contratto regolare e una sanatoria sono stati fondamentali anche per Mercedes e Violeta, che, proprio grazie alla formalizzazione del lavoro, hanno potuto ottenere un permesso di soggiorno.

Senza un contratto regolare, è facile essere vittima di episodi di sfruttamento, più frequenti tra le persone straniere senza carte in regola.

«Quando vivevo a Firenze sono stata fermata dalla polizia e portata in questura, perché non avevo il permesso di soggiorno – ricorda Mercedes -. Mi sono disperata e ho pregato di non essere espulsa. Alla fine, mi hanno lasciata andare, ma senza documenti mi sentivo sempre in ansia. Poi nel 1988 sono arrivata a Torino come colf “fissa” di una coppia benestante che faceva eventi in casa. Lavoravo dalle 7 del mattino a tarda notte per cucinare e pulire. Io mangiavo gli avanzi. Dopo sei mesi, ero distrutta e sono andata dai sindacati, che mi hanno messa in contatto con una architetta in cerca di una collaboratrice domestica. È stata una salvezza. Ho lavorato con lei per più di 30 anni e grazie al suo contratto e a una sanatoria, sono riuscita ad avere il permesso di soggiorno».

Nel 2020, i contratti di lavoro domestico regolare sono aumentati del 7,5% e la tendenza è in crescita. Tuttavia, sono ancora tanti a lavorare in nero, nonostante l’ultima sanatoria del 2020 determinata dal decreto rilancio che offriva ai datori di lavoro del settore agricolo e domestico la possibilità di regolarizzare la posizione contrattuale di lavoratori italiani, comunitari o extracomunitari. In quest’ultimo caso, la sanatoria permette ai lavoratori provenienti da fuori Europa di ottenere un permesso di soggiorno per motivi lavorativi.

«Il punto è che molti datori di lavoro non hanno partecipato alla sanatoria per timore di ricevere una multa o essere esposti a indagine sul lavoro nero – spiega Lorenzo Gasparrini, segretario nazionale dell’Osservatorio Domina, Associazione nazionale famiglie datori di lavoro domestico -. Invece questa era l’occasione giusta per sanare i rapporti di lavoro non regolato e per consentire alle lavoratrici domestiche extracomunitarie di ottenere un permesso di soggiorno».

Il comparto domestico è storicamente un settore che vive di «lavoro nero» e malpagato, a causa di una mentalità che considera l’attività di colf e badanti poco più di un lavoretto, ma anche per il costo del lavoro che, sebbene non alto, secondo l’Inps si aggira intorno a 16mila euro all’anno per una badante senza specializzazione. Una spesa ingente per un anziano con una pensione di base. «Per rendere sostenibile l’assunzione e garantire una maggiore regolamentazione del lavoro, è necessario che lo stato italiano promuova una politica di defiscalizzazione che permetta al datore di lavoro di dedurre il 100% dei contributi e almeno tra il 15 e il 30% della retribuzione di colf e badanti», conclude Lorenzo Gasparrini.

Settore in crescita

Secondo le proiezioni demografiche, la popolazione italiana over 75 anni passerà dall’11% del totale nel 2016 al 23% entro il 2050. L’aumento degli anziani porterà a una probabile crescita della domanda di lavoratori domestici e, in particolare, di assistenti familiari.

La novità è che anche questo comparto sta invecchiando e molte persone sono in procinto di andare in pensione. Secondo il Dossier statistico immigrazione 2021, negli ultimi dieci anni è drasticamente calata la presenza di colf, badanti e babysitter under 30 e la fotografia attuale riflette l’immagine di un comparto domestico in buona parte over 50, che non si rinnova.

Questo accade per l’assenza di interesse in questa professione da parte dei giovani, e per le frontiere sempre più inespugnabili che impediscono alle persone straniere di raggiungere in maniera regolare l’Italia.

«Con il graduale invecchiamento della forza lavoro – dichiara il presidente di Assindatcolf, Andrea Zini -, il mancato ricambio generazionale e la chiusura dei canali di ingresso regolari per i cittadini extracomunitari a cui ormai assistiamo da anni e che la pandemia ha particolarmente rafforzato, rischiamo in futuro di non avere personale a sufficienza che assista i nostri anziani e i bambini e che si prenda cura delle nostre case».

Ritratto di Mercedes, che si dice grata all’Italia. Grazie alla fede e al lavoro duro, oggi è soddisfatta della sua vita. Foto Simona Carnino

Investimento generazionale

«La prima volta che ho rivisto i miei bambini era il 1989 e il più piccolo non mi ha riconosciuta. Da allora sono tornata nelle Filippine ogni tre anni. Ho mandato i soldi a casa fino a quando i miei tre figli non si sono laureati – racconta Mercedes -. Oggi la più grande fa la dentista e ha uno studio privato, gli altri due sono ingegneri e io sono nonna di 5 nipoti».

I fatti dimostrano che i sacrifici sono valsi a permettere alla generazione successiva di raggiungere un livello educativo e lavorativo superiore a quello dei genitori.

Così pensa anche Violeta che, dopo qualche anno di lavoro in Italia e il permesso di soggiorno in regola, ha attivato la procedura di ricongiungimento dei suoi due figli, dal 2014 in Italia con lei. «Non ho visto mia madre per anni – racconta Michaela, la figlia ventiduenne di Violeta -. Era duro vivere così, ma so che lo ha fatto per noi. Le scuole pubbliche in Moldavia non sono di qualità e le private troppo care. Appena arrivata in Italia ho sofferto di bullismo a scuola, poi le cose sono cambiate e mi sono diplomata all’istituto alberghiero e ora lavoro qui».

Anche per Corina l’Italia rappresenta un luogo familiare ormai, anche se non abbandona l’idea di tornare in Perù dopo la pensione. «Mi mancano parecchi anni di lavoro, ma intanto io e mio marito siamo riusciti a costruirci una casa a Trujillo dove vivono i miei genitori».

Il settore del lavoro domestico incide in maniera decisiva tanto sul Pil del paese di accoglienza che su quello del paese di origine. Secondo l’Osservatorio Domina, il valore aggiunto prodotto dal lavoro domestico nel 2020 è di circa 16 miliardi di euro, equivalente all’1,1% del Pil italiano.

Allo stesso tempo, la maggior parte di colf e assistenti familiari coopera in maniera concreta al miglioramento economico dei propri paesi di provenienza, con l’invio di rimesse ai familiari, spesso utilizzate per aprire piccole attività imprenditoriali o per investire nell’istruzione specializzata dei figli che, con un livello scolastico superiore, hanno l’opportunità di svolgere professioni più redditizie.

L’impatto del Covid

Vaccinate e con un contratto di lavoro regolare che ne permetteva gli spostamenti, Mercedes, Violeta e Corina hanno lavorato anche durante la pandemia.

Tuttavia, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale del lavoro delle Nazioni Unite, durante la fase più delicata della crisi, la perdita di lavoro tra i lavoratori domestici si è attestata tra il 5 e il 20% nella maggior parte dei paesi europei. La paura del contagio ha portato alcune famiglie a chiudere le collaborazioni con un effetto negativo soprattutto sui lavoratori senza contratto e regolare permesso di soggiorno che, a causa dell’invisibilità del loro status, non hanno potuto richiedere l’indennità Covid che sarebbe spettata anche a loro.

Solitudine e paura hanno avuto un forte impatto su badanti conviventi che, in particolare nella prima fase di lockdown, hanno dovuto prendersi carico al 100% degli anziani. «Le badanti hanno svolto un ruolo fondamentale durante la pandemia perché sono state in grado di accudire e rassicurare gli anziani che, senza di loro, sarebbero stati completamente soli – spiega Lorenzo Gasparrini -. In questa occasione, le famiglie hanno preso coscienza del valore sociale ed essenziale delle assistenti familiari».

Oltre al Covid, sono tante le difficoltà a cui sono esposte le donne che svolgono questa professione. Non sono rari gli episodi di violenza sulle donne che, come in tutto il mondo, si verificano principalmente tra le mura domestiche. Ma è la sofferenza dovuta all’isolamento fisico e comunicativo quella che, prima o dopo, sperimentano quasi tutte le lavoratrici domestiche straniere, in particolar modo le badanti.

«Tra i problemi con la lingua, la solitudine e la quantità di ore lavorate, all’inizio ero depressa – racconta Violeta -. Poi il signore per cui lavoravo mi ha insegnato l’italiano, studiavamo insieme. Ancora conservo il diario su cui scrivevo un po’ in italiano e un po’ in moldavo».

Tante lavoratrici domestiche straniere, come la maggior parte delle persone immigrate, mantengono rapporti stretti con i paesi di origine, a cui rivolgono un pensiero costante.

Ci pensa Corina, che manda le rimesse ai suoi genitori in Perù perché abbiano tutto quello che serve per affrontare la delicata fase della terza età, che lei conosce così bene. Mentre guarda la foto di se stessa a pochi mesi di vita in braccio a sua madre, si chiede se un giorno ritornerà dove le sue radici sono ancora così salde.

Ci pensa Violeta che in Moldavia ha ancora il padre che, in tempi non pandemici, vedeva con frequenza. «Quando avrà bisogno di cure, assumerò una persona che si occupi di lui e lo aiuti con le attività quotidiane, così come faccio io qui».

Ci pensa anche Mercedes che nelle Filippine non ha più la madre, ma tanti nipoti che cerca di vedere due volte all’anno, da quando si può permettere di tornare più spesso. Sono ormai 40 anni che vive in Italia, di cui è diventata cittadina. Sorride, mentre si tocca il ciondolo della collana su cui c’è scritto «Mercy», diminutivo del suo nome, che significa «misericordia», in inglese.

«lo sono grata all’Italia e alla vita. Ho sempre creduto, mi sono data da fare e sono soddisfatta. God is full of mercy (Dio è pieno di misericordia, ndr), come diciamo noi. E in questo film che è la vita mia, probabilmente sono stata abbracciata dalla misericordia anche io».

Simona Carnino

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