Guerre di ieri e di oggi

Dalla Somalia ai Balcani del 1993, alla pandemia del 2020

missione delle Nazioni Unite in Somalia che ha avuto luogo tra l'agosto 1993 e il gennaio 1995 https://www.flickr.com/photos/militaryarchives/7176564405/

Parliamo di guerra. Lo facciamo attraverso le parole di tre autori molto eterogenei tra loro. Tre modi diversi di ricordare, raccontare e vivere la tragedia della guerra che, forse, hanno in comune un obiettivo: esorcizzarla.

La guerra dei Bepi

Andrea Pennacchi è padovano, classe 1969. Attore e scrittore di teatro. Il grande pubblico lo conosce grazie al suo intervento settimanale a Propaganda Live, programma di attualità, politica e società su La7 (l’ex Gazebo di Rai3).

A settembre è uscito, con la casa editrice milanese People, La guerra dei Bepi. Quindici euro molto ben spesi.

Si tratta di un testo teatrale adattato, ma non troppo, alla narrativa, nel quale Pennacchi viaggia attraverso tre guerre: la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e poi quella Somala.

Dall’aprile del 1945 l’esercito italiano non è più coinvolto in uno scontro bellico fino al 2 luglio del 1993. L’incantesimo si rompe a Mogadiscio, al checkpoint Pasta, dove i soldati italiani sono impegnati nell’operazione Unosom.

Andrea Pennacchi fa parte di quel contingente militare. Volontario. E non per caso.

Suo nonno, da tutti chiamato Bepi, ha combattuto nelle trincee del Carso.

Suo padre, nome di battaglia Bepi, ha combattuto tra le fila partigiane. Arrestato, deportato, sopravvissuto in qualche modo ai lager.

Andrea, nipote e figlio dei due Bepi, va alla ricerca delle sue radici nel modo più complesso, pericoloso e contraddittorio: in guerra.

«Quando ho deciso di fare il servizio militare – racconta -, ero desideroso anche io di far parte di quell’epos che aveva attraversato la storia della mia famiglia, volevo in un certo senso essere anche io un Bepi».

Il testo è godibile, forte, veneto, divertente, tragico, serio, comico, tagliente, proprio come il Pennacchi che abbiamo conosciuto in Tv.


Admira e Bosko

Andrea Roccioletti, torinese, classe 1979, è un libraio, ma anche (forse soprattutto) un art performer di gran talento. Tra i suoi studi, la Scuola di applicazione dell’Esercito, come civile. Ramo peacekeeping.

Nel 2019 ha scritto per l’editore torinese Autori Riuniti, un romanzo breve dal titolo Admira e Bosko. Sarajevo 1993.

Ancora il 1993, ma due mesi prima i fatti di Mogadiscio di cui parla La guerra dei Bepi.

La storia di Admira Ismic e Bosko Brkic è conosciuta: lei, una ragazza musulmana, lui, il suo fidanzato serbo ortodosso, in una Sarajevo assediata. Il 19 maggio del 1993 furono uccisi, mentre cercavano di fuggire assieme attraversando il ponte Vrbanja, dai cecchini serbi
(vedi MC 10/2017, I Perdenti 28).

A rendere originale il lavoro di Roccioletti non è solo la scelta dello strumento, il romanzo, ma il fatto di averlo scritto con una giovane scrittrice di origine tunisina, Miriam Tahri.

L’amore tra un ortodosso e un’islamica, scardina le logiche imposte dall’assedio. Amore e guerra lottano tra loro, e l’amore, in guerra, soccombe.

La domanda che ci facevamo nel ‘93 era: «Com’è possibile stia accadendo a pochi chilometri da qui?». Il libro di Roccioletti e Tahri, ha sempre sotto traccia questa risposta: «Non solo è stato possibile, ma potrebbe esserlo ancora. Magari non più a Sarajevo, ma più vicino. Magari a casa nostra».

Nell’incipit c’è tutta la capacità dell’autore di prendere per mano il lettore: «Adesso. Io sono l’assassino. Sono certo che leggerai le prossime righe con alcune aspettative. Forse ti aspetti che io ti racconti il mio punto di vista […], che ti racconti come si diventa un assassino […], così che tu possa trarre qualche lezione dalla mia esistenza; ma essa è al tuo servizio tanto poco quanto lo è stata al mio, perché sul male inflitto e quello subito, pennelliamo una doratura di significato che niente dura alla prova del tempo».

Andrea Roccioletti non lo trovate sui social, ma ha un sito: www.roccioletti.com.

Parole buone per superare la crisi

Arriviamo così a Sergio Astori, bergamasco, docente all’Università Cattolica, medico chirurgo specializzato in psichiatria. Anche il suo libro parla di guerra, della guerra mondiale in corso, iniziata nella lontana metropoli di Wuhan, in Cina, a fine 2019, e arrivata in Europa, segnando in modo decisivo le nostre vite. La prima guerra pandemica da molti decenni a questa parte.

La chiave di lettura di Astori capovolge lo schema della visione corrente sulla crisi in corso.

Già il titolo del libro segna la differenza: Parole buone. Pillole di resilienza per superare la crisi.

Proprio perché la pandemia, durante il lockdown di primavera, ci ha precipitati in un linguaggio bellico, il prof. Astori e un piccolo ma tosto gruppo di collaboratori, ha iniziato a cercare, raccontare, diffondere #ParoleBuone, testi che affrontano la «solidarietà», la «prossimità», la «semplicità», l’«ascolto», il «rischio», per accendere una luce di speranza in un tempo di vero e proprio smarrimento collettivo, di fronte alle bare, alle ambulanze, agli infermieri stravolti, ai medici che muoiono curando.

Nella prefazione, Luca Rolandi, giornalista e ricercatore storico, scrive: «Non esiste la normalità, il benessere economico che nasconde abissi di dolore psicologico e morale, esiste la tenerezza dell’amore e della solidarietà […] perché le Parole Buone aiutano […] l’uomo a vivere di ciò che sta sopra di lui».

Le Parole Buone raccolte nel libro, sono state in primavera un’oasi per centinaia di persone barricate in casa. La multimedialità messa a punto dal gruppo di lavoro (social, radio, carta stampata, linguaggio dei segni) ne ha permesso la capillarità.

Quelle parole, nate qualche mese fa, sono ancora drammaticamente attuali. La guerra non è ancora finita. Il libro di Sergio Astori ci aiuterà a superarla.

Sante Altizio

 

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