Giamaica: «Non abbiamo altra scelta»

A spasso per Kingston: tra bande di giovani e marijuana

testo e foto di Luca Salvatore Pistone


È un piccolo paese caraibico, con un posto particolare nell’immaginario collettivo. Ma cosa succede nella sua capitale e come vive la gente? L’autore esplora i suoi quartieri più complicati e ascolta le storie di chi ci vive. Dandoci qualche elemento di comprensione, oltre gli stereotipi.

«Baby, bum bum?». Questa è l’unica frase che Roger pronuncia in presenza di ragazze. Da queste parti la galanteria non è certo di moda, ma in oltre il 50% dei suoi approcci, Roger ottiene il risultato sperato. Mentre salva sul cellulare il numero della fanciulla di turno, mi fa segno di guardarle il fondoschiena ed esclama a voce alta: «Oh my God!».

Roger, 36 anni, è muscoloso e porta dread curatissimi (tipiche trecce rasta, ndr). Ha un numero imprecisato di figli sparsi tra la Giamaica e gli Stati Uniti. Ci siamo conosciuti una decina di giorni fa in un bar e da allora non ci siamo quasi più separati. Sono ammaliato dai suoi racconti. In alcuni casi occorre fare una cernita di quanto sia vero e quanto gonfiato, ma tutto sommato sento di potermi fidare di lui. La casa che ho preso in affitto si trova a pochi metri da quella di Roger, così ogni mattina sono io a dargli la sveglia. Ci divide Mountain View, un interminabile vialone che unisce Old Hope Road e Windward Road, due delle principali arterie dell’area sudorientale di Kingston. Mountain View, che dà il nome all’intero quartiere, è uno dei ghetti più malfamati del paese.

Dentro il ghetto

Quando il dongiovanni giamaicano finisce le sue pratiche con la prosperosa signorina, raggiungiamo alcuni ragazzi del ghetto. Ci hanno dato appuntamento in una villetta in costruzione poco distante dalla bettola dove vive Roger. Sono una decina in tutto. Saliamo al secondo piano dal quale si domina tutta Mountain View. «Sei mafioso, vero?», mi chiede uno. «Ya man! (intercalare giamaicano che significa: sì amico!). Tutti gli italiani sono mafiosi», gli fa eco un altro.

Per più di un’ora si parla solo di mafia. Sono affascinati dall’argomento. E, soprattutto, sono convinti che il sottoscritto, in quanto italiano, sia un mafioso. Recitano a memoria interi spezzoni dei tre capitoli de «Il Padrino» e di «Quei bravi ragazzi». Uno fa una breve ricerca su Google e mi mostra sul display dello smartphone le facce di Riina e Provenzano. «Sei in Giamaica per fare affari? Noi siamo disponibili ad aiutarti». Più cerco di convincerli della mia estraneità alla malavita siciliana, più quelli immaginano di avere davanti a loro un pezzo da novanta del crimine organizzato.

A soccorrermi è Roger. «Dai ragazzi, diamo all’italiano un assaggio di cosa i soldati di Mountain View 99 sono in grado di fare!». Il più giovane estrae, da dietro un’impalcatura, una sacca nera. È lo stesso Roger ad aprirla e a distribuire agli amici il contenuto: un paio di pistole Beretta, tre kalashnikov e vecchi fucili d’assalto.

Metto mano alla macchina fotografica. Indossano chi un passamontagna, chi il cappuccio della felpa e chi una maglietta messa a mo’ di turbante. Si atteggiano in classiche pose da gangster e poi si siedono in cerchio su dei mattoni all’ombra di un muretto. A turno tutti prendono la parola.

  • «Noi della 99 dobbiamo difendere la nostra gente dai nostri nemici: la polizia e le altre gang».
  • «Siamo sicari. Il General (il capo mafioso) ci dice chi dobbiamo accoppare e noi lo facciamo».
  • «Per 200 o 300 dollari americani facciamo un lavoro rapido e pulito».
  • «Quando c’è da combattere con le bande rivali chiudiamo con delle transenne gli accessi a Mountain View e avvisiamo i civili di starsene tranquilli in casa».
  • «Cocaina e prostituzione sono in mano nostra. Alle elezioni possiamo pure muovere voti».
  • «Siamo costantemente in guerra. Non ci piace questa vita ma non abbiamo altra scelta».

Un mondo di gang

La 99, la 121, la 136… Quasi ogni traversa di Mountain View ha la propria gang. È un continuo gioco di alleanze, tradimenti e regolamenti di conti. A fronte di una popolazione che sfiora i tre milioni di persone, la Giamaica presenta uno dei tassi di omicidio più alti al mondo. Condizioni di forte povertà spingono larghe fette di popolazione a entrare nelle fila dei gruppi criminali. Non molti anni fa, il parlamento votò addirittura per il mantenimento della pena di morte (tramite impiccagione) – non applicata da decenni – come deterrente per arginare le violenze. E intanto, indisturbata, la Jamaican Posse, la mafia locale, detta legge nei ghetti.

Ci congediamo dagli amici sicari tra un «bless» (in Giamaica quando per salutarsi ci si benedice a vicenda) e un «respect», con la promessa, quando farò ritorno in Italia, di mettere una buona parola per loro con Cosa Nostra. Roger mi prega di seguirlo in una baracca a un paio di isolati. Resto sull’uscio. Lo sento salutare gli abitanti della casa in patwah, la lingua creola-inglese che si parla in Giamaica. E, come sempre, parte un fiume di «Ya man!».

Dopo pochi minuti, esce con uno zainetto in spalla stracolmo di marijuana. In Giamaica l’uso della cannabis è legale dal 2015 ed è possibile detenerne fino a un’oncia, cioè 28,35 grammi. Il prezzo al grammo varia in base alla qualità. Si va dai 20 centesimi di euro ai 20 euro. Per coltivarla è necessaria una licenza statale dal costo annuo pari a quasi 900 euro, cifra che in pochissimi si possono permettere. Così, gran parte delle coltivazioni sono illegali. Roger cerca di arrotondare vendendo marijuana ai turisti e non mi resta altro da fare che accompagnarlo nella sua caccia ai clienti. «I migliori sono i tedeschi», sentenzia. Torniamo a casa dopo diverse ore.

Festa di… funerale

Di sottofondo, come a ogni ora del giorno e della notte, si sentono degli spari. Mentre mi chiedo dalla mano di chi provengano, suona il campanello. È Roger. «Rapido! Ti porto a un nine night qui vicino». Senza neanche sapere di cosa stia parlando, salto sull’attenti. Finora le sue proposte non sono mai state deludenti.

In pochi minuti arriviamo nel cortile di una coloratissima villetta. C’è un baccano infernale e a fatica riusciamo a comunicare. Urla, schiamazzi, ubriachi, grigliate con bistecche di maiale e cosce di pollo, tavolini pieghevoli su cui si gioca a domino. È stato allestito anche un sound system, un impianto formato da più casse, che emette a tutto volume. Partono le danze. Siamo a un nine night, una veglia funebre. In Giamaica, come in molti altri paesi dei Caraibi, il morto viene celebrato con una festa sfrenata che parte la sera e termina alle prime luci dell’alba. Può durare anche più giorni, fino a nove, a seconda della disponibilità economica della famiglia del defunto.

«Si chiamava Paul – dice Roger – e non aveva neanche trent’anni. Io non lo conoscevo bene ma era di Mountain View. Era un soldato come me e i miei amici. L’hanno trovato morto stecchito con una pallottola alla tempia in riva al mare. L’hanno giustiziato, capito? Chissà in che giro era finito. So che il suo General ha sguinzagliato i suoi per capire cosa sia accaduto». Roger indica cautamente il General di Paul, un energumeno sulla cinquantina. Circondato da sei uomini con armi a vista, sta abbracciando la madre del morto. «Non fissarlo, qui basta uno sguardo di troppo per finire nei guai».

La nottata prosegue tra fiumi di birra calda, rum di pessima qualità, spinelli e cocaina.

Tra qualche ora si terrà il funerale di Paul. Il General fa cenno al dj di fermare la musica per pronunciare un brevissimo discorso: «Noi tutti abbiamo perso un fratello. Era poco più di un ragazzo, una persona per bene che amava la sua famiglia. Mountain View non lo dimenticherà. Paul avrà la sua vendetta». Il nine night finisce con una promessa di sangue e spari di accompagnamento.

Gli squatter di Harbour View

Il pomeriggio successivo vengo svegliato da un ragazzino. È stato Roger a mandarlo con un messaggio: «Fatti trovare pronto. Tra poco andiamo dai miei amici di Harbour View». Giungiamo a destinazione solo al tramonto. Fino a non molti anni fa Harbour View era un bel quartiere residenziale all’estremità sudorientale di Kingston. Ville a schiera sul mare abitate dalla borghesia della capitale. Poi, nel 2012, l’uragano Sandy ne rase al suolo un gran numero e danneggiò gravemente le poche rimaste in piedi. Poco dopo il passaggio di Sandy, gli abitanti delle colline circostanti, le cui baracche erano andate distrutte, scesero verso il mare e occuparono le rovine dei ricchi. Da allora non ci fu modo di mandarli via.

«Ya man! Guardate un po’ chi c’è?». Roger viene accolto quasi fosse una celebrità. Intorno a noi si crea un capannello di curiosi. Impennando, ci viene incontro una motocicletta di bassa cilindrata. I lunghi dread del provetto pilota svolazzano indisturbati. Inchioda. «Bless! Respect! Quello che vedo è mio fratello Roger?».

È Ziggy (in lingua patwah significa spinello, come Bob Marley soprannominò il suo primogenito David), uno dei capi del ghetto di Harbour View. È sulla trentina, supera non di molto il metro e mezzo, è magro come un chiodo e ha tatuaggi ovunque, anche in viso. Comincia a esibirsi in una serie di impennate su entrambe le ruote e derapate di tutto rispetto considerando il catorcio cinese che guida.

Parcheggiata la moto, Ziggy ci fa da cicerone per il quartiere. Per prima cosa vuole farci conoscere la sua compagna e la figlioletta di tre anni. Ci fa visitare la sua casa, una grande e malconcia villa a un piano. I muri sono pieni di crepe. Le stanze sono tutte spoglie e senza infissi. In una di esse ci sono una sedia, una brandina con un materasso lurido e una valigetta aperta con dentro una macchinetta da tatuatore, aghi, colori e altri attrezzi del mestiere. «Questo – illustra Ziggy – è il mio studio. Nel ghetto chi si vuole tatuare viene da me. È così che mantengo la mia famiglia. E con altri piccoli business… Vuoi della cocaina?».

Harbour View viene chiamato scherzosamente «Gaza» dai suoi abitanti. L’uragano qui e Israele nel territorio palestinese, producono il medesimo risultato: macerie. Di sera, per godere della brezza marina, Ziggy e gli altri ragazzi vanno in spiaggia e prendono posto sulle rovine di una palazzina a due piani. Tra uno spinello e un altro, si godono il panorama delle luci di Kingston. È lì che ci portano.

«Polizia, funzionari del comune, altre bande: tutti hanno provato a cacciarci via da qui», racconta un tizio con in faccia una bella collezione di cicatrici. Accarezza la canna di una pistola a tamburo. «E noi con questa li abbiamo sempre respinti. Harbour View è casa nostra. Ci abbiamo portato le nostre famiglie, abbiamo fatto dei lavori. Vogliono che ce ne andiamo? Ci devono pagare profumatamente!». Raccoglie l’approvazione dei suoi compagni.

Sono tutti armati di pistole che nascondono sotto la maglietta. Gli adolescenti li vedono come esempi da seguire e pendono dalle loro labbra. «Vedi quello in pantaloncini? – indica con la canna Ziggy -. È mio cugino. Ha tredici anni ma ha le palle per essere uno dei nostri. E vedete quel muro crivellato di colpi? È contro quel muro che lo faccio esercitare a sparare».

A Ziggy e compagnia è venuta sete. Propongono di spostarci al bar del ghetto, una casupola di legno con un piccolo cortile antistante dove delle ragazzine stanno giocando a dadi su delle casse capovolte. Ordinano tutti delle bottigliette di Magnum, la bevanda che va per la maggiore. Sull’etichetta c’è scritto Tonic Wine, un modo elegante per dire Red Bull con alcol al 16.5%. «Due di queste e fai bum bum tutta la notte», grida Roger guadagnandosi una serie di pacche sulla spalla.

Ziggy prende sottobraccio due delle ragazzine impegnate nella partita a dadi. Avranno meno di sedici anni. I tre si voltano verso di noi per qualche istante e tornano a confabulare. Poco dopo il gracile boss di Harbour View ci viene incontro. «Sono le mie cuginette. Belle, vero?». Annuiamo. Sono davvero belle. «Loro sono un altro dei miei business. Vuoi farti un giro con loro? Potresti andare a casa mia. Sono pulite, non hanno l’Aids. Che faccio, organizzo? Sono venti dollari americani, è un regalo».

Per il quarto d’ora successivo prova a convincermi in tutti i modi. Guarda le sue protette scuotendo la testa. Le due non sembrano troppo dispiaciute. Fa un ultimo tentativo disperato. «Troppo giovani? Volendo c’è mia sorella, ha quasi ventotto anni».

Luca Salvatore Pistone

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