Roma e i migranti / 1

Il ciclo di reportage
su periferie delle grandi città, disagio e migranti, ci porta questa volta a
Roma, ancora scossa per le rivelazioni dell’inchiesta «Mafia Capitale» e per i
tumulti di Tor Sapienza.

L’autobus 105 è fermo al capolinea di Piazzale
dei Cinquecento, di fronte alla stazione di Roma Termini. Attraverso le sue
quattro porte aperte, persone avvolte in sciarpe e giacconi guadagnano un
sedile o più probabilmente un posto in piedi e aspettano che lo scatolone di
plastica e metallo lungo diciotto metri cominci la sua corsa nell’aria fredda
delle sere del febbraio romano. Qualcuno scenderà dalle parti del Pigneto, per
raggiungere gli amici in qualche bar dell’isola pedonale e partecipare al rito
importato dell’aperitivo. Molti altri, invece, proseguiranno verso Tor
Pignattara, Centocelle e oltre, fino a quella Tor Bella Monaca che nel
quotidiano capitolino è da anni sinonimo di luogo della marginalità e del
degrado. L’umanità del 105 è un fedele spaccato della pancia di una città che
cerca, o semplicemente non può evitare, di scoprirsi multietnica: signore
dell’Est europeo con buste di plastica gonfie posate sulle ginocchia e i tratti
stanchi di chi ha fatto pulizie in qualche appartamento del centro, bengalesi
con in mano i bastoni per selfie che non sono riusciti a vendere ai turisti,
ragazzi cinesi con un libro fra le mani e gli auricolari alle orecchie, giovani
africani carichi di grossi sacchi che lasciano intravedere borse con le griffe
dell’alta moda. Quelle stesse borse che poche ore prima erano disposte in bella
mostra sui sampietrini a due passi dal Colonnato o dalla scalinata di Trinità
dei Monti, poi agguantate per i manici e portate via di corsa, lontano dalla
vista della polizia arrivata di soppiatto a scompigliare l’improvvisato
mercato.

Un bengalese parla al telefono, a voce alta. «Ma che
urla quello? Certo che ’sti immigrati fanno proprio come je pare…» commenta
spazientita una donna. «Che vuole, signo’, non siamo manco più padroni a casa
nostra, ormai», le risponde un’altra, un sedile più avanti. Questa non è l’aria
che tira a Roma, è solo una delle sue correnti. Ma è la corrente che fischia più
forte, che fa svolazzare i giornali, che scoperchia i tetti e rompe i vetri
nelle periferie.

Tor Sapienza, con le immagini degli scontri e delle
proteste anti-immigrati dello scorso novembre, è sempre lì, nello stesso
spicchio di città che il 105 attraversa, in quella Roma Est che secondo la
rivista online Vice era fino a pochi anni fa «poco meno che un mistero»
per i giornali e per gli altri abitanti dell’Urbe. Ma Tor Sapienza è, nella
recente memoria collettiva romana, dove rimarrà impressa per molto tempo, anche
quella frase pronunciata in una intercettazione dal presidente della Cooperativa
29 Giugno
, Salvatore Buzzi, oggi detenuto nel carcere nuorese di massima
sicurezza di Badu ’e Carros dopo che l’operazione Mondo di Mezzo
condotta dai Ros, ha portato alla luce nel dicembre scorso il suo ruolo chiave
nella vasta rete criminale di stampo mafioso facente capo all’ex Nar Massimo
Carminati: «Tu c’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di
droga rende di meno».

Spetterà a nuove indagini e ai successivi processi
chiarire le responsabilità della vicenda di Mafia Capitale, comprese le
ipotesi di manipolazione della protesta di novembre proprio da parte della
cupola romana di Carminati e Buzzi. Ma che la mala gestione del fenomeno
migratorio e, più in generale, del disagio, accenda le micce in quella che i
media hanno chiamato la «polveriera delle periferie» è evidente, da tempo.

A Corcolle – zona del VI Municipio a venti chilometri da
Termini, estremo brandello orientale della città – basta un nubifragio perché
le strade e le case siano sommerse dall’acqua. Il manto stradale è in
condizioni pessime, l’Adsl non arriva, e solo lo scorso ottobre l’Asl ha
approvato l’apertura di un servizio di pediatria, finora assente nonostante la
presenza di un migliaio di bambini. Anche Corcolle, prima di Tor Sapienza, ha
vissuto giorni di tensione fra residenti e migranti. Ma, se la presenza degli
stranieri è stata la goccia, pronto a traboccare c’era tutto un vaso.

Gli inizi
dell’accoglienza

Eppure, la città non si è certo accorta ieri del
fenomeno migratorio: «Il centro di ascolto stranieri di via delle Zoccolette»,
racconta Lorenzo Chialastri, responsabile del Centro Ascolto Stranieri
di Via delle Zoccolette dal 2003 e dell’Area Immigrazione della Caritas
di Roma dal 2013, «ha aperto nel 1981, probabilmente fra i primi in Italia.
All’epoca, i migranti in città erano eritrei, filippini e capoverdiani che
andavano via via sostituendo gli italiani come lavoratori domestici.
Probabilmente nella percezione nazionale lo spartiacque è stato il 1991, anno
dell’arrivo in Puglia dei barconi con i ventisettemila migranti albanesi.
L’anno successivo, il comune di Roma ha aperto l’Ufficio Speciale per
l’Immigrazione
».

Dal 1981, il centro di ascolto della Caritas ha
registrato oltre 250 mila schede personali, ogni anno conta seimila nuovi
utenti che effettuano più di venticinquemila richieste di servizi allo
sportello. Offre ascolto dei bisogni, orientamento nella ricerca di alloggio e
di lavoro, corsi di italiano e assistenza legale, con particolare attenzione
agli utenti più vulnerabili come i rifugiati e le vittime di tratta.

Nove assistiti su dieci sono immigrati regolari; quanto
alla presenza di immigrati irregolari in città, come per i dati nazionali, è
difficile azzardare una stima. Lo scorso anno a fronte di 170 mila arrivi in
Italia sono state avanzate solo sessantamila richieste d’asilo. Che fine hanno
fatto gli altri? Quanti sono rimasti in Italia? Molti rifiutano di farsi
prendere le impronte digitali perché vogliono potersi spostare in altri paesi
europei senza rischiare di essere «dublinati», cioè rimandati in Italia sulla
base del Regolamento di Dublino, il quale stabilisce che i migranti
richiedenti asilo devono risiedere nel paese competente a esaminare la loro
domanda, cioè quello di prima accoglienza, dove è avvenuta l’identificazione. è chiaro che al rifiuto dei migranti di
farsi registrare si accompagna un equivalente lasciar correre delle autorità
italiane, atteggiamento che gli altri paesi europei hanno bacchettato,
accusando l’Italia di utilizzare questo metodo per «liberarsi» dei migranti.

«Abbiamo visto questa dinamica all’opera ad esempio con
l’arrivo di quindici migranti trasferiti da Augusta, in Sicilia, a
Civitavecchia, e da lì al nostro centro d’accoglienza a Roma», spiega
Chialastri. «Sono arrivati con in mano un numero scritto su un foglietto, non
erano state prese loro le impronte digitali. Due sono spariti nel nulla nel
giro di pochi giorni».

 

La salute,
tema su cui ci si incontra

In
via Marsala, la strada che costeggia la stazione Termini, la Caritas di Roma
gestisce un poliambulatorio (attivo già dal 1983) del quale Salvatore Geraci,
laureato in Medicina e Chirurgia alla Sapienza, è responsabile dal 1991. Geraci
non si stanca di insistere sull’importanza dei quattro pilastri su cui si regge
l’operato dell’ambulatorio: «I servizi sanitari sono ovviamente fondamentali»,
precisa il medico, «ma dobbiamo dedicarci con lo stesso impegno alla conoscenza
dei fenomeni, alla formazione degli operatori sanitari e al nesso fra salute e
diritti dei migranti. Altrimenti si fa solo assistenzialismo».

Il poliambulatorio ha assistito in un trentennio più di
centomila pazienti, specialmente migranti irregolari e persone senza fissa
dimora; annualmente eroga fra le dodici e le ventimila prestazioni sanitarie a
una media di seimila pazienti, e ha registrato nel 2014 un aumento di assistiti
pari a 1.200 unità. Fra gli utenti sono in aumento gli italiani, che si
rivolgono al poliambulatorio soprattutto per ottenere gratuitamente i farmaci
di fascia C, quelli per cui non è possibile ottenere esenzioni. Le malattie più
frequenti sono quelle che il responsabile indica come tipiche della povertà e
cioè quelle dell’apparato respiratorio, del sistema osternomuscolare,
dell’apparato digerente e della pelle. «Ma non dimentichiamo le ferite
invisibili», precisa Salvatore Geraci, «quelle generate dai traumi psicologici
subiti dalle persone vittime del conflitto, della tratta, della violenza
intenzionale e delle torture» al centro di un progetto nel quale un’équipe di
operatori specializzati offre un servizio di ascolto e di psicoterapia
transculturale.

Il poliambulatorio, oltre che sul personale dedicato, si
regge sul lavoro di 380 volontari. Qualcuno è un ex paziente. «Mi viene in
mente il caso di una coppia di cinesi che avevamo curato qui al poliambulatorio»,
ricorda con un sorriso il dottor Geraci. «L’idea di prestare lavoro senza
ricevere un compenso – cioè il volontariato – 
è inconcepibile per i cinesi, non è nelle loro cornordinate culturali. La
gratitudine nei confronti di chi li ha aiutati però lo è. Per questo, quando i
coniugi sono riusciti tramite il ricongiungimento familiare a far venire a Roma
il figlio, lo hanno praticamente obbligato a venire a dare una mano».

 
I rifugiati

A pochi passi dal poliambulatorio c’è la sede di Prime
Italia
, un’associazione di volontariato che si occupa di promuovere
l’integrazione dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione
internazionale (www.prime-italia.org). Fra le sue attività ci sono i corsi di
scuola guida gratuiti e a prezzo agevolato per rifugiati finanziati grazie ai
fondi dell’otto per mille della Tavola valdese e dell’Automobile Club
Roma
.

Da Termini, in venti minuti di metropolitana, si
raggiunge Ponte Mammolo dove dal 2003, all’interno di un più vasto insediamento
spontaneo abitato da famiglie rom, ne esiste uno più piccolo dove vivono
rifugiati in prevalenza eritrei, un’ottantina in tutto, suddivisi in una
cinquantina di piccole abitazioni di un vano. Alcune sono in muratura, altre in
lamiera, cartone, plastica. Due generatori alimentano le aree comuni adibite a
cucina e spazio ricreativo, ma le «case» mancano dei mezzi per scaldarsi e
conservare il cibo.

«A partire dal 2013» spiega Guglielmo Micucci,
presidente di Prime, «dopo aver gradualmente cercato di creare un rapporto
di fiducia con i rifugiati, abbiamo avviato una serie di attività nel campo»:
fra queste, la distribuzione di sacchi a pelo e una collaborazione con Leroy
Merlin Italia
che ha permesso la riqualificazione dei servizi sanitari.
Fabiola Zanetti, responsabile delle attività Prime a Ponte Mammolo,
racconta soddisfatta un lieto risvolto inatteso del progetto con Leroy
Merlin
: «Augusto, uno dei ragazzi del campo, ha dato una mano nella
ristrutturazione dei bagni. Notando il suo impegno, Leroy Merlin gli ha
offerto un tirocinio: ha iniziato a metà gennaio 2015».

Quello di Ponte Mammolo è il più piccolo dei principali
insediamenti e occupazioni informali nei quali vivono richiedenti e titolari di
protezione internazionale. Gli altri sono il Selam Palace (ex Enasarco)
di Anagnina – Romanina, che ospita circa 700 persone prevalentemente di
nazionalità etiope, eritrea, somala e sudanese, e l’edificio di via Collatina
385, sette piani per un numero di etiopi ed eritrei che varia da 400 a 600. Al centro
Ararat
in zona Testaccio vivono poi un’ottantina di curdi e, se
l’insediamento di Stazione Ostiense è stato sgomberato nel 2012, l’anno
successivo è stato occupato uno stabile di cinque piani in piazza Indipendenza,
a due passi da Termini, dove abitano circa 500 rifugiati in maggioranza
eritrei. Sono circa duemila persone in gran parte uomini, ma non mancano le
donne e i bambini.

Chiara Giovetti

(1 –
continua)

tags: migranti, accoglienza, Centro Astalli, rom, integrazionediritti umani

Chiara Giovetti

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