4. Una scelta controcorrente: la mansuetudine come strada di trasformazione
Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Beie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità.
In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.
Pare una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.
Chi urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbombare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa» …). «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottomettere il nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni.
È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo.
Non dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante.
Giuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione». Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore questo si verifica.
Chi suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti, atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine – scriveva il filosofo torinese – è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.
Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto erede della terra.
Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», esattamente come, da laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio.
Attraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia.
Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicuramente questa affermazione nasce dall’esperienza personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine – sono le sue parole – (…) Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).
Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani.
Ugo Pozzoli