L’oro del Karamoja

Sfruttamento intensivo del Nordest Uganda
Tra le ferite ancora aperte delle violenze armate degli anni passati, il rischio dello sfratto dalle proprie terre, la siccità che sembra
aumentare di anno in anno facendo crescere l’insicurezza alimentare.
Sui pendii del monte Moroto, nell’angolo più remoto del Nord
Est dell’Uganda, alcuni membri della tribù Karamojong, inclusi i bambini,
ricercano l’oro nell’arida terra rossa.

Un tempo allevatori di bestiame, i Karamojong
sperano di migliorare la loro situazione economica vendendo piccole quantità
d’oro che grattano dalla terra arida del Karamoja, regione a Nord Est
dell’Uganda, al confine con il Kenya e il Sud Sudan, considerata la più
emarginata del paese e una delle più povere del mondo. Terra di pastori
seminomadi, il Karamoja è stato teatro di un lungo ciclo di conflitti tra i
diversi clan di guerrieri per l’accaparramento del bestiame, la sopravvivenza,
e in lotta contro l’interferenza del governo.

Dal 2001, per un decennio, migliaia di soldati ugandesi
hanno condotto una brutale campagna di disarmo in tutta la regione. Con il
disarmo e la relativa riduzione dell’uso della pastorizia come fonte di
sostentamento principale, i Karamojong sono oggi costretti a reinventarsi in un
nuovo stile di vita, e a cercare nuove opportunità di sostentamento. A causa
degli effetti sempre più visibili del riscaldamento climatico, tra cui
l’aumento dei periodi di siccità, la vita in questa pianura semiarida diventa
sempre più difficile e l’agricoltura non può rappresentare l’unica risorsa
sostenibile. La popolazione locale si ritrova quindi con poche alternative per
sopravvivere. «L’oro è diventato ora ciò che prima le mucche rappresentavano per
noi», dice un anziano. Nonostante l’economia in Uganda abbia un enorme
potenziale di crescita per l’inaspettata scoperta del petrolio, il Karamoja
rimane una regione dimenticata ed esclusa.

Scavando a
mani nude sulle colline di Rupa

Per Lomilo, che lavora nella miniera di Rupa, la ricerca
d’oro è un business di famiglia. Ogni mattina dall’alba si reca con
moglie e figli sulle colline minerarie di Rupa per il lavoro nelle gallerie.
Lomilo passa le sue giornate scavando a mani nude profondi cunicoli nel terreno,
nei quali si cala per cercare terra sempre nuova. Regolarmente riemerge e passa
alla moglie Naduk bacinelle di terra preziosa. Naduk setaccia il raccolto
insieme alla figlia più grande, mentre allatta il piccolo e si prende cura
degli altri quattro figli. La loro giornata trascorre monotona con viaggi di 8
km a piedi per arrivare al pozzo e raccogliere l’acqua necessaria per
l’operazione di setaccio. Lavorando con strumenti primitivi e in condizioni
molto difficili, la ricerca dell’oro è un lavoro pericoloso e sfinente. Nessun
pasto è previsto durante la giornata, ci si potrà rifocillare la sera
rientrando nel villaggio, se la ricerca d’oro avrà dato qualche buon risultato.
Seduta sul bordo dello scavo, la figlia di Naduk è responsabile del lavaggio: un
lungo processo per cercare di trasformare i mucchi di terra raccolti dal padre
in qualche frammento d’oro. «Amo il mio lavoro», dice mentre lava la terra, «voglio
avere qualcosa per sopravvivere con la mia famiglia». Tutti i figli di Lomilo
sono coinvolti nella ricerca dell’oro. Il sistema scolastico in Uganda è a
pagamento, un lusso che solo il 10% della popolazione in Karamoja può
permettersi (contro il 70% a livello nazionale). È difficile andare a scuola e
studiare a stomaco vuoto, per cui molti bambini preferiscono lavorare alla
miniera e ottenere qualche spicciolo a fine giornata.

Al di sotto
dei 18 anni

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo),
i lavoratori nelle miniere d’oro in Africa sono per un 30-40% bambini al di
sotto dei 18 anni. A causa della fame e della povertà i genitori li
incoraggiano a lavorare nelle miniere per poter comprare cibo e vestiti. Spesso
i bambini sono i più abili a muoversi negli stretti cunicoli sotto terra.
Inoltre, in tutto il continente africano si registrano alti indici di abbandono
scolastico negli istituti d’istruzione che si trovano nei pressi di giacimenti
minerari.

In Kaabong, distretto del Karamoja che registra elevati
tassi di malnutrizione e dove buona parte della popolazione si sta sempre più dedicando
al lavoro nelle miniere, l’assenteismo a scuola è un problema crescente. Il
lavoro nella miniera di Rupa è rischioso. Molte vite sono perse ogni anno a
causa del crollo di qualche tunnel. Lomilo indica uno scavo dove qualche
settimana prima ha perso un amico.

0,3 Euro al
grammo

«È un lavoro rischioso, ma non ho altra scelta per il
momento», spiega Lomilo. Il suo grande sogno, come per tutti i ricercatori
d’oro, è quello di trovare un giorno un grande pezzo d’oro, così da potersi
finalmente sistemare con la sua famiglia, mandare i figli a scuola e dedicarsi
nuovamente all’allevamento del bestiame, anch’essa attività oggi molto
rischiosa per le continue razzie da parte dei clan vicini.

A fine giornata Lomilo si reca al mercato per vendere la
polvere d’oro. Con 9 grammi guadagna 9.000 Scellini ugandesi, equivalenti a 2,7
Euro circa per una giornata di lavoro di un’intera famiglia. Anche la famiglia
di Lomilo rientra nella tanto discutibile categoria di «povertà estrema»,
definita in base al guadagno inferiore a un dollaro procapite al giorno, «the
dollar a day poverty line
». Al mercato dell’oro sono presenti numerosi
commercianti, arrivati dal Kenya o dalla capitale Kampala. Comprano
illegalmente l’oro da questi gruppi informali per rivenderlo alle grandi
compagnie minerarie, spesso multinazionali con sede all’estero. Lo scavo di
Lomilo è uno dei migliaia che ricoprono la collina di Rupa. Secondo fonti
locali sono circa 10.000 le persone che riescono a sopravvivere grazie a questa
miniera a cielo aperto. In totale, il triplo di questo numero dipende dalle
miniere d’oro in Karamoja, e la cifra non tiene conto dei lavoratori delle
miniere di marmo, gemme e pietre calcaree. La regione del Karamoja con i suoi
enormi depositi d’oro, potrebbe diventare la nuova frontiera di sfruttamento
minerario dopo il petrolio nell’Ovest dell’Uganda. Le comunità e i leader
locali temono che nuovi conflitti possano derivare dalla lotta per
l’accaparramento di queste risorse. Recentemente si stanno diffondendo notizie
di trafficanti d’oro che lavorano per conto di qualche industriale o politico
di primo piano, per lo sviluppo di un’industria mineraria nella regione.
Sfruttando la lontananza dalla capitale e il generale disinteresse politico e
mediatico per la regione, alcuni uomini d’affari potrebbero assicurarsi le zone
minerarie del Karamoja, utilizzando a proprio vantaggio i conflitti tra i vari
clan.

Comunità
locali a rischio di sfratto

L’ufficio della Ricerca Geologica e Mineraria si occupa di
concedere le licenze agli operatori interessati. Tuttavia, nonostante il
governo locale neghi la presenza di attività illegali, diverse organizzazioni
locali sostengono che l’industria aurifera manchi di trasparenza e che molti
operatori agiscano nella regione senza una vera e propria licenza o con una
concessione scaduta da anni. Secondo il Mining Act del 2003, un’azienda può
ottenere una licenza per tre anni. Il proprietario del terreno, la provincia e
il distretto, dovrebbero ricevere le royalties. Tuttavia sembra che i dividendi
dell’oro rimangano per molto tempo in una zona grigia. Nel frattempo, le
comunità locali vivono nell’incertezza e nella paura che qualcuno possa
cacciarli dalle loro terre, rinnovando il conflitto nella regione. Alla fine si
torna a un punto dolente per tutto il continente africano, e non solo per esso:
la ricchezza di pochi (i proprietari delle miniere e chi «li controlla», quasi
sempre corporazioni multinazionali senza scrupoli) accumulata con lo
sfruttamento di molti.

In un’Uganda
in piena crescita e con sempre nuovi problemi

E pensare che l’Uganda negli ultimi anni ne ha fatta di
strada da quando la ventennale guerra civile tra governo e ribelli dell’Lra (Lord
resistance army
, guidati dal famigerato Joseph Kony, cfr. MC giugno 2012),
terminata con gli accordi del 2008, non ha più depredato gli abitanti della
loro terra e della possibilità di vivere in serenità. Le famiglie sono tornate
nelle loro case, i bambini soldato (se ne stimano almeno 300mila nel mondo, che
porteranno per decenni i traumi dei combattimenti e dei soprusi) si sono man
mano reinseriti nell’ambiente originario, l’economia ha ricominciato a girare,
lentamente, in tutto il paese, che oggi registra 36 milioni di abitanti e un
tasso di crescita annuale del 3,3%. Mentre si spera che la situazione intea
rimanga tranquilla – nonostante la «sporca» corsa ai minerali -, si presenta un
nuovo problema per il Nord del paese, e in parte anche per il Karamoja: sono le
decine di migliaia di sfollati che scappano dal Sud Sudan, il più giovane stato
del mondo, staccatosi nel 2011 con un referendum dal Sudan ma da alcuni mesi in
preda, a sua volta, a un conflitto armato scatenato dall’ex vicepresidente
ribelle nei confronti dell’attuale premier. Conflitto nel quale, per ora, le
forze inteazionali stanno a guardare, ma che sta generando fughe di massa in
altri paesi, benché questi non abbiano strutture e strumenti adatti per
accoglierli, come l’Uganda.

Insicurezza
alimentare

Nel frattempo in Karamoja, oltre a quella delle miniere,
tiene banco da qualche mese la questione della sicurezza alimentare, messa a
dura prova non solo dagli eventi bellici del recente passato ma anche dalla
siccità che ogni anno sembra aumentare (nel 2013 si è calcolata una diminuzione
fino al 50% dei raccolti in tutta la regione). Il governo centrale ha lanciato
un piano speciale piuttosto originale per migliorare la situazione agricola del
Karamoja: a tutti i cittadini viene chiesto di creare un proprio orto
coltivando due generi alimentari, patate e tapioca. Nient’altro, perché questi,
spiegano le autorità, sono i cibi che resistono di più alla scarsità d’acqua.
La notizia non è stata accolta con calore dalla popolazione. Anzi, molti
mettono in dubbio l’efficacia di un’azione del genere, lamentandosi del fatto
che bisognava invece puntare sul bestiame, più redditizio. In attesa di sapere
quale sarà l’efficacia del piano governativo, Irin, l’agenzia informativa
legata all’Onu, ha comunicato che il Pam, Programma alimentare mondiale, ha
pianificato di consegnare cibo ad almeno 155mila persone da febbraio 2014, di
rafforzare azioni che da qualche anno stanno migliorando altri aspetti della
società locale, come il programma food for work (cibo in cambio di
lavoro) che comprende 390mila beneficiari, di mettere in atto una forte
iniziativa scolastica per 100mila bambini a rischio dispersione e un programma
di salute e nutrizione per 38mila giovani madri e i propri piccoli, di
raccogliere più scorte di cibo per almeno 25mila bambini denutriti.

Anche in questo caso, però, ci sono dei problemi: il Pam
ha reso noto che non sa se nel 2014 avrà i fondi per sostenere tutti i
programmi, una sorta di pre allerta a non fare troppo affidamento su di essi.
Una notizia negativa, che potrebbe essere controbilanciata solo da una
rivoluzione culturale: dalle miniere del Karamoja ai campi dei sette distretti
regionali, la voce del popolo spesso è univoca nel sostenere che non basta
indicare cosa coltivare e cosa no. È tutto l’approccio che deve cambiare.
Ovvero, bisogna mettere in grado le persone di gestire non solo la coltivazione
diretta ma anche la lavorazione del cibo dalla materia prima, l’acqua potabile,
le strutture sanitarie e la protezione sociale. Così facendo, la regione, e non
solo essa, farebbe quel salto di qualità che oggi manca e che proietterebbe la
gente del luogo verso un futuro migliore, più legato all’autonomia,
all’imprenditorialità e meno all’assistenzialismo.

Anna Giolitto e
Daniele Biella


Anna Giolitto e Daniele Biella

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