DAL CARCERE AL POTERE
Ajmi Lourimi, filosofo e
attivista dei diritti umani, è stato in carcere durante la dittatura di Ben
Ali. Membro di en-Nahda, Lourimi spiega e difende l’azione del nuovo governo.
Cos’è cambiato in Tunisia
dopo la rivolta che ha rovesciato il regime di Ben Ali?
«Prima della rivoluzione,
la vita politica del paese era nulla, quella sociale era disastrosa; e i membri
dei movimenti islamici erano in carcere. Il nuovo governo sta ricostruendo
dalle ceneri: si tratta di un processo lungo. La disoccupazione è altissima:
800mila persone, cioè il 18% della popolazione lavorativa. Ben Ali ha lasciato
un paese distrutto, con un divario tra poveri e ricchi molto forte. Le zone
intee della Tunisia erano state dimenticate dal regime, ed è da lì che è
iniziata la rivoluzione.
La rivoluzione tunisina
non era né ideologica né politica e non era guidata da un
partito particolare. È iniziata improvvisamente e vi hanno partecipato tutti,
diversi strati sociali e culturali. C’erano anche i sindacati e le
associazioni, uniti sotto la bandiera della nazione. Lo scopo comune era di
mandare via il dittatore. Non è stata una rivoluzione della “fame”, anche se
c’era gente affamata. Era una rivoluzione della dignità, iniziata con la
protesta di un disoccupato: per i tunisini essere senza lavoro equivale a
essere senza dignità. Quando la popolazione ha capito che la situazione
tunisina era causata dagli errori, dalla corruzione del governo, ha deciso che
per cambiare era necessario mandare via Ben Ali, così è iniziata la rivoluzione
che in 23 giorni è riuscita a rimuoverlo.
Il prezzo in termini di
morti in Tunisia è stato molto ridotto, rispetto ad altre rivoluzioni. La
nostra è stata un esempio e una spinta per l’Egitto, la Libia, lo Yemen… Dai
primi giorni dopo la fuga del presidente, ci siamo trovati in una situazione
nuova. È stato deciso di chiudere con il passato e costruire una nuova
politica. La popolazione ha chiesto di sciogliere il parlamento e di creare un
comitato per riformare la costituzione, per la transizione e per andare alle
elezioni».
In Tunisia c’è stato un
cambiamento anche all’interno del sistema. L’esercito ha sostenuto la
popolazione in rivolta…
«L’esercito è stato dalla
parte del popolo, a differenza della polizia. È stato il garante della
protezione della rivoluzione tunisina: dopo la fuga di Ben Ali s’è creato un
vuoto nella sicurezza, che i militari avrebbero potuto riempire, ma si sono
rifiutati e hanno lasciato la gestione del potere alla parte civile. L’esercito
ha voluto le elezioni e il 23 ottobre 2011 ha protetto la gente che andava a
votare. L’affluenza alle ue è stata massiccia, e ha dato la vittoria al
movimento en-Nahda, vietato sotto Ben Ali (i suoi militanti erano o in carcere o
all’estero, esuli). La vittoria elettorale è stata del popolo, prima che di un
partito».
Tuttavia ci sono ancora
malcontenti e manifestazioni di piazza…
«I tunisini chiedono una
seconda rivoluzione, ma abbiamo bisogno di unità e non di opposizione. Siamo
d’accordo di indire nuove elezioni per la prossima primavera. I media francesi
hanno iniziato ad attaccare il governo con articoli in cui dicevano che la
Tunisia è diventata islamica, che le minoranze cristiane ed ebree sono sparite,
e che il paese è tornato indietro, che il turismo è sparito. Essi passano
l’immagine di un governo sotto il giogo del salafismo. Ciò non corrisponde al
vero. Oggi in Tunisia ci sono 125 partiti politici».
Rivolta spontanea,
pilotata o preparata da un’élite?
«Il 14 dicembre 2010
tutte le forze ribelli si sono incontrate insieme. La rivoluzione non è stata
preparata in laboratorio, scientificamente, ma è stata spontanea».
Quali sono i
problemi che deve affrontare il governo post-rivoluzione?
«Siamo alle prese con
grandi problemi. Le nostre élite intellettuali purtroppo non avevano elaborato
un’ideologia o un pensiero sulla modeità. Non c’è unanimità sul concetto di
“democrazia” e neanche sullo stesso processo democratico. Non abbiamo un
retroterra culturale come è stato per le vecchie rivoluzioni europee. Abbiamo
avuto migliaia di attivisti, di tutte le provenienze politiche e ideologiche
islamici, nazionalisti, marxisti, ecc. che tuttavia non hanno avuto egemonia
rivoluzionaria sul popolo. Durante la rivoluzione, infatti, la gente, le masse,
hanno scavalcato le avanguardie. Dopo i tragici fatti di Sidi Bouzid, nel
dicembre del 2010, la popolazione è scesa in piazza.
L’élite araba non è più
democratica dei despoti contro cui combatte. Faccio due esempi: il nazionalismo
arabo baathismo e nasserismo ha represso la democrazia; i movimenti islamici
hanno fatto lo stesso imponendo la shari’a, la legge islamica. Noi, come
en-Nahda, non riteniamo che sia una priorità l’islamizzazione della società,
quanto piuttosto la sua democratizzazione. Non abbiamo dubbi: dobbiamo
difendere le libertà e i diritti.
Ma sappiamo che il
processo democratico può durare molti anni. Per noi non c’è libertà senza
democrazia, non c’è futuro senza democrazia, non c’è islam senza democrazia.
Ciò che ci distingue dai modeisti è il fatto che loro subordinano la
democrazia alle libertà, e dai salafiti è che loro subordinano la democrazia
all’Islam. Noi riteniamo che la via democratica sia quella più breve e meno
costosa, ma non intendiamo la democrazia greca che escludeva le donne e gli
schiavi. Non ci piace la democrazia del capitale o quella della maggioranza cui
il resto della popolazione deve essere subordinato. Vogliamo una democrazia
dell’alternanza, che tenga conto di tutta la società».
Come reagisce il governo
tunisino nei confronti degli attacchi perpetrati da estremisti salafiti ai
danni di minoranze religiose?
«Nel nostro paese non
abbiamo problemi tra sunniti e sciiti: questo è un conflitto importato
dall’Oriente arabo. Dal momento che viviamo nello stesso spazio, quello che
succede in Medio Oriente ha ripercussione su di noi e viceversa. Dopo la
rivoluzione tutte le componenti della società tunisina, compresi i salafiti,
hanno avuto il diritto di esprimersi. Come movimento en-Nahda al governo, li
incoraggiamo a uscire dalla clandestinità, ma, allo stesso tempo, a rifiutare
la violenza e a rispettare i diritti degli altri. I salafiti considerano lo
sciismo un pericolo per l’unità nazionale e la sicurezza del paese, ma ciò
rappresenta un’esagerazione. La società tunisina è omogenea e la differenza di
punti di vista e di ideologia non minaccia affatto l’unità, mentre la violenza
è ben più grave del pluralismo ideologico e politico. Dobbiamo dunque essere
uniti contro la violenza da qualunque parte provenga».
Qual è il peso del
salafismo in Tunisia?
«Non ci sono elementi
estei in Tunisia. I salafiti ricevono appoggio politico da parte di alcune
associazioni o personalità del Medio Oriente e del Golfo. Sono i media e le
prediche degli ulema salafiti del Golfo a influenzare una parte della gioventù
tunisina, perché nell’era di Ben Ali l’islamismo era escluso dalla vita
politica e questo ha creato un vuoto che è stato riempito da un discorso
religioso e ideologico che non si combina con la realtà tunisina. Durante il
regime, non c’era rispetto per le libertà religiose e i discorsi religiosi
erano poco credibili e a favore del potere politico. Erano parte della
propaganda politica ufficiale, mentre le persone volevano sentire la verità e
lo spirito della religione musulmana trasmessi da gente degna.
Quello che succede ora è
il frutto di anni di regime di Ben Ali. Oggi c’è una libertà illimitata in
Tunisia e quindi tanti gruppi, salafiti compresi, pensano di fare ciò che
vogliono, anche imporre la loro visione e legge a detrimento degli altri. Il
governo vuole prima di tutto garantire la libertà di tutti, dato che è una
conquista della rivoluzione, e allo stesso tempo salvaguardare il Paese
dall’anarchia, trovando un equilibrio tra rispetto della legge e garanzie di libertà».
Veniamo ora all’articolo
28 della Costituzione e alla questione della «complementarietà» tra uomo e
donna che ha suscitato tanto scalpore in Europa. Di cosa si tratta?
«La polemica
sull’articolo 28 è nata dai media. Non è vero che esso riguarda i diritti delle
donne. Fa riferimento al diritto di famiglia, all’interno del quale viene
riconosciuto il ruolo complementare della donna e dell’uomo. Gli articoli 21 e
22 parlano invece dell’uguaglianza tra i due sessi. L’art. 21 spiega che tutti
i cittadini sono uguali e condanna la violenza contro le donne e la
discriminazione. En-Nahda difende il codice del diritto della persona stabilito
nel 1959 durante il regime di Bourguiba. La Tunisia non può tornare indietro,
ma solo andare avanti».
Qual è la posizione delle
donne nel nuovo governo?
«Penso che il problema
della donna in Tunisia non sia legislativo, ma culturale e sociale: esso ha a
che fare con la mentalità. Molte conquiste sono state realizzate a favore della
donna e non sono un regalo di nessuno, ma un risultato della lotta della donna
tunisina per essere uguale all’uomo e per preservare i suoi diritti. In Tunisia
c’è sempre una volontà politica per conservare tali conquiste, ma nessuno può
rimpiazzare la donna nella difesa dei propri diritti. Gli intellettuali
tunisini devono combattere la mentalità che ritiene che la donna non sia uguale
all’uomo o che lei sia la responsabile di problemi sociali come la
disoccupazione. La partecipazione della donna alla vita politica ed economica è
sostanziale. Possiamo dire che sia aumentata, ma non è ancora al livello delle
aspirazioni delle donne. Quindi c’è molto lavoro da fare. Nell’ambito
dell’assemblea costituente ci sono 49 donne e 42 sono di en-Nahda. Come
movimento abbiamo l’onore e l’onere di essere difensori e avvocati della donna
tunisina che ha partecipato alla rivoluzione, e non solo dell’intellettuale ma
anche di quella rurale che combatte ogni giorno per migliorare le condizioni di
vita sue e della sua famiglia».
Qual è la sua opinione
sulla guerra civile in Siria e sulla richiesta di una parte dei ribelli di far
intervenire la Nato?
«En-Nahda è contro ogni
intervento esterno nei paesi arabi, ma siamo a favore del popolo siriano che si
rivolta contro il regime di Assad. Sappiamo che sulla Siria convergono enormi
interessi geo-politici. È nostro dovere morale ed etico sostenere le
rivendicazioni della popolazione siriana».
Angela Lano