FRANCESCA SAVERIO CABRINI

Una santa nasce, cresce, si forma,
sviluppa la sua fede e scopre il suo carisma in terra lombarda; espressione
genuina di quella spiritualità dell’azione che diventa originale servizio per
gli emigranti italiani: erano i veri poveri del nostro paese. Negli anni
successivi l’Unità d’Italia, centinaia di migliaia di persone emigrarono alla
ricerca di un lavoro – specialmente in Nord e Sud America – per procurare da
vivere a sé e alle proprie famiglie. Per essere al loro fianco e per svolgere
meglio il suo servizio negli Usa, ella prende la cittadinanza americana, quindi
nella Chiesa è la prima cittadina statunitense a essere proclamata Santa.

Francesca, prova a presentare la
tua vita ai nostri lettori…

Sono
nata a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio 1850, in una famiglia dalle solide
tradizioni cristiane. Durante la scuola per diventare maestra elementare, al
collegio del Sacro Cuore di Arluno in provincia di Milano, ho maturato la mia
vocazione religiosa, che ho coronato emettendo i voti di povertà, castità e
obbedienza nel 1874.

Fin dall’inizio, però, volevi
essere suora in un modo nuovo: consacrarti al Signore per rispondere alle
necessità dei poveri, con un carisma che rispondesse ai segni dei tempi, o
sbaglio?

No,
non sbagli. La mia giovinezza, per quanto vissuta interamente in Lombardia,
regione che oggi risulta essere il traino dell’Italia e certamente una delle
regioni dal reddito pro capite più alto del nostro paese, ai miei tempi era,
specialmente nelle campagne, una regione con una povertà diffusa e una forte
emigrazione. Vedevo giocare i bambini per strada nelle pozzanghere perché le
mamme lavoravano in filanda e i papà erano emigrati all’estero; decisi allora
di rispondere a queste sfide, fondando insieme ad alcune compagne la
congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù che si prendesse cura
di coloro che, a causa della miseria in cui vivevano, lasciavano il loro paese
alla ricerca di una vita più dignitosa. La congregazione delle Missionarie del
Sacro Cuore di Gesù è stata la prima ad affrontare l’impegno e il servizio
verso i nostri emigranti, un lavoro affidato sino ad allora a congregazioni
maschili.

Questa preoccupazione, però, non
l’avevi solo tu; altri nella Chiesa, proprio ai tuoi tempi, si aprivano al
servizio verso gli emigranti…

È
vero, mons. Giovan Battista Scalabrini vescovo di Piacenza, preoccupato dalla
partenza verso le Americhe di molte persone che svuotava intere comunità
parrocchiali, fondò più o meno in quegli anni la congregazione dei Missionari
di San Carlo Borromeo, conosciuti dal nome del loro fondatore come «Scalabriniani».
Così, per rispondere alle mutate esigenze dei tempi, nacquero in quel periodo
nuove congregazioni come quella delle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, fondate
da suor Clelia Merloni di Forlì.

Al tuo nome, per essere
missionaria fino in fondo, hai aggiunto quello del patrono delle missioni:
Francesco Saverio…

Sì,
e ho voluto mantenerlo al maschile proprio per non togliere il copyright
di andare in tutto il mondo al servizio dei fratelli, del più intrepido e
valoroso dei missionari di tutti i tempi.

Qual è stato il tuo campo di
azione?

Nel
1889 mi recai negli Stati Uniti per prestare assistenza agli immigrati
italiani. A quei tempi il viaggio verso le Americhe durava qualche mese in nave
e confesso che l’aver attraversato l’oceano mi diede una carica indicibile:
sbarcai a New York, ma non mi fermai in quella che voi chiamate la «Grande mela»,
mi addentrai nell’interno, alla ricerca di comunità di emigranti italiani per
dare loro tutto il nostro aiuto. Devo dire che più le nostre attività si organizzavano
attorno alle comunità dei nostri emigranti, più le necessità di dare un
servizio accurato e di strutturare meglio il nostro lavoro mi portavano ad
attraversare l’oceano Atlantico: lo feci ventotto volte sui bastimenti di
allora. In più attraversai le Ande per raggiungere Buenos Aires, partendo da
Panama. Erano viaggi faticosi che avrebbero stroncato chiunque.

In un ambiente maschile come
quello dell’emigrazione italiana, qualche curiosità dovevano pur crearla delle
suore che a dorso di mulo si addentravano verso il selvaggio West di quelli che
sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America…

Non vi dico i commenti, che arrivavano specialmente dai Wasp
(White Anglo-Saxon Protestant, bianco anglosassone protestante). Però,
quando cominciammo a costruire asili, scuole e convitti per studentesse,
orfanotrofi, case di riposo, ospedali, il discorso cambiò radicalmente.
Cominciarono a rispettarci e ad aiutarci.

Con la lingua come te la cavavi?

Oltre
all’inglese, imparai anche lo spagnolo e gesticolavo una miriade di dialetti
italiani per poter comunicare con la gente della mia terra, che a mala pena
sapeva parlare l’italiano; ma nel 1909 proprio per affermare la mia
inculturazione nel nuovo continente, presi la cittadinanza americana.

Le tue iniziative benefiche e le
tue opere caritative, ben presto si svilupparono e divennero dei punti di
riferimento importanti per i nostri connazionali…

Certamente.
E mi è caro sottolineare che, dal punto di vista economico, mettevamo al primo
posto l’autogestione delle opere aperte, grazie agli aiuti che ci venivano
dati, oltre a una piccola quota, imposta a quanti tra i beneficiari lavoravano,
per il buon funzionamento di quanto avevamo realizzato per loro.

Immagino che la vostra azione
avesse molteplici sfaccettature, così pure le iniziative dovevano essere
diversificate per rispondere alle differenti esigenze legate ai problemi
dell’immigrazione.

Ti
dirò, la cosa più importante era dare ai nostri connazionali la possibilità di
esprimersi nella lingua del paese che li aveva accolti, per cui proponevamo
incessantemente corsi di lingua inglese, davamo assistenza burocratica ai nuovi
arrivati e curavamo la corrispondenza con le famiglie di origine rimaste in
Italia. Cercavamo poi di raggiungere i più emarginati e lontani logisticamente,
visitare gli infermi e quelli che finivano in carcere.

Certo che per gli americani
dell’Ottocento vedersi arrivare queste migliaia (col tempo milioni) di
disperati dall’Italia non doveva essere una cosa facile da ingoiare, seppur
bisognosi di mano d’opera, covavano in animo sentimenti di antipatia e
avversione non indifferenti, o sbaglio?

Guarda,
ti rispondo facendoti leggere una relazione dell’ispettorato per l’Immigrazione
del Congresso degli Stati Uniti d’America del 1912 che dice così:

«Generalmente
sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro
puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si
costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove
vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro
affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due
e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro,
sei, dieci, venti. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente
antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma
sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre
anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che
faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al
furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché
poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri
consumati dopo agguati in strade periferiche, quando le donne tornano dal
lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma,
soprattutto, non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro
paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura,
attività criminali. Propongo che si privilegino i lombardi e i veneti, tardi di
comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad
abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite, e
non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di
questa relazione, provengono da altre regioni d’Italia. Vi invito a controllare
i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere
la prima preoccupazione».

Sembra di leggere un comunicato
che riflette sentimenti di rifiuto dello straniero, del diverso presenti in
certi ambienti nostrani…

È
proprio vero che la storia è maestra di vita, ma il più delle volte essa è
inascoltata; ai poveracci che,ancora oggi varcano i mari, intraprendendo veri e
propri viaggi pericolosi per sfuggire a guerre, violenze, calamità naturali o
più semplicemente per dare un futuro dignitoso ai propri figli attraverso il
lavoro che nei loro paesi non c’è, viene negata quella dignità insita in ogni
persona umana, creata a immagine di Dio, e questo dovrebbe far riflettere.

Ieri
io, Francesca Saverio Cabrini, insieme a donne che non avevano paura di
affrontare prove e sacrifici, ho cercato di dare una risposta ai segni dei
tempi, oggi mettetevi in gioco pure voi, le occasioni non mancano. Buon lavoro
ragazzi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera

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