Cana (33): «Gustate e vedete come è buono il Signore»

Il racconto delle nozze di Cana (33)

Gv 2,8-10: 8E dice loro: «Adesso cominciate ad attingere e continuate a portae all’architriclìno.
9Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua -, l’architriclìno chiama lo sposo 10e gli dice: «Chiunque prima mette il vino “eccellente” (lett. «vino bello») e, quando sono ubriachi, il peggiore; tu hai custodito il vino “eccellente” fino ad ora».

Nella puntata precedente abbiamo volutamente omesso l’ultima parola di Gv 2,8 dove per la prima volta interviene un nuovo personaggio, fin qui assente: l’architriclino (gr.: architrìklinos) che la Bibbia Cei (2008) traduce con la circonlocuzione «colui che dirige il banchetto». Questo personaggio ritorna altre due volte nel testo greco di Gv 2,9, mentre la Bibbia-Cei (2008) ne elimina una, lasciandola sottintesa, modificando così la portata voluta dall’autore. Dice la Bibbia-Cei: «Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse».
Dice il testo greco: «Come poi l’architriclino gustò l’acqua… l’architriclino chiamò lo sposo e gli disse», ripetendo per la terza volta il riferimento esplicito al personaggio che è l’architriclino.
Più volte abbiamo detto che la traduzione Cei privilegia non l’esegesi, ma l’immediata comprensione perché la Bibbia viene «ascoltata» prevalentemente nella liturgia. Per questo motivo, sceglie una traduzione immediata, «orecchiabile» in italiano, ma in molti casi a danno della particolarità del testo e quindi, secondo noi, della sua stessa comprensione che non è quello che appare, come in questi versetti di Giovanni.
Usi per il matrimonio ebraico
La figura del personaggio «architriclino» è citata tre volte di seguito in due versetti (cf Gv 2,8-9). Sappiamo che quando Gv ripete due volte una parola o un nome vuole richiamarci ad andare oltre il testo scritto, a un senso più profondo, nascosto e impegnativo. Cerchiamo di immergerci nel profondo del pensiero dell’autore per scoprire chi è l’architriclino e quale significato abbia.
Le nozze ebraiche si svolgevano di norma in casa del padre dello sposo e duravano alcuni giorni, anche una settimana. Il matrimonio avveniva il terzo giorno, cioè il martedì, perché nel terzo giorno Dio crea due cose: le acque del mare e la terra e per due volte «vide che era cosa buona» (Gen 1,10.12): il martedì quindi è il giorno della doppia benedizione, della duplice fecondità del mare, che produce i pesci, e della terra, che produce alberi e frutti.
Un secondo motivo per cui il matrimonio si celebra il martedì (terzo giorno) consiste nel fatto che il quarto giorno, cioè il mercoledì, si riuniva il tribunale a cui si poteva presentare eventuale accusa di non-verginità della donna e dichiarare subito invalido il patto nuziale. Durante la prima notte di nozze, gli amici dello sposo vegliavano fino all’alba, quando le lenzuola sporche di sangue erano esposte con orgoglio al pubblico come prova della verginità della donna, la quale le conservava per tutta la vita.
La festa del matrimonio era complessa; svolgendosi in casa del padre dello sposo, occorreva un’organizzazione sostenuta per fare fronte all’approvvigionamento delle vettovaglie per molti ospiti e per diversi giorni. Il compito del responsabile delle nozze, che l’evangelista qui chiama «architriclino», era delicato perché doveva calibrare le necessità e fare in modo che tutti potessero mangiare, bere e divertirsi senza problema.
Gli sposi erano separati dagli invitati e stavano sotto un baldacchino: la sposa oata come una regina e lo sposo come un re, assisi sul trono regale del matrimonio, simbolo delle nozze tra Dio e Israele. Uomini e donne erano separati e stavano in spazi distinti con servizi indipendenti, per cui non si capisce come la madre e suo figlio abbiano potuto dialogare tra loro, dovendo stare in ambienti diversi e distinti, a meno che non si accetti l’ipotesi che ci troviamo di fronte a un aneddoto, cioè a un midràsh, con finalità teologiche, e quindi non di fronte ad un fatto storico.
Un personaggio nuovo e il suo simbolo
Il richiamo alla figura dell’architriclino, nominato tre volte in appena due versetti, nel contesto del racconto, indica una figura usuale nel matrimonio ebraico di famiglie abbienti che si potevano permettere un’organizzazione e una festa nuziale di grande partecipazione. In questo senso la sua presenza ci dice soltanto che le nozze erano di una famiglia benestante; la figura del responsabile delle nozze quindi, se ci trovassimo davanti alla cronaca di un fatto, avrebbe un valore narrativo senza un particolare significato: c’è un matrimonio di una famiglia benestante con molti invitati e necessita un organizzatore della festa che si protrae per giorni.
Nell’intenzione dell’autore del vangelo, però, il fatto storico cede il passo al valore simbolico, che esige da noi una particolare attenzione. Crediamo sia importante, infatti, sottolineare ancora una volta che in tutto il racconto, la sposa non è nemmeno menzionata, mentre lo sposo è citato una sola volta (cf Gv 2,9) e solo per essere rimproverato, mentre l’architriclino è nominato tre volte di seguito (cf Gv 8-9). Non può assolutamente essere una casualità. Dietro vi è una intenzione specifica, che il lettore deve scoprire su indicazione dello stesso Gv che lascia l’indizio delle tre citazioni. 
Sul valore simbolico dell’architriclino diverse sono le posizioni degli esegeti. Alcuni (Mateos-Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 143; F. Manns, L’Evangile, 103) partono dall’analisi filologica e accostano «architriclino» al sostantivo «àrchōn-capo/responsabile», che nel IV vangelo ricorre 4 volte (cf Gv 3,1; 12,31; 14,30; 16,11) e una volta in Ap 1,5, con cui si fa riferimento alle autorità giudaiche. Il riferimento dunque sarebbe a «capi dei giudei-àrchōntes» (cf Gv 3,1; 7,26.48) o anche al «sommo/i sacerdote/i-archierèus» (cf Gv 11,47.51; 18,10.13.15.16.19.22.24.26.35; 12,10; 19,15.21) a cui si collegano di solito anche i «farisei» che fanno parte dei «capi» (cf Gv 7,32.45; 11,47.57; 18,3).
In questo contesto e nell’economia del racconto, l’architriclìno rappresenterebbe i responsabili del popolo che si sono dimostrati inadatti a cogliere la novità dell’alleanza e la svolta intervenuta con l’ingresso di Gesù nelle nuove nozze rinnovate a Cana. I capi assaggiano il vino eccellente, ma non sanno di dove proviene e, fatto ancora più grave, non sanno leggere il suo significato. Essi si fermano alla banalità dell’evento come appare ai loro occhi ciechi.
Bibbia e giornale, Parola e vita
Il vino estratto dalle giare di pietra, vino «eccellente» (in greco è kalòs: «vino bello»), non è dato direttamente al popolo, ma per primo viene offerto ai capi, a coloro che hanno il compito di constare gli eventi e sancire l’intervento di Dio (cf Lc 17,14) per il semplice fatto che avevano gli strumenti adeguati per «vedere» Dio operare nella storia: essi, infatti, «ascoltano» la Parola e «verificano» i fatti, gli eventi; hanno quindi i due strumenti principi per il discernimento profetico: gli eventi della storia e i criteri della Parola o, come direbbe Karl Barth, il giornale e la Bibbia. Eppure, pur essendo così privilegiati, sono inadeguati e anche inadempienti, perché si fermano alla superficie delle cose: ai fenomeni appariscenti e non sono capaci di scendere nel pozzo profondo della realtà per incontrare le correnti della vita e le dinamiche dello Spirito. Sono talmente tronfi di se stessi e della loro funzione, anzi ubriachi del loro ruolo, che identificano il loro stesso pensiero, limitato e limitante, con la volontà di Dio.
Gli architriclini sono chiamati non a contrabbandare il loro volere con quello di Dio, ma a riconoscere il vino eccellente, portato dai diaconi e attinto alle giare della vita e delle circostanze. Dio è il miracolo permanente che sta nelle pieghe dell’ordinario più usuale e bisogna avere ascolto fine e sguardo attento per coglierlo oltre il consueto e il banale: non si valuta infatti una opinione, ma si contempla l’evento straordinario della salvezza che si fa storia. Compito dell’autorità non è comandare, ma «ascoltare» la Presenza di Dio dovunque essa si nasconda e dovunque voglia riposare.
L’architriclino del racconto, invece, si limita a osservare che vi è stata una variazione di programma, lo scambio nell’ordine della presentazione dei vini: ha assaggiato il vino eccellente, ma non ha gustato né ha assaporato la novità di quel vino, né si è chiesto come mai fosse capitato proprio lì. Per lui quel vino che pure chiama «eccellente», doveva essere servito «prima», riservando a «dopo» quello scadente. Non si è reso conto che la successione tra «prima e dopo» è saltata, perché quando Dio interviene, non è più il tempo, il «chrònos», a regolare gli eventi, ma solo e unicamente il «kairòs», cioè l’occasione propizia che porta novità e cambiamento.
Se l’architriclino rappresenta i «capi/sommi sacerdoti», egli come questi, non solo non sa riconoscere il senso del vino nuovo, ma vuole impedire che il «secondo vino», cioè Gesù, entri nell’otre del «primo vino» che è quello dell’alleanza del Sinai, perché «non [è] venuto ad abolire la Legge o i Profeti…, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Per la religione ufficiale il passato è inamovibile, è sicurezza, è l’utero del caldo riposo dove ci si può crogiolare in attesa del nuovo che non arriverà mai, perché cuore, occhi e gusto sono tutti fermi e imbalsamati in un tempo addietro, senza vita e senza prospettiva: una fotocopia sbiadita di qualcosa che non saprà mai suscitare gli spasmi dell’amore che vive di attesa e di sospiri, di paura e di speranza. Bloccati nel passato, vivono del passato, fuori del presente, morti al futuro.
Oltre il passato, l’oggi
L’architriclino «e i capi del popolo sanno che Dio ha parlato a Mosè, e questo basta loro per restare suoi discepoli» (cf Eraldo Tognocchi, Le nozze di Cana, 168). Per essi è fuori di ogni logica che vi possa essere qualcuno più grande di Mosè, sebbene lo stesso profeta lo abbia previsto: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Anche la Parola di Dio viene vanificata dai cultori del passato che così mettono una ipoteca sulla stessa volontà salvifica di Dio, riducendola a mero strumento di esercizio di potere: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). Gesù stesso dunque distingue tra una tradizione «vostra» e il «comandamento», perché aveva già previsto che gli uomini di chiesa avrebbero sacrificato volentieri il secondo sull’altare della presunzione della prima perché dimentica sempre che ogni tempo è tempo di Dio.
Un’altra posizione, sempre sulla linea della simbologia, è espressa dallo studioso Xavier Léon-Dufour (Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, I,308), secondo il quale, l’architriclino è una figura positiva, il cui compito è constatare che finalmente è arrivato il «vino eccellente» e le parole allo sposo, lungi dall’essere parole di rimprovero sono solo una battuta scherzosa, quasi una celia, come dire: Ah, bricconcello, hai voluto cogliere tutti di sorpresa, dando all’inizio vino scadente e portando in tavola solo alla fine vino eccellente! Ci sei riuscito, bravo! (cf Ibidem, 300). Su questo stesso versante si colloca anche Aristide Serra (Le nozze di Cana, 384-389), che riconosce il valore simbolico del personaggio, ma lo colloca sulla linea dello «stupore/sorpresa» e non già su quella dell’incapacità, che è conseguenza dell’ignoranza di quanto è accaduto: l’architriclino, «il maestro (o incaricato) di mensa, constata, si direbbe con lieta sorpresa, che il vino offerto alla fine, da lui “gustato”, è di qualità superiore, e non sembra biasimare lo sposo per questo. Semplicemente, egli “non sa da dove venga” quella sorpresa. La sua meraviglia rimane senza risposta» (Ibidem, 384). Serra poi nella nota 667 (p. 384) mette in relazione Gv 2,9-10 con Eb 6,4-5 che usano gli stessi vocaboli nello stesso senso e con lo stesso scopo:

Sia in Gv che in Eb si trovano tre pensieri espressi: il verbo gèuō-io gusto; l’aggettivo kalòs-bello/buono/ eccellente e la parola di Dio, rhêma theoû, esplicita in Eb e simboleggiata nel vino in Gv. A. Serra conclude la nota con il riferimento a 1Pt 2,3 che ricorre alla metafora del latte per indicare la stessa Parola di Dio. In conclusione lo stupore dell’architriclino non è altro che l’anticipo di tutti gli altri «stupori» che s’incontrano nel vangelo di fronte ai «segni» operati da Gesù, suscitando così la domanda sulla sua persona e sulla sua identità: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Gv 6,42; cf Mt 13,54-57; Mc 4,41; 6,1-6; Lc 5,21).
Quale Dio per quale Umanità?
Le due interpretazioni simboliche non si escludono né sono alternative, semmai si integrano, perché da un lato è vero che gli «architriclini-sommi sacerdoti e capi» non sono stati all’altezza della novità che la storia portava e dall’altra è pure vero che «anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga» (Gv 12,42). Da un lato, quindi, c’è l’incapacità di cogliere la novità da parte di un’autorità, lenta per sua natura e anche paurosa di aprirsi al nuovo, che è sempre una incognita di destabilizzazione del potere acquisito, e dall’altra c’è lo stupore/meraviglia che nasce dal «gusto» di un vino mai assaggiato prima. C’è la coscienza, ma non è avvertita perché si ferma al dato e non va oltre.
Gesù non è rappresentabile con l’immagine pietistica del «sacro cuore», bonaccione e melenso con gli occhi stralunati come se fosse reduce da un party a base di cocaina o con i capelli biondi intrisi di brillantina al gel per farlo apparire più come un hippy ante litteram che come un ebreo-palestinese, assolato e olivastro. Tutto ciò serve ad alienare e a estrapolare il senso di Dio dalla realtà e trasferirsi in un limbo nebuloso di spiritualismo separato dalla vita e dalla storia, disincarnando la sua incarnazione, trasformata in un accidente di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Al contrario, Gesù porta lo scisma e, dove arriva, impone una scelta e, infatti, dovunque va esercita un magistero che esige una risposta: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,45); sulla stessa linea il vangelo apocrifo di Tommaso: «Gesù disse, “Ho appiccato fuoco al mondo, e guardate, lo curo finché attecchisce… Forse la gente pensa che io sia venuto a portare la pace nel mondo. Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra”» (Vangelo Tommaso nn. 10 e 16).
Di conseguenza, nel popolo molti lo accolgono con entusiasmo, altri lo rifiutano con consapevolezza (cf Gv 7,43; 10,19); lo stesso avviene tra i farisei (cf Gv 9,16) e tra i soldati del tempio che arrivano a disobbedire agli ordini ricevuti perché «mai un uomo ha parlato così!» (Gv 7,46). Da qui attraverso il misterioso personaggio dell’architriclino giunge fino a noi la domanda a cui non possiamo sfuggire: chi è Gesù per me? Oggi, adesso e qui?
(33 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella

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