Feudale, islamico, atomico

Un paese complesso e diseguale

Militari, servizi segreti e oligarchia economica dominano su una popolazione impoverita. L’islam, la religione della Costituzione, è usato come arma per combattere i nemici e opprimere le minoranze. Su tutto ciò s’inserisce una deriva integralista di matrice qaedista e talebana.

L’uccisione di Osama bin Laden il 2 maggio 2011 da parte di uomini dei reparti speciali statunitensi nella città-guaigione di Rawalpindi aveva le potenzialità di chiudere un periodo in sé difficile e controverso nei rapporti tra Usa (e Occidente) e Pakistan. Invece, sia quell’episodio, sia la successiva evoluzione della situazione internazionale e intea dovevano mostrare che la fine di Bin Laden apriva un capitolo contrastato e sanguinoso, rischiando di allargare ancora di più il fossato ideologico, strategico e di interessi tra Pakistan e Occidente, identificato soprattutto con la sua mano armata: la missione Nato in Afghanistan denominata Isaf (Inteational Security Assistance).

OSAMA E TALEBANI, FANTASMI ONNIPRESENTI
Il funerale di Osama, tenutosi poche ore dopo la sua fine in un’area del Mare d’Oman, al largo delle coste pachistane, ha tolto ogni possibilità ai suoi estimatori di fare della sua morte un rischioso «cult», ma non ha chiuso del tutto sospetti, macchinazioni e teorie attorno alle ultime fasi della sua vicenda terrena, incluso il suo ruolo reale in Al Qaeda e nella galassia jihadista sparsa dal Marocco all’Indonesia. Non sarebbe servito, altrimenti, radere al suolo, nel febbraio 2012, la casa dove aveva vissuto per anni prima dell’uccisione, in un’area fortemente controllata dai servizi di sicurezza del paese. Memoria quindi scomoda anche per intelligence locale, generali e politici… da cancellare come premessa al riavvicinamento agli Usa, nonostante le morti di civili e militari colpiti dai droni a stelle e strisce.
Difficile non ricordare che l’ascesa di Bin Laden era stata in tempi non sospetti – quelli dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e della sua successiva liberazione – «necessaria» agli Usa e ai servizi segreti pachistani, come in seguito lo è stata l’aberrazione talibana, coltivata in Pakistan per essere rilasciata oltreconfine. Fino a quando le due aberrazioni non si sono intrecciate con la crisi morale e di legittimità di buona parte dei regimi mediorientali e con i rinnovati interessi dell’Occidente, diventando un pericoloso boomerang.
Difficile ignorare che la deriva integralista in Pakistan è stata accesa dalla scelta del generale-dittatore Zia Ul Haq di creare – alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso – una legislazione gradita ai religiosi radicali (sheikh e mullah), utile a sostenee il potere mettendo però l’una contro l’altra le anime sociali, etniche e religiose del grande paese asiatico (esteso quasi tre volte l’Italia, 180 milioni di abitanti, il secondo al mondo come popolazione musulmana). Difficile infine ignorare che in tempi più recenti il generale-presidente Musharraf abbia promosso le forze armate ad arbitri della vita del paese che – dalla nascita nel 1947 – ha vissuto più anni sotto il potere dei fucili che non sotto quello del Parlamento.
Tutto ovviamente sotto lo sguardo attento e mai disinteressato dell’Occidente, opportunamente distratto per quanto riguardava gli effetti su sviluppo, diritti umani e civili, democrazia di una tale situazione. Che oltretutto coincideva con la necessità di disporre di un partner che bilanciasse la potenza indiana in stretto accordo con il gigante cinese emergente. Fino a quando la situazione intea è sembrata sfuggire di mano e il riavvicinamento tra Usa e India (e di entrambi con la Cina) ha accelerato la deriva islamista del paese. Dotato, anche questo va ricordato, di decine di testate atomiche e di vettori in grado di lanciarle, con il rischio più volte espresso dalle diplomazie, che l’arsenale possa finire in mano all’islamismo radicale oppure a gruppi terroristici. Oggi è troppo tardi, forse affinché gli anticorpi presenti nel paese possano insieme attivare una democrazia compiuta, l’indipendenza strategica e soffocare l’aggressione integralista.

PARLAMENTO FRAMMENTATO E SENZA POTERE                                
Il Pakistan resta feudale nell’intimo, con una parte non indifferente della popolazione costretta in stato di schiavitù da tradizioni o debiti, e milioni di altri cacciati – come conseguenza di conflitti locali e regionali, per catastrofe naturali e per discutibili e velleitarie scelte di sviluppo – in una vita di stenti in campi profughi. Dipendenti insieme dalla «benevolenza» delle autorità locali e dagli insufficienti aiuti inteazionali.
Nessuna delle forze parlamentari è in grado di contrastare i «poteri forti» del paese: militari, servizi segreti, establishment economico, antica aristocrazia tribale, autorità religiose.
Il «Partito del popolo pachistano», guidato dopo la morte di Benazir Bhutto dal figlio e (più concretamente) dal vedovo Asif Ali Zardari, laicista senza rinnegare l’identità islamica scolpita nella Costituzione, è oggi maggioritario in Parlamento, ma non può da solo gestire il paese. Il suo principale antagonista è la Lega musulmana (fazione Nawaz), con leader e Nawaz Sharif, islamista pragmatico senza inclinazioni all’ideale jihadista. In mezzo, come presenza parlamentare, la Lega musulmana (fazione Qaid-e-Azam) il partito dell’ex generale ed ex presidente Parvez Musharraf, ora di fatto in esilio a Londra inseguito da un mandato di arresto.
Il «Movimento di tutti i partiti democratici», di chiara ispirazione islamista, ha al centro il piccolo Pakistan Tehrik-e-Insaf, guidato dall’ex campione di cricket Imran Khan. Un partito che per la sua carica giustizialista prima ancora che religiosa, ha tra i suoi uomini di punta Iftikhar Ahmad Chaudhry, ex presidente della Corte suprema, dimissionato da Musharraf insieme ad altri 40 giudici e incarcerato. Nel suo complesso il «Movimento di tutti i partiti democratici» è fautore di un’islamizzazione moderata ma concreta. Insomma, il confronto tra musulmani radicali e liberali resta aperto.
Attoo, una galassia di partiti e di movimenti, espressione di una società civile frammentata. Verdi e comunisti sono delle presenze pressoché simboliche, ma insieme a una molteplicità di formazioni a base etnica e territoriale, come il Muttahida Qaumi Movement, che raccoglie i voti dei mohajir, danno consistenza formale all’incerta democrazia pakistana.  

L’ISLAM, LE MINORANZE, LA BLASFEMIA
La politica, nel complesso, sembra avere un ruolo oggi secondario rispetto ad antichi e nuovi potentati, al controllo dei militari, al crescente ruolo del fondamentalismo religioso. Certamente non è in grado di gestire la situazione nemmeno secondo le regole della Costituzione che segnala uguaglianza e benessere comuni per le minoranze come per la maggioranza musulmana.
Nato per dare una patria ai musulmani dell’India al tempo della separazione di quella che fino al 15 agosto 1947 era stata un’unica entità politica sotto la Corona britannica, il Pakistan ha da sempre nella fede un forte elemento identitario, sottolineato dalla sua Costituzione. Indubbiamente, però, la condizione di sottosviluppo e, in tempi più recenti, il contagio islamista di matrice qaedista e talebana dal confinante Afghanistan ha fatto del Pakistan un paese incerto tra laicità dello Stato e islamismo ma, soprattutto, un paese ostile alle sue minoranze. Cristiani perseguitati nella provincia del Punjab e nelle loro enclave assediate nel Nord e nell’Ovest del paese; induisti nel Balochistan, sikh nella provincia del Nord-Ovest e nel Punjab, ancora cristiani e indù nella megalopoli portuale di Karachi, all’estremo Sud.
Nel mirino degli integralisti sono anche movimenti e sette musulmani considerate eterodosse (se non addirittura eretiche) da islamisti che non ammettono deviazioni da una dottrina di importazione araba (da molti considerata straniera in quanto lontana dalle tradizioni islamiche locali) e insieme promuovono intolleranza e terrorismo. Oggetto di questa attenzione sono i Sufi, fautori di una mistica islamica, e gli Ahmadiya, deviazione pacifica e laboriosa dall’ortodossia che la persecuzione sembra averla nel Dna, qui come in Iran e in Indonesia.
A sua volta, lo stato pachistano continua a tollerare nel suo ordinamento giuridico la serie di provvedimenti indicati comunemente come «legge anti-blasfemia». Strumenti posti in opera dal dittatore militare Zia ul-Haq nel 1986, che la rinnovata ma fragile democrazia pachistana continua a tollerare consentendo così a un islam (che pochi sembrano volere) di dominare con la violenza prima ancora che i non-musulmani, gli stessi fratelli e sorelle nella fede.
Un esempio di come la situazione abbia influito sul Paese, la rende con chiarezza il suo cuore demografico, culturale ed economico, il Punjab.

L’ARRETRAMENTO DEL PUNJAB
Fino a pochi anni fa, il Punjab (82 milioni di abitanti sparsi su 205.344 chilometri quadrati di territorio alluvionale attraversato da imponenti corsi d’acqua e grandi vie di comunicazione), la provincia più popolosa e ricca delle quattro che compongono il Pakistan e che per un lungo tratto affianca il confine con il vicino-rivale India, è stata la vetrina di una paese possibile. Distante dal tribalismo associato a un crescente radicalismo di impronta talebana che identificava la Provincia della Frontiera del Nord-Ovest, lontana dall’arretratezza congenita del desertico Balochistan; ignorata dai problemi interetnici associati alle congregazione malavitose e a vasti potentati rurali che governano il meridionale Sindh e il suo capoluogo Karachi, la provincia sta ora esprimendo in pieno il travaglio dell’intero paese. Non a caso qui riemergono prepotenti fenomeni come il latifondismo sostenuto dal potere delle milizie private, il fondamentalismo religioso che ha fatto vittime illustri nella provincia con la maggiore popolazione cristiana (quasi due milioni i battezzati), le discriminazioni che la cultura indo-islamica (con il cuore nel capoluogo Lahore), aveva superato nel nome di una grande tradizione culturale e di una fede tollerante e dialogica.

Stefano Vecchia

BOX
Le minoranze non islamiche
NON È UN PAESE PER CRISTIANI

La vicenda di Asia Bibi è soltanto un esempio e neppure il più drammatico. In Pakistan, molti cristiani hanno perso la vita. Alcuni erano personaggi conosciuti (come il ministro cattolico Bhatti), altri semplici cittadini la cui unica colpa era di non essere fedeli islamici.

Sono tempi duri e pericolosi per i cristiani del Pakistan. Segnati non soltanto dall’emarginazione quotidiana ma anche da molte forme di violenza e sopraffazione che hanno trovato un’eco internazionale. Senza che però la pressione delle diplomazie e della Chiesa universale in stretto contatto con i movimenti della società civile e la Chiesa locale abbiano ottenuto di cambiare la situazione in senso positivo.
Il potere politico ha mostrato come non mai la sua sudditanza all’azione degli estremisti, in parte guardati con simpatia proprio da settori della maggioranza di governo. Sequele di atti violenti hanno accentuato tensioni e diffidenza.
Il fatto che la minaccia integralista sia ora arrivata a ogni livello è dimostrato dall’assassinio il 4 gennaio 2011 di Salman Taseer, politico progressista, tra i principali esponenti del Partito del popolo pachistano e governatore della provincia del Punjab. Il 2 marzo dello stesso anno il ministro per le Minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti veniva ucciso all’uscita di casa. Nei due casi, gli assassini sono stati esaltati come «eroi» dagli islamisti.
Sulla stessa linea dei due uccisi, ovvero di contrarietà a un uso arbitrario e opportunista della «legge antiblasfemia» e per il predominio dello stato di diritto sulle faziosità e sugli estremismi, sempre nel 2011 l’attuale ambasciatrice di Islamabad a Washington, Sherry Rehman è stata costretta alle dimissioni dal governo e il figlio di Taseer, Shahbaz Ali, è scomparso dopo essere stato rapito il 26 agosto.
Non unico come dinamica, ma assurto a simbolo, il caso di Asia Bibi ha fatto da sfondo e da pretesto a omicidi «eccellenti» come anche alle continue pressioni degli integralisti. Asia, madre di famiglia, cattolica, condannata a morte in prima istanza nel novembre 2010 è in attesa da allora di un giudizio d’appello bloccato dalle pressioni degli integralisti e dal timore della politica e dei giudici che una sentenza di assoluzione  – probabile come hanno dimostrato analoghi casi nel passato – possa diventare il pretesto per una spallata al fragile governo di Islamabad.
Resta valida invece la visione espressa qualche tempo fa dal domenicano padre James Channan, direttore del Centro per la pace dell’arcidiocesi di Lahore: «Purtroppo, il fondamentalismo sembra oggi incontrollabile. Sembra non esserci più spazio per opinioni diverse, una situazione che va oltre ogni immaginazione e che va contro gli stessi principi essenziali della fede islamica. Gli assassinii di Salman Taseer e di Sahbaz Bhatti hanno lasciato i cristiani in uno stato di shock. Hanno reso ancora più evidente come siano poveri, oppressi e vulnerabili. Come, alla fine, siano l’immagine del Cristo sofferente».

Asia Bibi, Salman Taseer, Shabaz Bhatti: la semplice madre di famiglia cattolica, il raffinato politico musulmano e il coraggioso esponente cristiano hanno cercato a modo loro di far prevalere la ragione e il diritto in una situazione di intolleranza e fanatismo. Molti altri sono finiti sotto processo con l’accusa di oltraggio al profeta Muhammad, al Corano o alla religione islamica, alcuni hanno pagato con la vita la loro appartenenza religiosa. Associata spesso a povertà ed emarginazione che ne mettono maggiormente a rischio incolumità e onore, come nel caso delle giovani cristiane che lavorano in stato di servitù nelle case di agiati musulmani. Per non dire delle giovani rapite e stuprate o di quelle costrette alla conversione all’Islam e al matrimonio.
Alla fine anche contrasti di vicinato, antichi rancori, incomprensioni possono diventare, pur in pochi casi – se valutati sul metro delle dimensioni territoriali e demografiche del paese – ma comunque significativi e dolorosi, pretesti per accuse infamanti, detenzione ma anche azioni extragiudiziali spesso violente e letali.
A consentirlo è una visione opportunista dell’Islam che permette a un’accusa senza prove oppure palesemente falsificata diventi – se attuata da un musulmano – denuncia legale per inquirenti e magistrati sovente intimoriti, a volte conniventi, mettendo a rischio la vita degli accusati, dei loro familiari e di chi ne prende le difese.
Come sottolinea tuttavia Nadir Hassan, giornalista pachistano, «il vero avversario non è il sistema giudiziario. È necessario che la maggioranza della popolazione venga istruita, convinta che le leggi contro la blasfemia sono crudeli e anacronistiche». «Quando una società comprende che mettere a morte qualcuno per le sue opinioni e credenze religiose è fondamentalmente illiberale – prosegue Hassan -, la battaglia è già vinta. In Pakistan purtroppo, non abbiamo nemmeno iniziato ad avanzare verso questa convinzione, ma è anche vero che finora nessuna pena capitale comminata per reati di blasfemia è stata eseguita perché le più alte istanze giudiziarie, inclusa la Corte islamica federale, hanno sempre annullato i verdetti iniziali. La minaccia maggiore per la vita di quanti sono accusati di tale reato arriva da fanatici, mentre il disinteresse della polizia verso i violenti, come pure i giudizi dei tribunali di grado inferiore, alimentano il rischio di esecuzioni extragiudiziarie».

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia

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