Un’identità in bilico

Gli hui, i musulmani cinesi

In Cina, su 55 minoranze ufficialmente riconosciute 10 sono musulmane. Una di queste è costituita dagli hui, che si differenziano dagli han soltanto per la religione.

Quella dell’islam in Cina è una vicenda millenaria, le cui prime testimonianze risalgono all’epoca Tang (618-907 d.C.) quando mercanti arabi e persiani, provenienti dalle rotte marittime indiane, iniziarono a stabilirsi in diversi centri del sud. Molti di loro, pur vivendo in quartieri separati dove gli era permesso conservare le proprie usanze ed un proprio sistema di leggi, presero in moglie donne cinesi, contribuendo non solo alla crescita numerica della comunità musulmana, ma gettando di fatto le basi della loro stessa assimilazione etnica. Oggi, nella Rpc (Repubblica popolare cinese), ben 10 delle 55 minoranze nazionali ufficialmente riconosciute sono musulmane, tra cui la comunità hui risulta essere la più numerosa superando i dieci milioni, quasi la metà del totale. Enclave hui sono presenti praticamente in ogni città e – caso unico tra le varie minzu – la religione risulta essere l’unico carattere distintivo della loro identità. Di fatto, a differenza delle altre minoranze musulmane, gli hui sono prossimi agli han da un punto di vista tanto demografico, quanto culturale. Essi non possiedono infatti una propria lingua, un proprio territorio, e spesso si distinguono dagli han solamente per le pratiche alimentari. Proprio questa dispersione sul territorio può essere una delle ragioni dell’estrema polimorfia di pratiche e credenze islamiche oggi rintracciabili all’interno delle varie comunità hui, tra cui spicca una rilevante presenza sufi nel Nord-Ovest. Tutto ciò è viva testimonianza della profonda eterogeneità della comunità nel suo insieme. La stessa identità hui, peraltro, nasce solamente in un periodo recente, grazie alle politiche etniche della Rpc. Il termine «hui», infatti, è stato per secoli un contenitore piuttosto generale all’interno del quale, in Cina, erano definiti i musulmani senza alcuna distinzione etnica. In questo modo «hui» erano non solamente i musulmani cinesi (o che comunque parlavano mandarino), ma anche i turchi uiguri, le varie popolazioni dell’Asia centrale, i «saraceni», e via dicendo. La politica della Rpc, influenzata dall’esperienza sovietica, avrebbe invece portato ad una divisione tra le varie comunità musulmane cinesi, distinguendole secondo quei criteri storici, etnici e linguistici, che Stalin aveva già utilizzato in Asia centrale1.  A partire dagli anni Cinquanta, inoltre, grazie ad una serie di campagne di identificazione nazionale lanciate dallo stato, questi gruppi di musulmani cinesi avrebbero finito per riconoscersi come «hui», invece di definirsi, semplicemente, «musulmani».
L’identità hui rappresenta oggi, all’interno della RPC, un esempio unico di minoranza nazionale priva di legami linguistici o territoriali, basata esclusivamente sul fattore religioso. Nonostante ciò, grazie alle politiche etniche della Rpc, l’aspetto etnico – di per sé, appunto, inesistente – ha finito per giocare un ruolo più importante rispetto a quello religioso, evidenziando ancora una volta le motivazioni politiche sottese all’opera di catalogazione etnografica portata avanti dal partito. Si potrebbe anche sostenere, infine, che questa stessa operazione abbia portato a compimento il percorso millenario di adattamento alle istituzioni cinesi, che i musulmani hanno dovuto affrontare fin dal loro arrivo in Cina. Non più forestieri in una terra straniera dunque, ma hui: «musulmani cinesi». Un ibrido identitario capace, infine, di creare un forte senso di appartenenza ad una comunità che, parafrasando Benedict Anderson, non potrebbe essere più immaginata2.  Una comunità che è pura invenzione, «manufatto culturale», risultato di politiche etniche ben precise, in grado tuttavia di risvegliare tra i suoi membri un profondo senso di identità. Identità fatta di fratellanza ed orgogliosa rivendicazione culturale, per un popolo che da secoli vive un’esistenza forgiata dalle esigenze di due mondi radicalmente diversi: islam e Cina, Occidente e Oriente.

Alessandro Rippa

(1)  L’approccio staliniano alle politiche etniche, seguito poi anche dalla RPC, prevedeva che una nazione – o nazionalità – potesse essere riconosciuta come tale solo nel caso in cui possedesse le cosiddette «quattro comunanze»: lingua comune, territorio comune, vita economica comune e conformazione psichica comune. Come scrive lo stesso Stalin «solo se tutti i caratteri esistono congiuntamente, si ha una nazione»; Stalin, Opere Complete,Vol. II, Edizioni Rinascita, Roma 1951, p. 336.
(2) Benedict Anderson, Comunità Immaginate (Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, 1983), Manifestolibri, Roma 1996.

Alessandro Rippa

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