Mille volti, un cuore antico

Dall’impero alla Cina comunista

Prima fu l’Impero, poi il confucianesimo, infine la nuova Cina. Secondo l’articolo 4 della Costituzione del 1982: «Le nazionalità della Rpc sono tutte quante uguali. Lo Stato assicura i diritti e gli interessi legittimi di ciascuna minoranza etnica, protegge e sviluppa l’uguaglianza, l’unità, l’aiuto vicendevole tra le nazionalità. È vietato discriminare e opprimere qualsiasi nazionalità (…)». la realtà mostra un paese in cui gli han, il gruppo maggioritario (oltre il 90% della popolazione), sono divenuti forza preponderante in ogni regione. E non sempre in modo pacifico, come dimostrano le rivolte in Tibet e Xinjiang.

La Cina è un respiro ovunque diverso, che avvolge paesaggi tra loro distanti migliaia di chilometri. È composta da mille volti e da un cuore antico: il letto di un fiume che fu fonte di civiltà. Oggi il Fiume giallo è uno specchio desolato di acque inquinate e terre aride. Di un canto nostalgico intonato al «xibei», il Nord-Ovest cinese, dove scorre il vecchio fiume anima pulsante delle prime dinastie tra storia e leggenda; il Nord-Ovest delle rotte carovaniere in arrivo dal centro Asia. Oggi, semplicemente, una delle aree più povere della Cina modea. Come ipotesi di partenza, la Cina potrebbe essere un contenitore di popolazioni ed etnie: 56 stando ai gruppi riconosciuti ufficialmente. Non solo han, tibetani e al limite uiguro; ma anche mancesi, mongoli, kazak, yao, bai, yi, miao, zhuang, mosuo… persino coreani e russi. Montagne altissime ad ovest, deserto e prateria a Nord, neve e ghiacci a Nord-Est, le grandi piane al centro, la fascia costiera e le skylines a Sud-Est, i picchi carsici e le risaie a terrazza del Sud, l’aria dei tropici a Sud-Ovest.
La maggior parte delle volte che sentiamo pronunciare la parola «cinese» in realtà si parla di cinesi han. Vale a dire il gruppo maggioritario, con oltre il 90% della popolazione, dislocato su un territorio insufficiente. Oggi le aree autonome (regioni, prefetture e contee) destinate alle minoranze coprono il 64% del territorio, ma negli anni la penetrazione han si è fatta sempre più possente. Si prenda la Regione autonoma della Mongolia intea, dove i mongoli sono ormai solo il 15% della popolazione.
«Cinese» è una parola che, almeno nelle intenzioni, significa anche tibetano o uiguro. La Cina come concetto è una creazione delle correnti riformiste e rivoluzionarie di fine Ottocento, quando il pensiero tradizionale intriso di confucianesimo si aprì all’idea modea di nazione: uno stato unitario, con un territorio, con dei confini. E con un popolo. Non più sudditi del «Figlio del cielo» costretti nell’angusto spazio di riti e gerarchie, ma nazione che partecipa al potere nel nome dei principi di uguaglianza, cittadinanza e rappresentanza. Era questo il nuovo cittadino cinese che emerse dalla cenere della Rivoluzione del 1911 (si legga la cronistoria), membro di uno stato che rivendicò i confini dell’antico Impero, includendo così un groviglio di popolazioni eterogenee, spesso parlanti lingue e persino con sistemi di scrittura diversi.
Nella retorica nazionalista sarebbe divenuta la «Repubblica dei cinque gruppi» (Wu zu gonghe), sottintendendo i cinque principali gruppi etnici: han, mancese, mongolo, hui (i musulmani cinesi) e tibetani. A sostegno della tesi venivano citati millenari processi di scambi e di reciproca assimilazione tra la maggioranza han e le popolazioni minoritarie, tutte dislocate alla periferia del vecchio Impero. L’ideale era quello di una famiglia, il cui ultimo stadio evolutivo sarebbe stato la «Grande armonia» (Da tong), un ideale dal sapore confuciano. Modeità e tradizione. Per capie la convergenza bisogna ripartire dalle dinamiche di una fase storica ben precisa: l’imperialismo. Nel corso dell’Ottocento, l’Impero cinese fu ridotto ad uno status semi-coloniale, che destinava la gestione delle principali risorse economiche alle Grandi potenze coloniali e lasciava all’imperatore una sovranità nominale, vuota. L’Impero era allo sfascio: tecnicamente arretrato, sfruttato economicamente, umiliato politicamente, militarmente e persino nello spirito, vista la diffusione dell’oppio britannico nei circoli amministrativi, una piaga che mirava dritto al cuore dell’integrità etica professata dal confucianesimo.
Fu allora che venne intrapreso il confronto con la modeità. L’ideale di sviluppo, ancora oggi tanto decantato dalla dirigenza comunista, si impose come mezzo di riscatto per un paese da ricostruire. La decadenza del presente era compensata da un sogno di grandezza da conquistare. Linearismo ed evoluzionismo. Lo strumento per conseguire tutto ciò era la ragione, il razionalismo economico e politico. L’intento di modeizzazione tecnica anticipò quella del pensiero politico, che costituì una rivoluzione ancora più grande, in grado di stravolgere i rapporti tra i cinesi han ed i loro vicini, le minoranze. La questione etnica stava prendendo forma anche in Cina.
Il dogma politico supremo introdotto dal nuovo pensiero fu quello dello stato-nazione moderno, centralizzato, dotato di confini ben definiti e rappresentato da una nazione unitaria. L’essere cinese veniva proposto non solo sul piano politico ma ipotizzato etnicamente, malgrado la varietà culturale. In termini politici, l’autorità centrale fu estesa alle province più lontane dalla capitale come mai era stato rivendicato in epoca imperiale. La maggioranza han, storicamente e quantitativamente dominante, veniva investita dalla retorica nazionalista del ruolo guida in campo politico ed economico. Un fratello maggiore in grado di prendere per mano le arretrate minoranze e rendere grande la madrepatria, queste le parole della propaganda ufficiale. La realtà, inizialmente, fu più complessa: il potere centrale era troppo debole per tradurre nella pratica la sua ambizione nazionalista, ostacolato ad esempio dai signori della guerra disseminati su tutto il territorio cinese. Anche alla periferia della nuova repubblica le istituzioni tradizionali delle minoranze continuavano ad agire in completa autonomia, quando non rivendicavano apertamente l’indipendenza.
Perché la Cina nella sua transizione ad una forma politica modea ha assunto l’aspetto paradossale di un Impero nelle vesti di una nazione? Questione di potere, sete di riscatto dal giogo coloniale, l’obbligo di assimilare le regole del mondo moderno per sopravvivere; ma non solo. Ci fu anche una percezione di sé che, come in tutte le nazioni, ha fatto leva su simboli, miti, storie, valori culturali consolidatisi nel tempo. Una rielaborazione della memoria storica collettiva. Il percorso dell’Impero cinese fu un perfezionamento di una cultura politica secolare, millenaria, capace di guadagnarsi un riconoscimento nello spazio di un continente geografico, dalla Corea al Vietnam; e laddove non fu sempre ben accetta seppe scendere a compromessi con la diversità, dimostrandosi ricettiva e riuscendo a rielaborare «l’altro» in termini familiari.
L’Impero cinese non fu un’unità politica in cui un despota decideva il destino dei suoi sudditi, né il regno di un eroe conquistatore. L’Impero cinese fu equilibrio fra poli distinti: nomadi e contadini, barbari e civilizzati, minoranze e han. Un equilibrio che non escluse guerre e scontri, ma in cui a farla da padrona era una visione in cui ogni soggetto trovava un suo posto; dove ciò che era ritenuto barbaro doveva sì essere civilizzato, ma era comunque parte di un sistema ed accettato al suo interno. È sulla base di questi principi che l’Impero cinese si sviluppò rendendo ufficiale un sistema culturale oggi tradizionalmente associato al confucianesimo. Ma dal punto di vista delle relazioni «geopolitiche» ed inter-etniche si tratta di un qualcosa di più generale rispetto ad un sistema culturale; come un modo di concepire i rapporti con «l’altro» facendo riferimento a valori condivisi.

L’assimilazione delle popolazioni «non han»
È questa una possibile chiave interpretativa per osservare la funzione simbolica della Grande muraglia, che nell’immaginario di un cinese non è una semplice linea di demarcazione tra l’io ed il nemico, ma anche un crocevia e un punto d’incontro, probabilmente inizialmente di scontro, ma che poi permise di includere il diverso e di estendere i limiti della terra, quel «Ciò che è sotto il Cielo» (Tianxia) che rappresentava in epoca imperiale l’idea di Cina. Il mantenimento da parte dell’altro di una certa identità era addirittura funzionale al sistema, poiché visualizzava diversi livelli di penetrazione della civiltà, a seconda della distanza (geografica, culturale) dal Centro, l’Imperatore Figlio del cielo (Tianzi).
Si fa un gran parlare, spesso a ragione, dell’assimilazione cui le popolazioni «non han» furono storicamente sottoposte. Perché l’accettazione del diverso passava per una sua riqualificazione culturale. Gran parte delle minoranze cinesi di oggi mantengono ben poco della loro antica identità etnica. La forza dell’elemento han si manifestò nella riconversione di gruppi più deboli e nella migrazione intensiva dalle piane centrali verso Sud. Ma quelle culture provviste di maggiore personalità poterono coesistere con il sistema ufficiale ed operare all’interno di esso. Si prendano le oasi centrasiatiche dello Xinjiang, le praterie mongole o il Tibet buddhista. Il riconoscimento in realtà era reciproco ed era fondato sulla presenza di una complessa rete di gerarchie sovrapposte, in cui il rito svolgeva una funzione essenziale, evitando che si creassero degli scontri per l’esercizio effettivo tra diverse autorità. Per la storiografia cinese l’imperatore restava il centro politico supremo ed in una certa misura egli poté anche ricevere tale riconoscimento; ciò non toglie che per le altre popolazioni l’autorità imperiale fu soprattutto uno strumento di legittimazione per il proprio potere. Il buddhismo in Tibet non fu solo una religione ma espresse anche un sistema di valori alla base di una distinta cultura politica con un proprio codice simbolico, universalista proprio come l’ordine imperiale. In tempi antichi ci furono guerre tra Tibet ed Impero cinese, ma in ultima analisi si giunse ad un reciproco riconoscimento, in cui l’Imperatore entrò nella simbologia buddhista ed il Dalai Lama, a capo del sistema tradizionale tibetano, divenne parte attiva all’interno del sistema imperiale.
L’idea modea di Cina riprende la condivisione di una cultura politica antica, sottintendendo un contatto – già esistente – tra le popolazioni che componevano l’Impero. Oggi in province come quelle del Sichuan, dello Yunnan, del Guangxi e del Guizhou ci sono regioni dove diverse etnie coesistono ormai da secoli e la cui identità agisce chiaramente su diversi livelli. La memoria dell’epoca imperiale è andata però incontro ad una rielaborazione. Oggi il problema principale in rapporto alla questione etnica è la discriminazione politica, economica, sociale e persino culturale a cui le minoranze economicamente meno sviluppate sono condannate a causa dell’egemonizzazione dell’elemento han. Più che una volontà di sottomissione fu però il risultato di un processo storico: gli han furono il centro della Rivoluzione politica del 1911, nonché gli artefici della modeizzazione tecnica ed economica, il che li pose automaticamente alla guida della nuova Cina, la Cina comunista.

LE MINORANZE NELLE COSTITUZIONI DEL 1954 e del 1982
La Cina comunista ha ricercato la propria legittimità nel riconoscimento ufficiale delle etnie che ne compongono il territorio, attraverso un’opera di catalogazione sul campo durata decenni e che ad oggi ha portato allo scoperto 55 minoranze. I criteri adottati in quest’opera furono tutt’altro che scientifici e spesso l’identificazione etnica di una persona restò un ideale, vuoi per specifici interessi politico-strategici, vuoi per la forza dei processi di integrazione e di assimilazione, che spesso hanno reso difficile la distinzione chiara e netta dell’identità etnica di una persona. L’ultimo conteggio ufficiale (nel 2000) registrava più di 700 mila persone senza etnia, un gruppo di individui spesso unito dalla coscienza di non essere han ma che ignora la propria appartenenza.
La prima Costituzione cinese fu approvata nel 1954. In essa veniva sancito il principio di Stato unitario multietnico (art. 3), garantito attraverso il riconoscimento di uguaglianza tra i gruppi nazionali e dell’autonomia politica per le minoranze. Il riconoscimento della sovranità centrale, cui tutti gli organi amministrativi autonomi erano sottoposti, bilanciava la concessione di autonomia. Lo schema fu ripreso dalla Costituzione del 1982, l’ultima approvata in ordine di tempo, e dalla Legge per l’autonomia regionale nazionale della Repubblica popolare cinese (Rpc) del 1984. Questi due documenti si impegnavano a ribadire la compresenza di un’autorità centrale e di un potere decisionale autonomo nelle zone popolate da minoranze.
È stato osservato che la Costituzione del 1982, complice la svolta politica apportata da Deng Xiaoping, abbia contemplato maggiore apertura nel riconoscimento del particolarismo etnico. Nel dettaglio, veniva assunta una posizione netta contro la discriminazione etnica, si impegnava lo Stato centrale a investire nello sviluppo economico delle zone più arretrate e le minoranze nel mantenimento e nello sviluppo della propria cultura (art. 4). Anche il riconoscimento di autonomia politica andò incontro a una più approfondita formulazione: l’articolo 116 garantiva la libertà di approvare regolamenti locali in base alle esigenze particolari della popolazione o agli orientamenti culturali di una minoranza; gli articoli 117-122 sancivano invece l’autonomia in materia fiscale, culturale, economica, nell’educazione e persino in rapporto all’ordine pubblico locale.
Tuttavia, va notato che la Costituzione ribadiva a più riprese la priorità della funzione del potere centrale, il che avrebbe vanificato qualsiasi provvedimento autonomo se reputato in conflitto con l’interesse nazionale. La precisazione è tanto più evidente oggi: in seguito alle rivolte in Tibet e Xinjiang, la libertà religiosa e culturale è andata incontro a palesi restrizioni, che se giudicabili in parte anti-costituzionali d’altro canto sono ugualmente legittimate dalla Costituzione, che autorizza la limitazione dei poteri di autonomia in caso di minacce all’unità della nazione cinese (art. 4) e sottopone qualunque provvedimento autonomo all’approvazione del Comitato permanente del Congresso nazionale popolare (art. 116).
La politica comunista degli anni Cinquanta si fondò dunque sui principi di autodeterminazione delle etnie (all’interno dei confini politici cinesi) e di uguaglianza tra i gruppi riconosciuti. Ad essi fu concessa la creazione di unità amministrative (regioni, prefetture e contee) autonome su base etnica e regionale. Ma il preconcetto sulle minoranze permase, partendo dalla loro maggiore arretratezza, e l’atteggiamento degli han, che occupavano i maggiori posti al potere, continuò ad essere patealistico e profondamente evoluzionista, scaturendo così nella discriminazione. Oggi il controllo politico ed economico sono problemi reali in quelle regioni, come Tibet e Xinjiang (si legga l’articolo di Tania Di Muzio), dotate di un’identità etnica maggiormente distinta e storicamente autonome dal potere centrale cinese.
Alle tensioni etniche va aggiunta la questione ideologica. In un Paese multietnico come la Cina, l’impostazione marxista della questione nazionale ha avuto notevoli implicazioni pratiche, creando squilibri nelle relazioni tra i vari gruppi etnici. La definizione della società in rapporti di classe e l’ardore rivoluzionario sottovalutarono le profonde radici dei sistemi sociali nelle zone popolate dalle minoranze etniche, malgrado il più delle volte fossero fondati sulla disuguaglianza politica, economica e sociale. All’epoca della guerra civile, la Lunga marcia aveva attraversato molte delle regioni popolate da minoranze, guadagnandosi alcuni consensi grazie alla professione di ideali ugualitaristici. Ma gli iniziali auspici non furono seguiti da un’effettiva compatibilità, e spesso i processi di collettivizzazione vennero percepiti come una deligittimazione di autorità riconosciute dalla popolazione. La situazione fu ancora più tesa in quelle zone, come il Tibet, ove le istituzioni politiche godevano di uguale riconoscimento in ambito religioso. In questo caso la rivoluzione politica e sociale fu anche profanazione e umiliazione del sacro, suscitando le principali resistenze popolari. L’ascesa del radicalismo e la Rivoluzione culturale non fecero che acuire la cesura: la campagna contro i «quattro vecchi» (si jiu: vecchia cultura, vecchio pensiero, vecchie abitudine, vecchie usanze) fu uno degli aspetti principali dei movimenti di massa nelle aree minoritarie e risultò nella distruzione, in molti casi indelebile delle tradizioni culturali locali. Le guardie rosse furono mobilitate per smantellare le «vecchie idee», la «vecchia cultura», i «vecchi costumi» e le «vecchie tradizioni», il che rappresentò una legittimazione della distruzione di un patrimonio incalcolabile nel nome della Rivoluzione, oltre che degli attacchi fisici ad autorità politiche e religiose locali.

COMMERCIALIZZAZIONE DELLE CULTURE 
All’inizio degli anni Ottanta fu introdotta l’epoca della liberalizzazione e della nuova tolleranza culturale, una fase storica della Rpc in cui ci fu un nuovo riconoscimento del pluralismo, se non politico (in particolare soffocato dopo le repressioni di Tian’an men) almeno culturale. L’idea dello sviluppo economico delle minoranze divenne il principale mezzo di legittimazione della nuova dirigenza. Tuttavia non portò i frutti sperati: la rinascita culturale non determinò la rifioritura di un patrimonio seppellito, in gran parte andato perduto, ma somigliò più a una rielaborazione delle tradizioni culturali alla luce di un mondo globalizzato.
Inoltre, l’apertura al turismo ed agli investimenti nazionali ed inteazionali è scaturita spesso nella «commercializzazione delle culture delle minoranze». Il turismo ad esempio ha fatto sì che in molti monasteri tibetani si siano sviluppati dei centri di vendita di oggetti di ispirazione religiosa prodotti su scala industriale e proposti come autentiche reliquie. Nel 2001 la Contea tibetana di Gyalthang (cinese: Zhongdian), allora popolata da 122.000 abitanti, vinse la concorrenza di altre località per assumere il nome di «Shangri-la». Da allora si è tramutata in un groviglio turistico che, negli obiettivi divulgati dall’Ufficio turistico locale, mira a raggiungere nel 2012 un traffico annuo di 5 milioni di turisti (lo spiega l’articolo di Matteo Miavaldi).
Anche lo sviluppo è rimasto per molti versi un ideale: ad un effettivo miglioramento delle infrastrutture fa da contraltare la questione della marginalizzazione: gli han sono spesso all’origine dei progetti di sviluppo nelle regioni minoritarie risultando, di conseguenza, anche i principali beneficiari in termini di ritorno economico, a scapito delle minoranze che sono rimaste legate ai sistemi tradizionali di sussistenza, subendo i processi di urbanizzazione e sviluppo economico.

Mauro Crocenzi

Mauro Crocenzi

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