Un paradiso a rischio di estinzione

Viaggio in un paese pieno di fascino e contraddizioni

Dagli orrori causati dai gas tossici della città di Bhopal alle isole Andamane, passando per città cariche di glorie passate, l’India è un succedersi di contraddizioni: il progresso e la modeità più avanzata contrastano con sacche di grande arretratezza; i sogni di un futuro migliore si scontrano con i rischi di degrado ambientale e di scomparsa di antiche culture.

Sono passati 25 anni dal disastro di Bhopal e solo oggi è arrivata la sentenza, vergognosamente mite, per i colpevoli: due anni di galera per sole 7 persone ritenute responsabili dell’incidente che provocò decine di migliaia di morti, invalidi, ciechi e bimbi nati con malformazioni. La fuoriuscita di 40 tonnellate di gas tossici proveniva da un impianto di produzione di pesticidi della multinazionale americana Union Carbide.

Un italiano a Bhopal
A Bhopal scopro una regione bella, ricca di monumenti storici e artistici, alcuni ancora sconosciuti agli stessi indiani. Vi rimango alcuni giorni e capisco che Bhopal vuole dimenticare: la vita va avanti, nonostante gli orrori vissuti in questi anni.
La città è un importante polo industriale; in albergo incontro un italiano che ci viene sovente per lavoro. Ludovico è un tecnico veneto che, come tanti nostri connazionali, ha portato nel mondo la professionalità e la tecnologia italiana. Ora raccoglie i risultati di un serio impegno. «L’azienda per cui lavoro da tanti anni è di proprietà del governo francese ed è presente in Italia, Brasile, Cina e India – mi spiega, mentre si sta riposando presso la piscina dell’albergo storico sulla collina di Bhopal -. Produciamo interruttori, trasformatori e blindati elettrici, ma qui in India si fanno le porcellane».
Il costo della manodopera è 10 volte più basso che in Italia, ma quello che mi sorprende è che tali prodotti vengono fatti a Bhopal e commercializzati nella stessa India. «Il mercato europeo è scarso, quindi produciamo e vendiamo nei paesi emergenti. Chiaramente la tecnologia è ancora in mano italiana».
Con un diploma di perito, conseguito a San Donà del Piave più di 40 anni fa, Ludovico potrebbe godersi la pensione, ma l’azienda ha ancora bisogno della sua esperienza. Le proposte che ha ricevuto erano molto buone e lui in fondo ama il suo lavoro, anche se è stato sovente testimone dello sfruttamento dei lavoratori. «In India ho visto donne vestite di sari colorati, accompagnate dai loro bambini, lavorare nelle fonderie. E quelle di ghisa sono le peggiori».
Il sogno di Kallebhai
Dopo le visite al complesso buddista di Sanchi, con lo stupa più bello del subcontinente, e alle pitture rupestri di Bimbetka, risalenti fino al Paleolitico, proseguo con degli amici verso nord su strade dissestate. Giungiamo al piccolo villaggio di Udayapur, dove siamo intervistati da fotoreporter indiani, sorpresi di incontrare degli stranieri in un sito fuori dai circuiti turistici.
Ammiriamo il tempio originale e spettacolare in arenaria rossa, colonne e contrafforti cesellati con decorazioni geometriche e figurative, ma dobbiamo ripartire per Chanderi, unico luogo dove è possibile peottare nella foresteria governativa.
Statura piccola, capelli corti e rossi di henné, sempre sorridente, Kallebhai mi racconta la sua vita, in ottimo inglese: «Da bambino ho sofferto la fame. Per dare cena a me e i miei fratelli, mia madre bolliva le foglie che raccoglievo nei campi».
A 13 anni Kallebhai andò a lavorare in una bottega, dove un giorno conobbe alcuni studiosi, incaricati dal governo di esaminare i numerosi monumenti della zona, da secoli in stato di abbandono. Lavorando con gli archeologi imparò l’inglese, la storia e l’arte della regione di Chanderi. Oggi, 20 anni dopo, è guida abilitata dal Ministero dei beni culturali dello stato.
«Un tempo Chanderi era una grande città – mi dice, indicandomi le antiche fortificazioni sulle colline -. Vi regnava la potente dinastia Rajput, fino al 1527, quando fu sconfitta da Babur, capostipite dei Moghul originario dell’Asia Centrale; perché le donne non cadessero in mano nemica, il Raja ordinò la pratica suicida del jauhar».
Oggi, l’antica città regale si presenta come un villaggio di case modeste dove non manca mai un telaio con un ragazzino al lavoro. Ce ne sono più di 3 mila e danno lustro alla città di Chanderi con i suoi tessuti di finissimo cotone e lavorati a mano.
Kallebhai abita la casa degli anziani genitori con i quattro fratelli e le loro famiglie. Come da tradizione, vi è posto anche per due capre e una mucca, che si vedono girare tranquille per le vie fino a sera, quando trovano la via di casa per la mungitura.
Il sogno di Kallebhai sarebbe di avere una casa tutta sua. La figlia ha 14 anni ed è un’abile disegnatrice, il maschio è un birbone di 4 anni. «Con un lavoro saltuario come il mio – spiega – non è facile vivere. La stagione dura qualche mese in inverno e si lavora in media due volte la settimana».
Lasciamo Chanderi e attraversiamo una campagna ferma nel tempo. I lavori agricoli sono fatti senza l’aiuto di macchine, ceci e grano sono sparsi sulla strada affinché i rari camion di passaggio possano sgranarli. I villaggi non hanno la luce elettrica e la sera i lumi a petrolio rischiarano le bancarelle.

Dalla città dei nababbi al Gange
Il treno per Lucknow viaggia con 7 ore di ritardo. La nebbia ha fermato aerei e treni a Delhi. Tutti i collegamenti sono in ritardo, si viaggia a vista, poiché in un solo giorno vi sono stati 6 incidenti sulle linee ferroviarie. Ci arriviamo alle tre del mattino e troviamo la nostra guida Prakash che ci aspetta.
La guida chiama subito un anziano facchino con baffi e capelli bianchi, divisa rossa e sguardo fiero, e lo carica dei nostri bagagli, che lui mette sulla testa uno sull’altro. Prakash nota la mia indignazione e mi tranquillizza: «Costoro sono abituati a reggere fino a 40 kg; hanno sviluppato i muscoli del collo, è il loro mestiere».
Lucknow, capitale del Uttar Pradesh, è la città natale del presidente dello stato federale, una signora potente e corrotta, che si cura solo dei suoi concittadini, lasciando il resto dello stato nel degrado. La città è piacevole, ricca di moschee, monumenti e palazzi dei nababbi, dinastie sciite che governarono la regione dal 17° secolo. Gli architetti e artisti che arricchirono la città di monumenti erano di origine persiana o afghana. Il luogo più emozionante è però il Residency, dove gli inglesi si difesero dall’aggressione dei ribelli durante quella che in India chiamano la prima guerra d’indipendenza e che dagli occidentali è conosciuta come la rivolta dei Sepoy, del 1856.
Varanasi è la città sacra degli induisti. Dal quartiere Cantonment, una volta abitato dagli inglesi del Raj e ora centro alberghiero per turisti, attraversiamo vie intasate da un traffico incredibile di bus, auto e rikshò; quindi ci infiliamo nei luridi vicoli della città antica, tra mucche, cumuli di immondizia, e finalmente raggiungiamo i ghat, le gradinate che scendono sulla riva del Gange, dove hanno luogo abluzioni, cremazioni, offerte e altri rituali induisti.
Oggi le pire sono solo due; ma accanto ai ghat c’è anche un grande foo crematorio. Dovrebbe essere un luogo mistico, ma mi causa un certo turbamento, per cui lo abbandono volentieri per recarmi in periferia, dove nei primi anni dell’800 fu costruita una notevole università, col supporto inglese e il contributo dei principi marajà. Il campus è vasto e ricco di parchi ombrosi. Vi sono numerose facoltà, 130 corsi di laurea e 18 mila studenti.
Swati, Shitka, Cutee e Amrita, studentesse curiose e sorridenti, mi fermano e mi chiedono notizie del mio paese e mi raccontano dei loro studi scientifici e informatici.

Calcutta: casa di Madre Teresa
Ritoo volentieri in questa caotica città, ricca di stimoli e fermenti culturali. Accanto al tempio di Kali, dea dalle quattro braccia, simbolo di distruzione e purificazione, sorge la casa di Madre Teresa. Entro e mi trovo in una vasta sala, dove sono allineati i letti dei malati, assistiti da un gruppo di medici e infermieri, volontari dalla pelle bianca. C’è silenzio e odore di pulito, pareti e pavimenti di cemento, vasche dove anche una suora sta lavando panni insanguinati.
Suor Anila, albanese di Scutari, ci parla sorridente del loro lavoro senza sosta: «Ritoo a casa ogni 4 anni; una volta all’anno abbiamo 8 giorni di ritiro spirituale».
Calcutta è una metropoli dagli aspetti contraddittori. Negozi e locali aprono dopo le dieci, ma fin dalle prime ore del mattino si vedono uomini seminudi che si lavano ai bocchettoni dell’acqua sui larghi marciapiedi; ben presto anche le bancarelle con fornelli sono al lavoro, occupando anche le vie più eleganti. Tè speziato con latte, frittelle di melanzane e patate, una grande varietà di cibo di strada gustoso ed economico.
Il centro vittoriano è ricco di palazzi e monumenti, mentre il quartiere dei librai è vivacissimo e trafficato, con centinaia di librerie affollate.
Percorrendo una via affollata dove anche un vecchio tram riesce a farsi largo tra rikshò, veicoli a motore e pedoni, raggiungo la casa di Tagore, in un quartiere un tempo elegante e residenziale. È il poeta, scrittore e filosofo indiano bengalese più conosciuto in Occidente, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Uno dei 5 Nobel nati a Calcutta.
Il paradiso… a rischio
Dopo 14 anni ritorno nelle Andamane, un rosario di isole nel golfo del Bengala, al largo delle coste birmane e malesi. Ricoperte di foreste di alberi giganteschi, la fauna ricca e varia, un tempo erano abitate solo da aborigeni dalla pelle scura e capelli crespi e da gruppi tribali di origine malese e mongolide.
Al taglio del legname pregiato, iniziato nell’800 e praticato ancora oggi, si sono aggiunte le piattaforme marine delle multinazionali per lo sfruttanmento del petrolio. L’impatto con la nostra «civiltà» ha costretto gli aborigeni ad abbandonare habitat e costumi: nonostante il governo indiano abbia riservato loro alcune isole, sembrano destinati a scomparire.
Anche la capitale Port Blair è molto cambiata: da porto esotico e remoto ha preso l’aspetto di un’affollata città bengalese, per via dei profughi provenienti da Calcutta, Bangladesh e Birmania. Questo perché dopo la spartizione del Bengala orientale nel 1947, quando milioni di fuggiaschi si rifugiarono a Calcutta provocando il collasso della città, il governo indiano decise di portarli in parte nelle isole andamane. Nel territorio selvaggio, privo di strade, acqua e luce, i coloni sopravvissero in condizioni durissime e tagliarono le foreste di preziose essenze, come il padauk, simile al teak, per poter coltivare riso, canna, palma da betel e allevare capre e bufali.
Mentre le isole più remote sono riservate agli aborigeni e altre sono off limits per ragioni militari, Havelock è stata scelta per nuovi insediamenti turistici. Gli abitanti non parlano ancora l’inglese, ma possono contare su qualche piccolo guadagno lavorando nei locali pubblici, nella pesca e come autisti di tuktuk (taxi a tre ruote).
Purtroppo alcune spiagge di Havelock sono discariche all’aperto, ripulite raramente solo nei pressi dei villaggi turistici. Il mare e i coralli hanno perso colore e splendore, restano numerose le tridacne, annegate nella massa corallina ingrigita. I pesci sono belli, ma rari e scappano veloci appena ci si avvicina.
Ho visto galleggiare in mare aperto un isolotto di plastica, un intrico di bottiglie, corde, sacchi,  mentre eravamo diretti a South Button, uno scoglio senza approdi, regno dell’aquila pescatrice delle Andamane e vero paradiso per le immersioni subacquee.
Incontri… vari
Mi tuffo in un mare ricchissimo di vita e colori, con grandi ventagli di madrepore e pesci di barriera. Ho un incontro con un pesce balestra, bello e aggressivo, da cui devo difendermi e fuggire con decisi colpi di pinne. Sono poi circondata da un gigantesco branco di pesci fucilieri gialli che si muovono come se fossero guidati da una musica. Vedo sul fondo un serpente marino, molto velenoso, a strisce gialle e nere, e un polpo scuro, che emette inchiostro e si rifugia nel corallo, guardandomi con un occhio dal fondo della tana. Non è facile provare emozioni altrettanto forti nei mari più belli del mondo.
Originario del nord del Pakistan, di religione sikh, ma senza turbante e senza barba, tagliata non ricorda quando, Andra Singh  ha modi garbati e un buon inglese, con accento americano. È lui che serve in tavola nel ristorantino di Mangit, la nostra guida di Havelock.
«Con la spartizione dell’India nel ‘47 la mia famiglia si rifugiò in Kashmir, dove aveva commerci ben avviati e terreni coltivati a mele», inizia a raccontare Andra. Emigrato negli Usa, ha lavorato per otto anni alla Boeing di Seattle; poi ha voluto girare il mondo e si è fermato qualche anno in Australia. Ritornato nel nord est dell’India, si è impegnato nella difesa dei diritti umani delle popolazioni locali, tribali, dell’Himachal Pradesh. Ora che è approdato ad Havelock riesce a dare un tocco di classe a questa locanda, che Mangit ha ricavato tra la sua capanna e la strada, l’unica che attraversa l’isola.
Qui conosciamo Baman e Roxan giovane coppia di turisti parsi. Nati a Yazd, in Iran, sono riparati a Mumbay con la famiglia durante la rivoluzione khomeinista, ma si recano sovente a trovare i parenti. Mumbay ha una importante comunità parsi, e Baman gestisce una proprietà nel nord del Maharastra, dove si coltiva la sapota, un frutto marrone, originario del Messico.
Ci scambiamo gli indirizzi. Domani partiamo tutti, ritorniamo in continente, a Chennay, per qualche giorno di visite prima del ritorno in Italia.

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti

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