Saharawi: il popolo dimenticato

Viaggio in una nazione che «non c’è»

Una delegazione italiana della Rete Comuni Solidali (Re.Co.Sol.) visita i campi profughi per osservare, ascoltare, capire e … non permetterci di dimenticare.

Sono le tre di notte quando la jeep si ferma nel deserto algerino. Non vedo nulla, i fari illuminano a stento alcune corde che fungono da tiranti di una tenda. Scendiamo confusi, storditi dal viaggio e ci guardiamo attorno senza orientarci. Alì ci informa che siamo arrivati a Aaiuni, a sud di Tindouf, precisamente nella sua «casa», in cui saremo ospitati. Scarichiamo le nostre valigie nella polvere che si alza intorno, mentre qualcuno grida: «Avete visto il cielo?» e tutti col naso in su, senza parole. Il cielo stellato più bello del mondo! Tratteniamo il respiro, mai visto una tale bellezza …
Entrare in un altro
mondo
Senza rendercene pienamente conto, ci troviamo in un altro mondo, in un campo profughi del popolo saharawi, in Algeria, al confine con la Mauritania e il Sahara Occidentale, lo Stato che non c’è, pur se tratteggiato su tutti gli atlanti. Mi chiedevo da ragazzina, quando dovevo studiare l’Africa, cosa volessero dire quelle righe diagonali che coloravano la cartina geografica e ricordo che un’insegnante mi aveva parlato di contese nel definire a quale Stato spettasse di diritto la terra a sud del Marocco. Ora, insieme ad altri 15 compagni di ventura della delegazione italiana di Re.Co.Sol., mi trovo a due passi da quella mappa, una delle terre più amate, sognate, desiderate, impossibili… un mondo sconosciuto ai più, dove siamo venuti per osservare e ascoltare.
Alì, la nostra guida, ci invita ad entrare nella tenda dove sua moglie ha preparato il tè per noi. Così ha inizio la nostra full immersion nel luogo più povero che abbia mai visto, dove i saharawi sono riusciti a ricostruire una società organizzata, collaborativa ed efficiente. Lo stupore di questa dissonanza si coglie sui nostri visi che si affacciano all’interno della tenda, meravigliosa, tutta un tappeto, divani comodi sui tre lati e un tavolino lungo e basso su cui è appoggiato il necessario per il nostro pasto; qui dentro, dove pare che la sabbia del deserto sia lontana, Adì, bellissima ragazza, mamma di un piccolo di sei mesi, avvolta nel suo musata in fantasia rossa, dà inizio al rito che ci accompagnerà per una settimana: su un braciere portatile ha preparato la bevanda che versa nei bicchierini appoggiati sul tipico vassoio arabo. Il primo tè che ci offre è «amaro» come la vita e lascia in bocca un retrogusto da cui prende il nome. Il tempo di assaporarlo e ne arriva un altro, questa volta «dolce» come l’amore, e poi un terzo, l’ultimo, «soave» come la morte.
Con uno spagnolo stentato abbozziamo le prime parole di presentazione e di ringraziamento, ma è più semplice spiegarci a gesti perché la donna e gli autisti che ci hanno accompagnato fin qui conoscono solo l’arabo. A scuola, a partire dalla terza elementare in poi, si impara lo spagnolo, ma molti adulti non lo conoscono.
La nostra prima notte «profuga» trascorre nella semplicità di questa accoglienza, poi i padroni di casa se ne vanno e lasciano la tenda interamente a noi. Qualcuno apre il sacco a pelo e cede al sonno, qualcun altro esce a guardare incantato la volta celeste, avvolto dal buio totale e dal silenzio del Sahara.
Vivere nel deserto
La tenda di Alì sorge al limite del villaggio. Lo scopriamo al mattino, quando usciamo per andare «in bagno». Il deserto è disseminato di casupole e tende che paiono cadute a caso sulla sabbia di questo luogo piatto, ampissimo, giallo come è tutto qui, a perdita d’occhio.
Il villaggio di Aaiuni è composto da sette centri, ciascuno con circa 7.000 persone che vivono in minuscole casette di mattoni di sabbia cotti al sole. Ogni famiglia possiede una costruzione per l’inverno, quando le temperature scendono verso lo zero, una tenda che va meglio d’estate quando si raggiungono i 50/60 gradi, e poi un cubicolo con una turca e un secchio pieno d’acqua che funge da sciacquone.
Sulla soglia di ogni abitazione, un pannello solare, una batteria d’auto, una parabolica. Ecco il necessario per accendere un neon nelle tende alla sera e per riuscire ad avere notizie dal mondo con una radio. Qui non si possono caricare cellulari né batterie delle macchine fotografiche, non si usano rasoi elettrici, nessun elettrodomestico. E qui non c’è nessun lavandino né doccia. L’acqua è portata dalle cistee che arrivano da Tindouf e scaricano nelle taniche di lamiera che il tempo ha arrugginito. Una gomma porta l’acqua in prossimità delle abitazioni, ma tutto viene centellinato.  A 20 minuti dal villaggio esiste un pozzo che pesca a 150 metri di profondità acqua salata. È lo scherzo che il deserto fa a questo popolo che abitava sul mare. Grazie ad un desalinatore donato dalla provincia di Roma si può utilizzare quest’acqua per tentare di coltivare piante medicinali di cui i vecchi sanno ancora servirsi per guarire molte malattie.
Tra le abitazioni si apre un varco che va verso il nulla: è la strada da cui arrivano e partono le jeep in direzione degli altri centri. In realtà la strada non esiste: è solo una traccia che il vento di sabbia copre presto. Eppure gli autisti riescono a condurci dove dobbiamo andare: le scuole, il centro per i disabili, l’ospedale, la casa del vice-governatore. Sono giorni intensi, il tempo è breve e non va sprecato. Noi dobbiamo visitare e conoscere per poter presentare la situazione in Italia al nostro rientro.
Sognano il mare
Ci accorgiamo presto che molte cose sono simboliche per i saharawi, in primis i colori della bandiera: il verde indica la loro terra che si affaccia al mare più pescoso dell’atlantico: El-Aiun, Dakhla, El-Argob erano i nomi delle città costiere in cui essi risiedevano; il nero è l’oppressione subita per l’invasione avvenuta 35 anni fa, il rosso è il sangue versato da molti di loro, il bianco è la pace che desiderano e in cui sperano. Se il loro sogno si avvererà, se riusciranno un giorno a tornare nelle città di un tempo, il verde che ora sta in basso, prenderà posto in alto nella bandiera.
Ma qual è la storia di questo popolo?
Durante la Conferenza di Berlino del 1885 il Sahara Occidentale viene assegnato alla Spagna. Nel 1957 vengono scoperti enormi giacimenti di fosfati nella zona settentrionale della colonia che acquista molto interesse economico da parte di varie potenze. Nel 1965 l’ONU sollecita la Spagna a lasciare il dominio coloniale e ad organizzare un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi, ma la situazione resta immutata per un altro decennio. Nel 1970 il popolo saharawi organizza una grande manifestazione contro il colonialismo che viene repressa nel sangue. Tre anni dopo nasce il Fronte Polisario, il movimento di liberazione saharawi. Tra il 1974 e il 1975 finalmente la Spagna decide per il referendum, ma subito il Marocco e la Mauritania annunciano un’opposizione con qualunque mezzo. Così, vista la forte pressione dei due Stati vicini, la Spagna rinuncia all’idea.
Nell’autunno del ’75 il Marocco annuncia una marcia di 350.000 uomini volontari verso nuove terre da coltivare: la marcia verde, che dovrebbe essere pacifica, in realtà si rivela una vera e propria invasione delle regioni in cui vivono i saharawi. La Spagna cede l’amministrazione del nord del paese al Marocco e il sud alla Mauritania in cambio di favori economici. Così, mentre l’esercito e i civili spagnoli si ritirano dal Sahara Occidentale, il fronte marocchino e quello mauritano entrano nella regione per prendee possesso.
Per i saharawi si aprono due possibilità: restare sotto questi nuovi dominatori che non garantiscono nessun diritto, li allontanano dalle proprie abitazioni costringendoli ai lavori più umili, li considerano cittadini di serie B, oppure scegliere l’esodo verso l’unico sbocco possibile: l’Algeria. Colonne di fuggiaschi partono dalle terre invase verso quello Stato. Alcuni si fermano ancora nel Sahara Occidentale, dentro i propri confini, e organizzano i primi campi profughi, ma nel 1976 il Marocco li bombarda con napalm e fosforo.
Il Fronte Polisario e il Consiglio Nazionale del Saharawi velocemente concludono i trasferimenti dei saharawi a sud di Tindouf, in Algeria, nel deserto di pietra, luogo ostile e difficile dove vengono costruiti gli accampamenti per 300.000 profughi. Viene proclamata la R.A.S.D. (Repubblica Araba Saharawi Democratica) che ottiene il riconoscimento da parte di più di 70 Paesi. Nel Sahara Occidentale il Fronte Polisario inizia una dura guerriglia di resistenza. Nel 1979 la Mauritania ritira le proprie truppe, ma il territorio viene subito occupato dal Marocco con l’appoggio di Spagna, Francia e Stati Uniti.
Nel 1980 il Fronte libera diverse zone dall’occupazione del Marocco che risponde edificando una muraglia fortificata, minata ed elettrificata lunga 2.500 chilometri in cui racchiude i territori occupati. A ovest del muro, nella zona costiera del Sahara occidentale inizia una massiccia colonizzazione: molte famiglie marocchine sono invitate a trasferirsi in queste zone in cambio di agevolazioni sociali e fiscali; i saharawi iniziano a denunciare la pulizia etnica del loro popolo da parte degli invasori. Fuori dal muro la guerra continua. Nel 1991 l’Onu riesce ad imporre il cessate il fuoco e l’organizzazione di un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi. Ancora una volta però il Marocco boicotta in ogni modo la preparazione del referendum, continuando le azioni militari e affermando l’obbligatorietà di includere tra i votanti i coloni marocchini. Così la consultazione viene rimandata e ancora oggi, a distanza di 19 anni, nulla è accaduto. L’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco continua a non essere riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Organizzare da zero
Ci sono profughi e profughi: quelli che aspettano, quelli che sognano e a poco a poco si deprimono, quelli che si arrabbiano col mondo, quelli che perdono la propria identità e provano a ritrovarsi in un’altra, …
Poi ci sono i saharawi che, nonostante sia passato così tanto tempo – ben 35 anni di esilio nel deserto di Tindouf -, non smettono di impegnarsi e lottare per riavere ciò che spetta loro di diritto. Il Fronte Polisario ha accettato tutte le risoluzioni Onu, il cessate il fuoco e la liberazione dei prigionieri, ma la vita del suo popolo si svolge comunque ancora in estrema povertà, sollevata solo dagli aiuti dell’ACNHUR e di molte associazioni europee (anche italiane) che li sostengono. I saharawi si sono rimboccati le maniche, costruendo una comunità organizzata secondo principi collettivistici e solidaristici che sono un esempio per tutti noi: gli insegnanti, gli infermieri, i medici, … tutti i ruoli sociali e politici sono volontari, non stipendiati.
Visitiamo le scuole, dall’infanzia alle superiori. è il giorno degli esami per gli allievi della primaria e per i più grandi: serietà assoluta, banchi separati, insegnanti in guardia. Poi suona l’intervallo, spuntano sorrisi e presentazioni nel cortile polveroso dove i più piccoli corrono e giocano, divorando pane e marmellata proprio come in tutti i paesi del mondo. Nonostante le condizioni precarie, nonostante il tetto dell’asilo sia mezzo sfondato e non ci siano libri per tutti e la polvere intasi ibanchi, gli abiti e i vecchi computer su cui le ragazze provano i primi rudimenti dell’informatica, non c’è un minore in tutto il campo profughi che non vada a scuola. Pensare che gli insegnanti non percepiscono alcuna retribuzione adeguata, se non un compenso simbolico di 50 euro al mese.
Anche l’ospedale è gestito volontariamente: «Sarebbero necessari incentivi economici per gli infermieri – dice il vice-governatore, quando gli chiediamo quali siano le necessità più impellenti – non è facile dedicare quotidianamente tempo ai malati, senza un ritorno economico sufficiente per vivere un po’ meglio» Non è l’unica richiesta che ci viene presentata: «Qui manca tutto, ma sicuramente l’acqua è alla base di qualunque sostentamento. Le cistee sono arrugginite, l’acqua si ossida e non è buona. Per voi ospiti abbiamo cucinato utilizzando acqua minerale imbottigliata, ma noi usiamo l’acqua delle cistee e molti hanno problemi intestinali». Lo conferma il pediatra che è con noi e nelle pause tra uno spostamento e l’altro nei villaggi, visita i bambini del campo: la maggioranza ha problemi dovuti all’acqua e alla sabbia del deserto che il vento porta ovunque, anche nei polmoni.
«Servirebbero serbatorni in materiale non ossidabile per ogni famiglia. Ci sono 4.600 famiglie nei campi. Ogni serbatornio costa 150 € circa» – aveva concluso il governatore. Ma servirebbe anche un ambulatorio permanente per il controllo sanitario dei bambini, provvisto di medicinali di base. E biancheria lavabile per l’ospedale e materiale scolastico e una nuova scuola matea più adeguata e sicura…
È incredibile come qui, dove servirebbe tutto, si riescano a definire le priorità: al primo posto acqua, sanità e scuola. È la lezione che ci lasciano i saharawi. Pochi giorni che ci insegnano molto: a guardare nel deserto riconoscendo la vita, il coraggio, la costanza e la speranza; a stabilire priorità dove manca tutto. Una bella dimostrazione per noi. Anche i nostri politici avrebbero molto da imparare.

Di Grazia Liprandi

Grazia Liprandi

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