Babele o profezia?

Chiesa e chiese in Terra santa

A Gerusalemme sono presenti 13 chiese cristiane, con culture, lingue, credi, riti, leggi, tradizioni proprie. Una varietà che risale alle origini, ma che nei secoli è diventata divisione, con conseguenti tensioni
e conflitti. Eppure oggi più che mai i cristiani della Terra santa si sentono uniti in un ricco mosaico di fede e di vita, destinato a diventare un esempio per tutte le chiese del mondo.

Il primo impatto è stato scioccante per non dire scandaloso. Dopo ore di fila riesco a sfiorare la roccia del Calvario, quando un monaco scorbutico mi sollecita ad allontanarmi; nell’edicola del Santo Sepolcro è anche peggio: il monaco assomiglia più a un buttafuori che al custode del luogo sacro. Per non parlare delle celebrazioni religiose delle diverse confessioni: riti e processioni che si susseguono con ritmo incalzante, con canti e incensi in abbondanza, ma scarsa devozione, almeno in apparenza.
Tale freddezza rituale è frutto delle tensioni esistenti tra le differenti chiese che hanno il controllo della basilica o il diritto di officiarvi: devono rispettare con scrupolo tempi e luoghi loro assegnati dalla consuetudine; la minima invasione di tempo o di campo può finire in risse furibonde.
Tali tensioni hanno origini storiche lontane e si coagulano per futili motivi nella gestione del luogo santo, regolata dal cosiddetto Status quo (vedi p. 32) fuori dal tempio, la diversità tra le chiese appare piuttosto come un dono per la chiesa universale.
In principio… era la diversità
A Gerusalemme e in Terra santa esistono ben 13 confessioni cristiane differenti e separate: tutte riconoscono la città santa come loro madre, ma faticano a riconoscersi sorelle. Da dove derivano tante differenze?
Il giorno stesso di pentecoste, fra i tre mila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua (Atti 2,5). Durante l’era apostolica la chiesa crebbe in pluralità di modi d’intendere riti e comunione, nell’unica chiesa fatta di cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo.
La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la diffusione del vangelo in tutte le direzioni nel mondo allora conosciuto e la fondazione di nuove comunità o chiese locali, che si svilupparono in differenti aree geografiche e attorno a importanti centri amministrativi e culturali, sotto la guida di un vescovo. Alle chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità sulle altre chiese. Cinque in particolare, chiamati patriarcati,   Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme (pentarchia), costituirono i vertici  e punto di riferimento, attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di fuori dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
Ogni chiesa locale si sviluppò con caratteristiche proprie di lingua, liturgia, teologia, diritto canonico, spiritualità, conservando sempre la comunione e l’unità di fede, riconoscendosi parte dell’unica chiesa di Cristo. Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. 
Poi le divisioni 
L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie. I primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano) furono accettate da tutte le chiese. Non così i concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451).
A Efeso fu condannato il nestorianesimo, che sosteneva un’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, negando a Maria l’appellativo di «madre di Dio» (Theotókos), ritenendola genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Tale concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano, in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu condannata Eutiche: affermava che Cristo ha solo la natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena.
In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
A partire dal IX secolo, con l’evangelizzazione dei popoli slavi, per opera dei santi Cirillo e Metodio e con il battesimo della Rus’ nel 988, furono stabilite altre chiese ortodosse nell’Europa orientale. Queste rimasero in comunione con la chiesa di Roma o latina fino al 1054, quando cioè, dopo un progressivo e reciproco estraneamento e per motivi politici e teologici, le chiese di Bisanzio e di Roma si scomunicarono a vicenda, trascinando nello scisma anche le chiese dell’Europa orientale.
Cinque secoli dopo, la cosiddetta riforma protestante provocò lacerazioni e divisioni anche nella chiesa d’Occidente, con la cosiddetta riforma protestante, con conseguenze indirette anche sulle chiese dell’Est.
Vari missionari inviati nelle chiese orientali riuscirono a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma, dando origine a «chiese cattoliche orientali» (uniati): chiesa caldea (1552), cattolici ucraini (1595-96), chiesa cattolica siro-malabarica (1599), cattolici siriani (1662), greco-cattolici o melkiti (1724), cattolici armeni (1740), cattolici copti (1895), chiesa cattolica siro-malankara (1930) cattolici etiopici (1961).
Le chiese… pellegrine 
La chiesa di Gerusalemme, inizialmente formata da fedeli di origine, lingua e cultura ebraica, greca e romana, per oltre tre secoli rimase una minoranza nella società, finché, sull’esempio di sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la devozione verso i luoghi sacri cominciò ad attirare pellegrini di tutte le nazioni: bizantini, armeni, siriani, georgiani, latini; ognuna cercò di organizzare le strutture di accoglienza materiale e spirituale per i propri pellegrini, dando origine a presenze cristiane di differenti riti, lingue, culture. Tuttavia, durante i primi secoli la chiesa di Gerusalemme era unita attorno a un solo vescovo, che aveva giurisdizione anche sui cristiani di origine straniera che venivano e vivevano nella città santa.
Nel V secolo, però, le divisioni provocate dalle controversie cristologiche si ripercossero anche nelle chiese «pellegrine» stabilitesi a Gerusalemme: anche qui le diversità si tradussero in divisioni.
La conquista islamica provocò una graduale arabizzazione e scristianizzazione del paese. Un largo settore della popolazione passò all’islam per evitare vessazioni di indole sociale e fiscale. Il patriarca della comunità cristiana, assai ridotta e povera, cercò appoggio nella chiesa più forte di Bisanzio; quando questa consumò lo scisma con Roma (1054), anche le chiese di Gerusalemme la seguirono.
Nell’epoca crociata (1099-1291), con l’istituzione del patriarcato latino di Gerusalemme la maggioranza cristiana fu attratta nell’orbita romana, ma con la riconquista della città santa da parte del Saladino il patriarca latino fu costretto a fuggire e con la caduta del Regno latino furono espulse tutte le congregazioni religiose occidentali. La presenza cattolica fu continuata dai frati minori, che nel 1336 ottennero di stabilirsi attorno ai luoghi santi: nasceva la Custodia di Terra santa. Da allora fino al 1847, quando fu ristabilito il patriarcato latino, i francescani furono responsabili del lento ritorno di alcuni cristiani all’unità con Roma.
Il passaggio della Palestina dal dominio dei mamelucchi all’impero turco ottomano (1517) segnò la rinascita dell’influenza degli ortodossi a spese dei latini. Non passò un secolo che, favoriti dai vari sultani,  gli ortodossi cominciarono a rivendicare diritti di proprietà sui luoghi santi, sottraendoli con la forza o con l’inganno ai francescani. Questi, per difendere i propri diritti, facevano appello alle potenze occidentali, finché nel secolo XIX la questione dei luoghi santi divenne un caso politico specie tra Francia e Russia: la prima assunse l’esclusiva protezione dei cattolici; la Russia quella dei cristiani orientali. La pressione delle potenze europee sul sultano ottomano ebbe come risultato il decreto del 1852, che fissava i diritti e proprietà attorno ai luoghi santi, confermando lo Status quo, cioè la situazione esistente prima del 1757.
Nel frattempo, molti missionari occidentali si riversarono nella Terra santa e promossero la creazione di nuove comunità cattoliche e protestanti con relative istituzioni gerarchiche. Nel 1754 fu creata l’archidiocesi greco-cattolica di Galilea; nel 1838 fu eretto il vicariato patriarcale greco-cattolico a Gerusalemme; nel 1842 si stabilì a Gerusalemme il vescovo anglicano-luterano; nel 1847 fu ristabilito il patriarcato latino.
Evviva la differenza
Oggi i cristiani in Israele e Territori palestinesi sono circa 180 mila: 100 mila cattolici (50 mila melkiti, 41 mila latini, 8 mila maroniti, un migliaio di altri riti), 70 mila greco-ortodossi e altri 5 mila ortodossi orientali; 5 mila tra anglicani e protestanti. Durante l’ultimo secolo si sono aggiunte nuove realtà, non sempre quantificabili: cattolici di lingua ebraica, assemblee di ebrei messianici, lavoratori migranti, cristiani dall’ex Unione Sovietica, senza contare i milioni di pellegrini da ogni parte del mondo che affollano i luoghi santi.
Ne risulta quindi un ricco e complesso mosaico di chiese, ognuna delle quali con la propria storia, teologia, spiritualità, lingua, riti, tradizioni… Tale pluralità non pregiudica l’unità, ma arricchisce la chiesa universale; anzi, essa offre l’ispirazione per affrontare alcune urgenze ancora attualissime, come il problema dell’inculturazione del vangelo e il rifiuto di ogni tentazione di fondamentalismo e integralismo.
La chiesa di Gerusalemme rimane punto di riferimento, profezia perenne per la chiesa universale e per tutte le chiese locali. Teologicamente e organizzativamente la comunità dell’età apostolica rimane il modello della chiesa di Cristo, al quale si richiamano tutti i cristiani che, in ogni tempo, hanno sentito il bisogno di rinnovarsi spiritualmente. Anche negli atti concreti con cui ha saputo superare le iniziali tensioni e difficoltà intee, la prima chiesa rimane un modello e punto di riferimento per conservare anche oggi l’unità nella diversità.
In un’epoca in cui la globalizzazione rischia di essere confusa con l’uniformità, le chiese di Gerusalemme sono un richiamo a guardare alle origini, quando l’unica verità, che è Gesù Cristo, fu accolta da culture diverse e narrata, celebrata, pensata in modi differenti, nella teologia, liturgia, spiritualità, diritto… Tali espressioni non furono elaborate da un unico centro, ma fu il risultato dell’incontro del vangelo con le situazioni concrete dei singoli popoli. Per questo le chiese di Gerusalemme sono motivo di ispirazione, oggi, per l’attività missionaria della chiesa, nel fare discepoli di Cristo i popoli e le culture a cui è inviata.
Laboratorio di dialogo
Intanto le diversità, che attraverso i secoli sono diventate separazioni, divisioni e competizioni, rimangono quasi intatte nella chiesa di Gerusalemme, minandone la credibilità della testimonianza e facendole assomigliare alla biblica Babele. Tuttavia, al di là delle apparenze, oggi Gerusalemme è un laboratorio di dialogo ecumenico e interreligioso. I cristiani in Terra santa sono impegnati in incontri di dialogo a livello formale e istituzionale e altre iniziative di vario genere per camminare insieme verso l’unità. Per raggiungere tale meta ognuno è esortato a restare fedele alla chiesa in cui Dio gli ha dato di vivere e a restare al tempo stesso aperto alle altre chiese.
Il cammino del dialogo ecumenico, iniziato nel 1964 con l’abbraccio in Terra santa tra papa Paolo VI e il patriarca ortodosso Atenagora, è continuato tra ostacoli ereditati dalla storia e innumerevoli difficoltà provenienti dalla situazione politica, di violenza e oppressione. Ma proprio tale situazione di conflitto ha contribuito alla coesione tra le chiese. Unite dalle stesse prove, si sono riavvicinate le une alle altre per ascoltare e rispondere agli appelli e alle sofferenze delle società in cui sono chiamate a vivere e operare; e per rendere più forte la loro voce contro le ingiustizie.
Tra le iniziative prese in comune dai capi delle chiese va segnalato il memorandum comune sul significato di Gerusalemme (1994); l’apertura del giubileo del 2000; l’accoglienza di Giovanni Paolo II (2000) e di Benedetto XVI (2009); la creazione del Jerusalem Inter-Church Center (Jic, Centro interecclesiale di Gerusalemme). L’ultimo esempio è il «Documento Kairos Palestina», pubblicato lo scorso dicembre (vedi riquadro p. 30).
Ponte di pace e riconciliazione
Nel 1948 i cristiani costituivano il 20% della popolazione palestinese; oggi, la percentuale è scesa all’1,8%. I cristiani sono una minoranza schiacciata tra i due colossi: ebrei e musulmani. Il dialogo interreligioso è un’altra dimensione essenziale nella vita della chiesa, soprattutto con l’islam. La situazione di conflitto contribuisce ad avvicinare i fedeli di queste due religioni, anche se una certa propaganda cerca di fare risaltare un’ipotetica persecuzione islamica contro i cristiani.
Nulla di tutto questo, almeno in Palestina. Anche in fatto di dialogo interreligioso, le chiese presenti nella terra di Gesù sono un esempio per le comunità cristiane che vivono nel mondo in situazioni simili di minoranza religiosa, con conseguenti tensioni e conflitti; soprattutto costituiscono una sconfessione di quanti predicano e praticano il «conflitto di civiltà».
Naturalmente il dialogo è esteso anche all’ebraismo. Pur essendo minoranza, i cristiani hanno un ruolo importante da giocare nel conflitto arabo-israeliano. Avendo essi in comune con i giudei i valori biblici e con i musulmani la lingua araba, possono essere il ponte che permette la riconciliazione. Tanto più che, come afferma un professore dell’università di Betlemme, «senza i cristiani lo scontro tra ebrei e musulmani sarebbe molto più forte».
In tale ruolo, la chiesa continua a ricordare al mondo intero che quella in corso non è una guerra di religione, ma una resistenza in difesa dei diritti umani fondamentali. E per resistere i cristiani chiedono la solidarietà e corresponsabilità di tutte le chiese del mondo verso la chiesa madre: dalla pace e riconciliazione di Gerusalemme dipende il futuro del Medio Oriente.
Le chiese cristiane in Palestina hanno bisogno di sostegno morale e materiale per resistere anche a una forte tentazione: quella di emigrare. La Terra santa rischia di diventare un museo cristiano senza pietre viventi. E cosa sarebbe la terra di Cristo senza cristiani?

Di Benedetto Bellesi

Il documento Kairos Palestina

pace subito
 
P orre fine all’occupazione dei territori palestinesi e al boicottaggio che strangola l’economia della Palestina, riducendo in miseria la popolazione; eliminare il muro di separazione che sigilla la barriera fra i due popoli, rinegoziare con serietà e chiarezza per costruire la pace nella regione: sono i punti principali di un appello firmato e diffuso, in vista del natale 2009, da una quindicina di leader cristiani, fra i quali il patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah, il vescovo luterano Munib Younan, il patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, Theodosios Atallah Hanna.
L’appello è stato intitolato «Documento Kairos Palestina», proprio perché insiste sul «momento di grazia, tempo favorevole» (kairos), in cui è possibile riprendere in mano con coscienza la questione dell’eterno conflitto fra i popoli di Terra santa. Grazie allo sforzo di buona volontà della comunità internazionale, dei leader politici della regione e delle chiese nel mondo, «la pace è possibile» ed è la sola speranza per il futuro della Terra santa. Ma essa impone uno sforzo concreto da parte di tutti, non solo «parole vuote», risuonate per troppo tempo senza cambiare nulla nella situazione reale.

I firmatari dell’appello denunciano «l’occupazione come peccato contro Dio e l’umanità» e, fra i problemi più scottanti, «il muro di separazione israeliano eretto in territorio palestinese, blocco di Gaza, colonie israeliane che sorgono su terreni palestinesi, umiliazioni subite ai posti di blocco militari, restrizioni religiose e accessi controllati ai luoghi santi, la piaga dei rifugiati che attendono il loro diritto al ritorno, prigionieri detenuti in Israele e paralisi della comunità internazionale di fronte a questa tragedia».
Tuttavia, afferma il testo, «Dio ci ha creato per vivere in pace. La nostra terra ha una missione universale e la promessa della terra non è mai stato un programma politico, ma piuttosto preludio alla salvezza universale».
Inoltre, si fa appello alle chiese di tutto il mondo perché «dicano una parola di verità e prendano posizione riguardo all’occupazione israeliana del territorio palestinese», affinché «venga applicato contro Israele un sistema di sanzioni economiche e boicottaggio», il quale «non rappresenta una vendetta ma piuttosto un’azione seria al fine di raggiungere una pace giusta e definitiva». 
(Fides)

Ttutta colpa dello «status quo»

Durante l’occupazione di Gerusalemme da parte dei crociati, i cristiani di rito latino ebbero il predominio sui luoghi, senza affatto escludere gli orientali. Quando il Saladino conquistò la città santa (1187), confiscò tutte le chiese cristiane; alcune le trasformò in moschee, altre le lasciò ai cristiani, anche per lucrare sulle offerte dei pellegrini. L’entrata del Santo Sepolcro, invece, fu affidata a due famiglie musulmane: ai Joudeh fu data la chiave dell’unico portale rimasto funzionale e ai Nusseibeh il privilegio di chiuderlo e aprirlo.
I governi successivi concedevano i diritti a suon di mazzette. Grazie alle somme sborsate dai sovrani di Napoli e Sicilia, i francescani ottennero i diritti di abitare e ufficiare nella basilica del Santo Sepolcro e costruire un convento  sul monte Sion. Dal 1336 al 1662 essi furono gli unici padroni del Cenacolo, Santo Sepolcro, Calvario, Tomba della Vergine, Mangiatornia di Betlemme. 
Poi i turchi ottomani sottrassero la Palestina ai mamelucchi d’Egitto (1517) e i sultani cominciarono a favorire gli ortodossi, loro sudditi. I monaci greci passarono all’offensiva, rivendicando la chiesa di Betlemme e poi quella della risurrezione: con tangenti e documenti falsi ottennero il controllo della cappella del Calvario e della pietra dell’unzione (1633), poi il possesso esclusivo dell’edicola del Santo Sepolcro (1675). Di fronte a tali scippi i papi sollecitarono le potenze cristiane perché facessero pressione sulla Sublime Porta: un decreto del 1690, dichiarava i francescani legittimi proprietari dei santuari e restituiva loro gli antichi diritti.
Per più di un secolo e mezzo, mentre attorno ai luoghi sacri crescevano interferenze e pressioni delle potenze egemoni, dentro le mura sacre la lotta per il controllo si risolveva spesso a cazzotti e bastonate. L’episodio più grave avvenne nel 1756, con l’irruzione vandalica nella basilica e l’assalto al convento francescano. Un altro decreto del sultano concesse ai greci la comproprietà con i latini del Santo Sepolcro e la proprietà della basilica di Betlemme e della Tomba della Vergine. 
Nel XIX secolo la questione dei luoghi sacri divenne un caso politico soprattutto tra Francia e Russia: la prima si assunse la protezione dei cattolici, la Russia quella degli orientali. Le lotte «fratee» continuarono, usando tutti i modi per estromettersi a vicenda. Nel 1847 i greci rimossero dalla grotta di Betlemme la stella d’argento, con la scritta latina che attestava la proprietà latina del luogo. Francia e Russia costrinsero la Turchia, nel 1852, a firmare l’ennesimo decreto che ripristinava la situazione (status quo) sui diritti di proprietà e accesso all’interno del Santo Sepolcro, della basilica della Natività e della tomba di Maria; situazione risalente al 1767, tenendo conto di ulteriori diritti acquisiti da altre comunità cristiane.

Il documento assegna la basilica del Santo Sepolcro quasi interamente ai greci ortodossi, ma le parti essenziali sono in condominio con cattolici (rappresentati dai frati minori) e armeni, che a tuo si susseguono, notte e giorno, con le rispettive cerimonie liturgiche. Queste tre comunità (latina, greca, armena) hanno pure residenza effettiva nella basilica, ognuna con proprie abitazioni e cappelle. Altre chiese, come siro-giacobiti e ortodossi etiopi, godono di alcune concessioni per svolgere le loro funzioni nelle grandi solennità, mentre i copti posseggono alcune stanze e una cappella dietro l’edicola del Santo Sepolcro, col diritto di officiarvi solo alcuni giorni.  
Lo Status quo determina pure orari e tempi di funzioni, percorsi di processioni e modo di realizzarle con canti e incensi… I diritti di ogni comunità sono stabiliti dall’uso di lampade, addobbi, quadri, candelieri. Di importanza cruciale sono i diritti di pulizia, manutenzione, restauro: chi ripara il tetto o il muro di una cappella ne acquista il possesso esclusivo; appendere o rimuovere una lampada, un quadro da un pilastro o un muro… implica il riconoscimento di possesso su tale pilastro o muro. Ma lo Status quo stabilisce un principio draconiano: senza comune accordo, niente può essere cambiato o innovato, sia nel possesso della basilica che nell’esercizio del culto.

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ale situazione oggi è considerata un dato di fatto acquisito, ma rimane sempre difficile ridurre al minimo i disagi della coabitazione. Le comunità si incontrano periodicamente per decidere riparazioni e restauri della basilica e cercare una migliore distribuzione delle differenti liturgie, ma le trattative sono lunghe ed estenuanti. I monaci etiopi e copti, per esempio, discutono da decenni su chi spetti restaurare un edificio che minaccia di cadere sul tetto del santuario; migliaia di fedeli passano per una sola porta, ma tra le sei diverse confessioni non c’è modo di accordarsi per aprire un’uscita di sicurezza.
Bisogna tenere presente che per queste comunità ogni piccola cosa assume un significato simbolico. Tuttavia il vento del dialogo ecumenico ha cominciato a soffiare anche dentro queste mura, stemperando i conflitti secolari: non esiste più, almeno da parte cattolica, l’accusa di «usurpazione» dei luoghi santi. Frati, pope, monaci armeni, abuna etiopici ed egiziani, incrociandosi nella penombra del luogo, si scambiano perfino sobri cenni di saluto. Anzi, la pluriforme presenza cristiana su tali luoghi è ritenuta una ricchezza preziosa da salvare e un diritto irrinunciabile.
Rimane ancora il fatto innegabile che basta molto poco, come togliere una ragnatela nel posto altrui, per scatenare risse e scazzottate. Eppure, guardando il lato positivo, reazioni del genere sono segni inequivocabili di attaccamento e amore alle memorie tangibili del nostro Salvatore. E anche Lui, di fronte a tali scene, non si scandalizzerebbe più di tanto, ma si farebbe una tacita risata.

Benedetto Bellesi

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