Sogni in catene

Vivere a Joaquim Gomes (Alagoas, Brasile)

Quindici giovani del gruppo «Amici di Joaquim Gomes» di Piossasco (To) hanno speso le loro vacanze aiutando le suore di San Giuseppe di Pinerolo a realizzare i loro progetti nella cittadina brasiliana: un’esperienza indimenticabile, a contatto con situazioni disperate e nell’impegno di solidarietà nella lotta silenziosa per rivendicare  diritti umani e dignità.

La BR101, nel tratto in cui attraversa lo stato di Alagoas, si riduce ad appena due corsie di marcia che, nella stagione delle piogge, si tempestano di buche enormi sotto il continuo passaggio dei lunghi camion che, lungo questa strada di 4.551 chilometri, attraversano il Brasile da nord a sud.
Percorriamo questa interminabile pista di curve, che si insinuano tra le colline, e arriviamo al bivio che ci porterà finalmente alla cittadina di Joaquim Gomes. A indicarci l’arrivo è un enorme cartello su cui, anche da lontano, si può leggere a chiare lettere il nome del paese e, appena sotto, la scritta: «Construindo con Ela», ossia «Costruendo con Lei».
Quel «Lei» è l’autocelebrazione di Cristina Brandão, donna senza scrupoli, arrivata all’improvviso nel paese pochi mesi prima delle elezioni amministrative e che ha trasformato il suo bagaglio di denaro in una scontata vittoria. Questa le ha permesso di acquistare, nel vero senso del termine, il titolo di sindaco, che da queste parti è, più che un incarico, un finanziamento con introiti assicurati, tramite un sistema di corruzioni e di deviazione di denaro pubblico conosciuto da tutti ma diffusamente impunito.
Joaquim Gomes sarà la nostra casa per più di un mese e sarà il nostro «campo base» nel viaggio tra le infinite realtà di contrasti, di ingiustizie e di diritti negati in questo Brasile in cui, ogni volta di più, aumenta il divario tra ricco e povero, tra progresso e arretramento, tra tecnologie e possibilità di accedere ad esse.
Le guide che ci accompagneranno nel capire questo mondo saranno un gruppo di donne che in questo paese ci vivono da anni e che da anni lottano per affermare la giustizia, i diritti e la dignità di ogni persona, tramite un’instancabile azione di rivendicazione e di promozione umana e l’annuncio del messaggio di speranza del vangelo. Sono le suore di San Giuseppe di Pinerolo, in parte missionarie italiane e, ormai in maggioranza, giovani e determinate suore brasiliane. Il loro lavoro è quello di cercare di rimediare alle carenze che nel paese colpiscono la parte più debole della popolazione; una popolazione che attualmente risulta composta dalle donne, da qualche anziano e da moltissimi bambini.

Di uomini a Joaquim Gomes se ne vedono davvero pochi; la maggioranza di essi, infatti, è costretta a emigrare in altre regioni dove la manodopera è più richiesta, finendo in uno stato di semi schiavitù, in lontane ed estese piantagioni di canna da zucchero, da cui, in molti casi, non riescono più a tornare, lasciando così alla propria sorte moglie e figli.
Nel solo anno 2007 da Joaquim Gomes sono partiti più di 3 mila uomini, su una popolazione di 22 mila abitanti, in cerca di un lavoro che permettesse loro di far sopravvivere le proprie famiglie; ma quasi sempre sono diventati vittime del meccanismo messo in atto dai fazendeiros, che, tramite esperti intermediari, riescono a incastrare migliaia di uomini rendendoli debitori dei loro datori di lavoro ancora prima di entrare in servizio. La strategia è molto semplice: a ogni lavoratore viene anticipato il denaro per i costi del viaggio, e per pagarsi il vitto, gli attrezzi di lavoro e il proprio sostentamento; a nessuno è permesso lasciare il posto di lavoro fino a quando non avrà ripianato il debito col padrone. Un impegno quasi impossibile, con un lavoro sottopagato. Anche se qualcuno riesce nell’impresa, rimane ancora il problema di acquistare il biglietto del viaggio di ritorno, che permetta loro di percorrere i tre giorni di pullman che separano il Mato Grosso (terra solitamente di destinazione dei lavoratori stagionali) dalle loro famiglie in Alagoas.

In assenza degli uomini, che raramente riescono a inviare denaro alle proprie famiglie, sono le donne che lottano per la sopravvivenza dei loro figli, portando avanti la casa e provvedendo alle loro necessità. Sono donne forti e provate dalla fatica giornaliera.
Fin dalle cinque del mattino le sentiamo passare per le vie, fuori dalla porta della casa che ci ospita; le vediamo scendere al fiume; in testa portano enormi bacinelle con i vestiti da lavare, in mano qualche pentola e attorno i figli più grandi con in braccio quelli più piccoli, pronti per il bagno nell’acqua torbida che scorre lenta tra le colline del paese.
Ancora prima dell’alba, gli uomini rimasti nel paese ci svegliano mentre, seduti in piazza, colpiscono con lunghe e forti strisciate del machete le pietre della pavimentazione, per preparare la lama alla lunga giornata nel taglio della canna. Poco dopo, passano vecchi pullman per caricarli e portarli nelle piantagioni, dalle quali toeranno soltanto quando farà notte. Dopo una giornata di lavoro, chi è più forte riesce a guadagnare di più, portando a casa appena un euro per ogni tonnellata di canna tagliata, sotto il sole cocente e con i vestiti che li coprono da capo a piedi per proteggersi dalle foglie taglienti.
Li si vede scendere dai pullman uno ad uno e diramarsi nei vari quartieri, con passo rapido, machete in mano e borraccia a spalle; raggiungono le loro case di fango dove, consumato un misero pasto, toeranno finalmente a riposarsi per riacquistare le energie da consumare nella dura giornata successiva.
Questa è la vita di un numero infinito di uomini, donne e bambini in centinaia e migliaia di paesi che sono sparsi, come Joaquim Gomes, nelle aree rurali di questa estesa regione del Brasile. E proprio da questa situazione siamo partiti e abbiamo potuto conoscere le altre differenti realtà che impregnano di contrasti questa terra.
Tuttavia abbiamo potuto scorgere, al tempo stesso, barlumi di intensa speranza, a partire dalle favelas della caotica capitale fino agli accampamenti di senza terra, isolati nella sperduta area del sertão.

La capitale dello stato di Alagoas è Maceio, città con circa 800 mila abitanti, che si estende a metà tra l’oceano e la laguna. Verso l’oceano sorgono i quartieri più ricchi, dove si trovano palazzi e alberghi di lusso, boutique di alta moda e design, ristoranti e club, palestre e scuole, dove autisti privati attendono i figli delle famiglie benestanti alla fine delle lezioni.
A pochissimi chilometri di distanza, verso la laguna, inizia invece l’ininterrotta serie di favelas dove migliaia di famiglie vivono in baracche costruite con pannelli di legno, cartoni, cartelli pubblicitari, lamiere e teli di nylon recuperati nelle aree circostanti.
Visitiamo una di queste favelas, quella di Sururù de capote, così chiamata dal nome del mollusco che vive nella laguna lungo la quale sono situate le baracche. Vediamo adulti e bambini che si immergono continuamente in acqua, anche per alcuni metri, e portano in superficie masse di fango putrido, mischiato alle conformazioni di molluschi che, portate a riva, vengono passate alle donne per la pulitura. Piegate sull’acqua, immerse fino alle ginocchia, esse passano giornate intere a scrostare questa specie di cozze, che, una volta ripulite, vengono vendute ai ristoratori di lusso per un prezzo irrisorio: un secchio pieno di tali molluschi, frutto del lavoro giornaliero di un’intera famiglia, viene pagato l’equivalente di un euro circa.
Ci accompagnano due giovani suore brasiliane, che operano in questo ambiente, e Vania, la coraggiosa leader della favela. Senza di lei è impossibile e, soprattutto, rischioso addentrarsi nei vicoli tra le baracche, che, oltre ad essere stretti da permettere il passaggio di una sola persona, sono spesso pieni di rifiuti e degli scoli delle fogne. Grazie a lei possiamo avere un’idea, anche se solo accennata e da osservatori, di cosa significhi nascere e sopravvivere da favelados in tali condizioni.
Presentandosi subito con il suo fare deciso e fiero, Vania ci racconta la sua storia: è nata nella favela; sin da ragazzina è stata coinvolta nei giri della droga, prostituzione e narcotraffico; ha avuto 12 figli, di cui sei morti prima ancora di nascere a causa della denutrizione e delle sostanze stupefacenti da lei assunte in gravidanza. Ma ora Vania è cambiata, il suo carattere e la sua voglia di lottare hanno fatto di lei una leader della favela: ha creato intorno a sé una comunità che si sostiene reciprocamente, forte nelle rivendicazioni per i propri diritti, superando la lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza in un crescente desiderio di rimanere uniti e solidali.
Mentre giriamo nella favela, Vania interrompe i suoi racconti per richiamare i bambini che litigano, per leggere un documento a un uomo analfabeta che chiede il suo aiuto e consiglio, per spiegare alla gente chi siamo; nel frattempo il suo sguardo è sempre attento nell’osservare e vigilare su ogni cosa che succede intorno.
Vania conosce la gente della favela e non ha paura di raccontarcene la vita: ci indica bambine di nove anni che, per un piatto di riso o di fagioli, si prostituiscono con i taxisti che passano nell’avenida, bambini drogati con la colla,  che tornano dal centro della città, dove hanno passato la giornata a vagare e a borseggiare i passanti; ci racconta la storia di una ragazza che, dopo anni di lavoro come domestica in una famiglia benestante, è stata licenziata appena i padroni hanno scoperto che viveva nella favela… E tante altre storie di discriminazione, attuate anche da parte del governo e istituzioni, che non permettono ai bambini di studiare, di essere protetti, di avere un futuro e sperare nelle minime opportunità.
Con fierezza ci racconta come la Caritas tedesca l’abbia mandata a Brasilia in aereo, lei, donna senza istruzione sempre vissuta nella favela, per denunciare davanti al governo le condizioni in cui vive la sua gente e rivendicare i diritti basilari.

Nella nostra visita siamo accolti in un’abitazione dove si consuma un altro dramma di sofferenza e disperazione. Un genitore, rimasto solo con due bambini piccoli, dopo aver perso la moglie e le figlie in morti violente, è costretto a sprangare la porta della baracca per impedie l’entrata alla figlia di 12 anni, poiché la ragazza, che vive in strada, ogni volta che torna a casa cerca di portare via qualcosa, oggetti o alimenti, per scambiarli con una dose di droga*.
Prima di lasciare la favela e salutare le frotte di bambini che ci hanno seguito nella nostra visita, ci aspetta l’incontro più inatteso. Nell’ultima baracca in cui siamo invitati a entrare ci attende infatti l’impatto con il paradosso più grande dell’amore materno, un incontro che, pur passando attraverso i nostri occhi, rimane incredibile per i nostri schemi mentali, sviluppati in un mondo che da qui sembra ancora più distante.
Sdraiato per terra, su un sottile pezzo di gommapiuma, Thiago, un ragazzo di 13 anni, ci accoglie subito con un sorriso di felicità, ma il suo sguardo è perso nei drammi di una vita bruciata da droga e violenza. Un suo polpaccio è avvolto da una grossa catena, chiusa con un lucchetto, che lo tiene legato al tavolo di casa.
La madre è al suo fianco e ci spiega che sono ormai venti giorni da quando ha deciso di tenere il figlio così legato per cercare in qualche modo di salvargli la vita. Thiago aveva solo nove anni quando cominciò a fare uso di crack e a essere coinvolto nei traffici di droga; ora, minacciato di morte a causa di conflitti e lotte tra bande, la sua vita è a rischio.
La madre è sicura che se il figlio uscisse di casa, sarebbe ucciso in brevissimo tempo. Per proteggerlo e per allontanarlo dalla droga, ha chiesto aiuto ai servizi sociali, ma non ha ricevuto alcun aiuto; per cui ha messo in atto una soluzione così drastica, già usata con la sorella e sperimentata da altre madri nella favela verso i propri figli.
Thiago ci racconta col sorriso in faccia la sua vita e, salutandoci, augura a se stesso di poterci vedere ancora; ci confida che vorrebbe andare in giro per il mondo, ma ammette con le sue stesse parole che tutto ciò rimarrà nei suoi sogni, confessando di essere ben consapevole che o a causa della droga o per mano dei suoi nemici la sua vita sarà davvero breve. 

Un ragazzo così giovane, ma con occhi e sogni privi di speranza, richiama alla mente tutti gli altri contrasti e sofferenze incontrate nella breve esperienza in Brasile. Il suo volto rimarrà scolpito in modo indelebile nei nostri ricordi, insieme al senso di impotenza e ingiustizia che si prova di fronte a certi drammi.
Eppure il sorriso di Thiago ricorda anche l’impegno di tante persone, come le suore Giuseppine e la signora Vania, che continuano nel loro servizio per dare vita e speranza a chi rischia di perderla, a chi non ne ha mai potuto godere pienamente, a chi, ancora così giovane, di tutto questo è stato derubato. 

Di Fabrizio Mola


* La ragazza di cui si parla è rimasta uccisa in una rissa fra ragazzi di strada alla fine di novembre 2008.

Come vincere le Elezioni

Il 5 ottobre 2008, Cristina Brandão ha vinto nuovamente le elezioni amministrative, riuscendo così a conquistarsi il secondo mandato da sindaco di Joaquim Gomes. Il successo è frutto di una campagna elettorale in cui la corruzione e l’illegalità hanno vinto ancora una volta. Ogni singola preferenza è stata infatti comprata giocando sulla miseria, sulla necessità e sull’inconsapevolezza della gente, che pur di ricevere una minima quantità di denaro, ha venduto il proprio voto al candidato disposto a offrire la somma maggiore. Tale pratica è molto diffusa nella regione ed è nota a tutti; ma a causa della paura raramente vengono denunciati i reati di corruzione; più raramente ancora alle denunce seguono processi e condanne.
Per avere un’idea dei soldi investiti nella campagna elettorale in un paese come Joaquim Gomes, con poco più di 20 mila abitanti, basta sapere che la signora Cristina Brandão ha venduto una delle fazendas (fattorie agricole) comprate durante il suo precedente mandato.
Tra i costi sostenuti vi sono quelli derivanti dalle numerose manifestazioni celebrative del sindaco stesso, dove, ad esempio, sono stati pagati centinaia di partecipanti per affollare le ripetute sfilate propagandistiche, in cui vigeva un tariffario ben preciso in base al tipo di partecipazione. Se si marciava a piedi, muniti di bandiera si riceveva infatti una certa somma di denaro; le tariffe aumentavano se si sfilava in bicicletta, in moto o in automobile.
Un altro «investimento» effettuato dal sindaco per le nuove elezioni è stato quello di iscrivere nelle liste elettorali di Joaquim Gomes decine di persone che vivono nei quartieri poveri della capitale dello stato. Il giorno delle elezioni, il sindaco ha poi gentilmente messo a loro disposizione un pullman per raggiungere il paese, consegnando a ciascuno una banconota da 50 reali (circa 20 euro) prima di recarsi alle ue. La stessa somma di denaro è stata offerta per comprare il voto delle persone che vivono nel paese. Per evitare, però, che questi elettori accettassero più volte il denaro, la candidata a sindaco ha pensato bene di contrassegnare le tessere elettorali di chi aveva già ottenuto il suo «pagamento», in modo che fossero riconoscibili dalla sua équipe.
Il giorno delle elezioni, però, è venuto alla luce questo fatto del contrassegno e le persone che avevano venduto il proprio voto, non si sono più presentate alle ue per paura di essere denunciate. Nei giorni successivi è stata quindi offerta loro una somma di denaro dieci volte superiore a quella ricevuta per il voto, al fine di comprare il loro silenzio. Il fatto fondamentale è però che, secondo la legislazione brasiliana, il voto è considerato obbligatorio. Per questo motivo attualmente le persone coinvolte in questa faccenda si ritrovano nel dilemma di pagare la sanzione per non essersi presentati alle ue o autodenunciarsi essendo rimasti implicati nell’operazione di acquisto e vendita dei voti.
Le denunce di corruzione sono state presentate al Tribunale elettorale locale, che ha avviato subito il processo, convocando la neoeletta e una trentina di testimoni. Adducendo un certificato medico, l’imputata non si è presentata alla prima udienza né a quelle successive, ma la giustizia ha fatto ugualmente il suo corso: venerdì 29 novembre il giudice della zona elettorale, Gilvan Santana, ha annullato l’elezione della Brandão, con l’interdizione per tre anni da ogni incarico pubblico. Una vittoria significativa e incoraggiante, almeno per il momento. C’è, infatti, il rischio che il ricorso al Tribunale elettorale dello stato di Alagoas possa annullare la sentenza.

Fa.Mol.

Fabrizio Mola

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