RICORDANDO CARLO URBANI (1): Le malattie dimenticate


Nei paesi del Sud del mondo l’accesso alla salute – farmaci, acqua, alimentazione, servizi igienici, istruzione – è ancora un miraggio per la maggioranza della popolazione. In favore di questo diritto negato ha lavorato ed è morto Carlo Urbani.

Nel 2001 nel mondo 18,4 milioni di persone sono morte per malattie infettive/parassitarie, malnutrizione e cause perinatali, la maggior parte di queste nei paesi in via di sviluppo. La maggioranza di queste morti sono dovute a patologie prevenibili e curabili con farmaci e precauzioni igieniche che in Italia sono accessibili a tutti.
È uno scandalo che nel 2003 ancora 1 milione e mezzo di persone siano morte di malaria nonostante ci siano farmaci antimalarici efficaci, e che su 6 milioni di persone affette da Aids nei paesi in via di sviluppo, solo 400.000 abbiano accesso alle cure appropriate. L’accesso alla salute non è solo accesso ai farmaci essenziali: significa anche accesso ad acqua potabile, a latrine e servizi igienici, a scuole ed istruzione, alle cure materno-infantili, ad un’alimentazione sufficiente.
Le disuguaglianze dei paesi con limitate risorse pesano sulla coscienza di tutti: meno del 50% della popolazione ha accesso ai farmaci essenziali, i medici sono al di sotto di dieci per 100.000 abitanti (in Italia sono più di 500), meno dell’uno per mille della popolazione ha accesso ad Inteet (in Italia sono più di 250); il costo dei farmaci nei Paesi poveri, a parità di potere di acquisto, è più elevato che nei paesi industrializzati; la mortalità infantile e quella matea sono 100 volte più alti.

Carlo Urbani ed i medici tutt’ora impegnati nello sviluppo della salute pubblica nei paesi del sud del mondo hanno scelto di lavorare in questa realtà. È uno scenario che è riduttivo descrivere, fatto di sensazioni forti, di silenzi e di spazi immensi, di colori violenti e di odori, di insanabili contrasti, di fatica quotidiana, di contatto continuo con morte e malattia, di ritmi e valori spesso dimenticati nella nostra vita frenetica, consumistica e stressante. Sono sensazioni che solo se vissute e condivise possono essere comprese. Dopo la prima esperienza in Africa sub-sahariana ricordo di aver sofferto della impossibilità di comunicare impressioni, momenti di lavoro, e rapporti umani che hanno profondamente cambiato la mia vita.
Condizione primaria del lavoro in quei paesi, e non solo in ambito sanitario, è sapersi distaccare in maniera critica dalla nostra società occidentale, spesso creduta impropriamente depositaria di cultura superiore e di regole tali da poter essere imposte a gente «sottosviluppata». Lavorando nel terzo mondo ci si accorge che invece l’Occidente oggi è pervaso da una cultura del piacere «facile», volta ad ottenere molto in tempi brevi, prodiga di sicurezze, dove si ha troppo del superfluo, dove il tempo è sempre tiranno, e dove si è condizionati a produrre incuranti del prodotto, senza avere il tempo di guardarsi intorno, di ascoltare e capire in quale direzione stiamo camminando.
Nei paesi in via di sviluppo anche la realtà della morte è vissuta nel senso dello scorrere del tempo ed è mitigata da una grave serenità e da una grande partecipazione al lutto della famiglia allargata. La percezione della morte nella civiltà dei consumi è invece carica di angoscia, è un tabù che si cerca di esorcizzare attraverso paradisi artificiali e cure per l’eterna giovinezza.
Fondamentale diventa poi la dimensione dell’ascolto, il saper condividere il ritmo lento e rilassante, ma non pigro, della vita africana, saper percepire la ricchezza nascosta nella semplicità degli affetti, nel valore dell’ospitalità e della dignità umana. E, d’altra parte, ci si rende conto di essere dei privilegiati, di avere la pelle di un colore che crea una barriera spesso insuperabile nei rapporti con la gente locale.
Bisogna sapere accettare questa differenza ed essee consapevoli per non offendersi della discriminazione, a volte pesante, della gente del luogo dettata da anni non troppo lontani di colonialismo e sfruttamento, e dal neocolonialismo attuale impersonato dall’immagine del ricco turista italiano che va in vacanza in un villaggio turistico di Zanzibar o delle Maldive con l’arroganza della superiorità dettata dal potere economico e con l’ignoranza della cultura locale.

La professione del medico comporta competenza, pazienza, creatività e disponibilità umana, doti che dovrebbero essere applicate in qualsiasi ambulatorio medico di una grande città industriale, ma che in Africa vengono riscoperte come valori essenziali, senza i quali è impossibile svolgere il proprio lavoro.
Si riscopre il valore della visita accurata del paziente, imposto dall’assenza della gran parte di esami diagnostici disponibili nella medicina occidentale. Si deve «costruire» a volte una diagnosi credibile, e bisogna saper gestire con abilità i pochi farmaci disponibili. Si lavora in condizioni logisticamente disagiate: spesso senza disponibilità di acqua corrente, e con scarsa e saltuaria elettricità. Ci si adatta con lampade a cherosene, quando possibile con generatori, si utilizza acqua di pozzo o piovana raccolta in cistee.
Spesso ci si scontra con dubbi e domande alle quali non si riesce a dare una risposta. La disponibilità limitata di risorse porta a confrontarsi con scelte di priorità anche dolorose in cui l’etica professionale viene messa a dura prova. Devo utilizzare risorse per fare operare al cuore un bambino cardiopatico con un intervento salvavita, oppure lasciarlo e curare invece, con le stesse, mille suoi coetanei esposti alla malaria?
L’interesse si sposta dalla medicina individuale, curativa, alla medicina di comunità, soprattutto preventiva. Si interagisce con sistemi sanitari dotati di un grande potenziale e si sente di avere il potere di incidere sulle politiche sanitarie locali. Inoltre si ha la potenzialità di insegnare la professione medica al personale sanitario locale, con attenzione ed adattamento alla realtà e alle risorse del luogo, promuovendo l’uso di tecnologie appropriate e interventi di controllo delle malattie avendo come primo obiettivo il minor rapporto costo/beneficio. La formazione del personale locale è il cardine della sostenibilità di un intervento sanitario di cooperazione che deve essere sempre rivolto a creare una condizione di indipendenza e di autonomia.
Queste sono le immense soddisfazioni professionali che gratificano e largamente compensano la rinuncia a tante sicurezze, a molte comodità, al sacrificio di affetti familiari, al rischio di malattie o incidenti pagati in prima persona. Non si raccontano quasi mai i momenti di profonda solitudine, le lacrime di rabbia, la frustrazione nello scontro con la corruzione, l’ignoranza e l’indolenza umana. Sono però anche questi aspetti ingredienti che, come il sale, danno un sapore più vero all’avventura degli operatori sanitari nei paesi in via di sviluppo.

Vivere nel mondo delle malattie dimenticate è, per chi accetta questa sfida, un’esperienza professionale ed umana che apre, a volte dolorosamente, gli orizzonti; che cambia chi ha il coraggio di esporsi; che fa innamorare di questo mondo chi sceglie di lavorarci e particolarmente i medici che più di altri hanno il privilegio di constatare, capire, testimoniare e, qualche volta, alleviare o risolvere l’assenza di salute. •

“CARLO, AMICO E COLLEGA”

Carlo Urbani è l’autore del libro, che Feltrinelli mi ha chiesto di curare. Non è una biografia: sono i suoi scritti e le sue riflessioni sviluppati negli ultimi 10 anni di lavoro e di viaggi.
Con questo lavoro ho avuto l’opportunità di restituire la memoria di Carlo per quello che lui era veramente: un uomo e un medico capace e generoso. Il libro raccoglie riflessioni sulla povertà e assenza di salute delle comunità nelle quali Carlo lavorava, soddisfazioni professionali, descrizioni di luoghi e di persone incontrate, di emozioni provate. Carlo era anche un ottimo fotografo ed un discreto scrittore (come dimostrano anche gli articoli pubblicati in Come sta Fatou?, la rubrica da lui inventata per la rivista Missioni Consolata). Aveva il talento di saper comunicare la sua passione attraverso parole ed immagini; leggendo le sue lettere si ha l’opportunità di apprezzae l’entusiasmo, la curiosità, l’intelligenza e sensibilità, la capacità di individuare problemi e proporre soluzioni. Ne emerge la sua voce e, posso dire con soddisfazione, un’immagine molto vicina a quella dell’amico e collega che ho perduto, sicuramente diversa da quella del «martire della Sars», immagine mitizzata e per un certo verso riduttiva, che i media ci hanno trasmesso quando la sua curiosità ed il suo entusiasmo sono stati fermati da un incidente di percorso.
La Sars (una malattia in realtà non troppo contagiosa, un’epidemia assai meno importante in termini di mortalità – solo 800 morti – rispetto per esempio all’epidemia di «spagnola», che molti ancora ricordano, o alla malaria e tubercolosi che fanno ciascuna ancora 1 milione e mezzo di morti all’anno) ha acceso i riflettori sull’epilogo della vita di un uomo non comune. Quell’«incidente» ha fatto sì che gli venisse rivolta, pur tardivamente, l’attenzione che da anni meritava per il suo lavoro silenzioso di lotta alle malattie «dimenticate», per garantire il diritto alla salute anche alle popolazioni dei paesi più poveri. I suoi scritti permettono di capire un po’ di più del lavoro e del punto di vista di molti altri, medici e non, che ben al di là della retorica considerano una priorità ragionare e cimentarsi con le scandalose disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo.

Un altro motivo che mi ha spinto ad accettare di curare questo libro è stata la possibilità di divulgare anche ai non addetti ai lavori, le problematiche di salute pubblica e di medicina sociale che Carlo, molti altri colleghi ed io stesso affrontiamo, per stimolare l’interesse alla conoscenza di questi argomenti e possibilmente la condivisione di queste sfide.
Scegliendo e mettendo in ordine gli scritti di Carlo mi sono reso conto di quanto la sua storia personale si sia arricchita progressivamente. La sua vita professionale inizia in medicina generale in un paese di provincia, Castelplanio. Infettivologo e tropicalista, viaggiatore si appassiona a problemi di salute internazionale. Lavora poi come medico ospedaliero e volontario in brevi missioni sul campo, sino alla scelta definitiva di intraprendere la carriera internazionale come responsabile nel Sud-est asiatico del controllo delle malattie trasmissibili. L’epilogo della storia di Carlo è segnato sia dalla sua passione originaria per la medicina individuale che dalle sue doti di medico di sanità pubblica: non è una coincidenza che proprio lui sia stato chiamato a consulto al letto di un paziente con polmonite atipica, sul quale intuirà il potenziale di quella malattia sconosciuta. Lascerà temporaneamente il suo ufficio all’Oms di Hanoi, i suoi parassiti e le malattie per noi dimenticate per infilarsi il camice e dedicarsi con intelligenza e curiosità alla nuova malattia della quale riuscirà in brevissimo tempo a capire abbastanza da bloccarne l’epidemia trascurando, nell’entusiasmo, di pensare anche a salvaguardare la sua persona. Non per rischio calcolato ma per coerenza a saldi principi di etica e passione scientifica. Carlo era fatto così. Dalle sue lettere emergono riflessioni su temi scottanti e di grande attualità (la globalizzazione, il diritto e l’accesso alla salute, i farmaci essenziali, il dovere di lotta alla povertà, la ridistribuzione delle risorse, la tolleranza, le diseguaglianze – non solo di salute – tra il Nord ed il Sud del mondo).

Il libro parte dalla prima esperienza in Mauritania, nel 1993, dove io incontrai Carlo per la prima volta. Era l’epoca dei suoi viaggi in Africa occidentale, durante i quali, con occhio esperto e sensibile, aveva individuato la possibilità di intervenire per arginare un’epidemia di parassiti intestinali e malaria che si era manifestata in seguito alla costruzione di una diga sul fiume Senegal. Carlo coinvolse subito il ministero della sanità del paese e richiese il sostegno tecnico all’Oms. Contemporaneamente coinvolse il suo ospedale e propose un gemellaggio con le scuole del suo paese.
Segue la sua esperienza di lavoro in Cambogia per Medici senza frontiere (Msf), dove era responsabile del controllo della schistosomiasi, trasmessa dalle acque del fiume Mekong.
Al rientro in Italia, nell’ospedale di Macerata dove era aiuto di malattie infettive, Carlo diventa presidente di Msf, lavorando per incrementare la collaborazione tra il mondo ricco occidentale e quello povero. Esempi di questa attività extraospedaliera sono la campagna per l’accesso ai farmaci essenziali e la lotta alle multinazionali del farmaco che badano al profitto invece che alla salute della gente. Va ricordato che 3.000 persone al giorno muoiono di malaria e 8.000 di Aids solo perché non hanno accesso a terapie disponibili in qualsiasi paese occidentale.
Altro esempio di ricerca di contatto tra Nord e Sud è il corso avanzato di medicina tropicale organizzato a Macerata nel marzo 2000, a cui parteciparono una quarantina di medici ed infermieri, la metà dei quali provenienti da paesi del Sud del mondo. Questa esperienza (straordinaria anche perché indipendente dalle sponsorizzazioni delle case farmaceutiche e dalle università) ci ha permesso di gestire borse di studio ottenute da privati per merito del carisma di Carlo; borse che hanno permesso la partecipazione e la formazione di medici che poi sono tornati ad operare nei rispettivi paesi.

L’ultimo capitolo del libro tratta della scelta definitiva che Carlo Urbani fa nel 2000: accettare l’incarico di esperto di malattie parassitarie dell’Oms ad Hanoi, in Vietnam. In questa scelta coinvolge tutta la famiglia, a dimostrazione di un progetto di vita ampio che ha risvolti importanti sull’impostazione dell’educazione e della vita dei figli. Ad Hanoi, come alto funzionario delle Nazioni Unite, si rende conto di avere l’opportunità di incidere sulle politiche sanitarie nazionali per migliorare lo stato di salute di intere popolazioni con interventi strategici a basso costo. Carlo ha grandi soddisfazioni nel suo nuovo lavoro e si applica con la consueta passione ed impegno. Il 28 febbraio 2003 viene chiamato a visitare il signor Chen, paziente affetto da polmonite atipica, poi riconosciuta come Sars, che infetta ospiti e collaboratori dell’ospedale francese di Hanoi dando inizio all’epidemia. Carlo intuisce la gravità della situazione e lancia l’allerta mondiale. Scrive lucide e dettagliate relazioni per Ginevra e Atlanta. Convince le autorità vietnamite a chiudere l’ospedale, ad istituire la quarantena e a bloccare i voli ed il rilascio del visto, pur in presenza di pesanti risvolti economici per il paese. Contrae la Sars. L’11 marzo viene ricoverato a Bangkok, dove muore 18 giorni dopo. È il 29 marzo del 2003.

Marco Albonico

I dati delle malattie dimenticate (2001)

Malattia: DALYs* N. Morti

Aids 88.500.000 2.900.000
Cause perinatali 98.400.000 2.500.000
Diarree 62.500.000 2.000.000
Elminti Intestinali 39.000.000 135.000
Filariasi 5.600.000 0
Infezioni respiratorie
acute 94.000.000 4.000.000
Malaria 42.000.000 1.500.000
Malnutrizione 33.000.000 500.000
Morbillo 26.500.000 750.000
Schistosomiasi 4.500.000 200.000
Tubercolosi 36.000.000 1.600.000

* Disability-adjusted life years (numero di anni di vita «in salute» persi)
Tabella riportata in «Le malattie dimenticate», Feltrinelli 2004.

Marco Albonico

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