Mangiare e bere (Es 15,22-17,16)

testo di Angelo Fracchia


Il popolo oppresso è stato liberato, ed è fuori dall’Egitto, vivo, mentre il faraone e il suo esercito sono stati coperti dal mare. L’impresa eroica è stata compiuta (da Dio), la storia può chiudersi sulla sigla finale. O almeno, è ciò che vedremmo in un film.

Gli autori del libro dell’Esodo, però, non volevano raccontarci una bella avventura di cui inorgoglirsi. Il loro obiettivo ultimo era di indicare ai lettori un percorso di fede nel quale avventurarsi: un percorso che cresce sempre, di fiducia in fiducia, di affidamento in affidamento, fino a un passaggio che può essere lancinante, che sembra minacciare la promessa stessa di vita che sta dietro e dentro alla relazione con Dio. Eppure quel passaggio, attraverso ciò che pare indicare la morte, conduce alla libertà.

E poi? La vita è finita? «Vissero tutti felici e contenti»? No, e chi ha scritto il libro sa che la vita è poi fatta di quotidianità banale e insieme faticosa, anche svilente rispetto a quei grandi sogni simboleggiati dal passaggio del mare. Una vita in cui ci si può persino chiedere se quello che abbiamo vissuto non ce lo siamo inventato, o se non abbiamo sbagliato tutto. E in cui ci sembra che a prometterci gioia e vita sia la nostalgia, il passato e il voltarci indietro a guardare ai tempi nei quali (ci sembra) non stavamo poi così male.

Le fatiche e le mormorazioni

E davvero questo libro antico si mostra più intelligente, profondo e acuto di tante nostre produzioni moderne. All’entusiasmo del «cavallo e cavaliere gettati nel mare!» (Es 15,21) segue il racconto di tre giorni di cammino nel deserto, senza acqua. Quando poi la si trova, è imbevibile (15,22-24). Quando poi, dissetati da acque risanate e rifocillati da una nuova oasi finalmente ricca, il popolo si rimette in cammino, arriva il rimpianto per la schiavitù: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra

d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà!» (16,3).

È la fragilità umana che tende ad abbellire i ricordi e a far sedere nel rimpianto, anziché camminare in avanti. In questa prospettiva, le pagine dell’Esodo parlano anche a noi e alle situazioni che viviamo, quelle nelle quali ci succede qualcosa di straordinario (la decisione di intraprendere un percorso di formazione, una vita diversa, una relazione profonda), ma il nostro entusiasmo iniziale lascia un po’ per volta spazio alla fatica del quotidiano, alla noia del lavoro arido e pesante, alle sofferenze del cammino di tutti i giorni. E subentra la nostalgia del passato, di quando ci sembrava di essere più liberi, con più possibilità davanti.

Ogni episodio del cammino di Israele nel deserto, quindi, è anche un suggerimento e un’istruzione per noi e per il nostro cammino di fede (fede in Dio, ma anche fiducia nelle persone che abbiamo accanto e persino in noi e nelle nostre scelte).

La «Amara» (Es 15,22-27)

Dopo tre giorni di cammino nel deserto, ad accompagnare il popolo è la sete. Quando finalmente si giunge a un’oasi, la sua acqua è però amara, non bevibile. Il testo insiste talmente tanto sull’amarezza del posto (chiamato proprio così: «Mara», che in ebraico significa «Amara») che non può trattarsi di un caso.

Abbiamo faticato per prendere la decisione di fidarci, ci siamo buttati, ci aspettavamo di essere trascinati solo dall’entusiasmo e siamo invece presi dalla sete, dalla fatica, e vediamo che i nostri sforzi non sembrano portare frutto. Subentra lo sconforto di chi sta male e pensa di essersi ingannato. L’acqua è imbevibile.

Mosè si rivolge a Dio, il quale gli fa gettare nell’acqua un legno. Questa scena fa ricordare il bastone steso sulle acque del mare per dividerle. Questa volta viene divisa l’acqua sana, che fa vivere, dall’amaro che conteneva. Potrebbe quasi sembrare un gesto con echi magici. Dobbiamo però ricordarci che le realtà più profonde e autentiche che viviamo, più spirituali, hanno bisogno di segni materiali per essere espresse: l’amore che lega due persone si incarna in regole di vita insieme ed è simboleggiato da un anello, la dedizione agli altri, magari, si incasella dentro norme protocollari e si esprime in una divisa da inferniere, da vigile del fuoco, e così via. Anche la religione non sfugge a questa dinamica: l’intento è di dirsi e pensarsi in comunione con Dio, e per farlo passiamo attraverso formule, gesti e riti che, a prima vista, parrebbero la negazione di una vita spontanea.

E il rischio c’è. Il bacio, che univa una coppia all’inizio del loro percorso in una promessa quotidiana, può diventare semplice routine, come quella di prendere chiavi di casa e portafogli prima di uscire. Il rischio esiste anche nella religione, e non è un caso che il gesto di Mosè sia preceduto dall’appello a Dio, dalla richiesta e risposta divina, che si fa gesto rituale (il legno sulle acque) e norme («il Signore impose al popolo una legge e un diritto»: 15,25).

Viviamo dentro a riti e regole, che restano autentici e vitali finché si mantengono collegati a ciò che esprimono, a una relazione vitalizzante con colui che ci libera sempre, non solo all’inizio. Il senso del rito, in fondo, è questo: rimandarci a un’esperienza di relazione che si è dimostrata affidabile, per trovare la forza di fidarci ancora.

E può essere confortante, per quanto marginale, l’annotazione di Esodo che, dopo la Amara (divenuta però dolce), ci sarà ad accogliere il popolo un’altra oasi, con ben dodici sorgenti (15,27): il cammino è faticoso e duro, ma non privo di sorprese anche positive, di inattesi (e non promessi) squarci di respiro.

Quaglie e manna (Es 16)

Dall’oasi paradisiaca bisogna però ripartire, e presto si fanno sentire di nuovo la fame e la sete, insieme alla paura di soffrirne, che forse è persino peggio. E allora, di nuovo, spunta la nostalgia per le «cipolle d’Egitto».

La risposta divina è particolare. Dio si lamenta della sua durezza di cuore e della poca fiducia del suo popolo, ma intanto si prende cura di lui, fa cadere a terra, nell’accampamento, quaglie da mangiare (16,13). In più, al mattino, è presente una «cosa fine e granulosa» che lascia perplessi gli Israeliti (secondo l’autore biblico la domanda «che cos’è? – man hu?», avrebbe portato al nome di «manna»). Sarà il loro cibo per quaranta anni, un cibo dalle caratteristiche molto speciali.

Si forma intorno all’accampamento ogni mattina. Chi si fa prendere dall’ansia e dall’accaparramento e ne raccoglie più di quanto gli serve, ne riempie comunque solo un omer, una misura prestabilita (non ci è neppure chiaro a quanto equivalga), mentre chi non riesce a raccoglierne tanta, ne avrà comunque un omer (16,16-18). Chi poi, preoccupandosi che forse il giorno dopo non ne avrebbe trovata, ha deciso di tenerne un po’ da parte, la trova marcita (16,20). Solo al sabato la manna non si presenta, ma quella del venerdì, raccolta in quantità doppia, non marcisce il giorno dopo (16,22-27). Infine, quella che non era raccolta al mattino presto, con il crescere della temperatura svanisce (16,21).

Da sempre i commentatori ebrei hanno pensato che una descrizione così particolareggiata intendesse parlare anche d’altro, del nutrimento che gli esseri umani possono cercare e ottenere in Dio, quello che potremmo definire la forza di affrontare il quotidiano, la prospettiva di speranza, le riserve di serenità e gioia.

Niente di tutto ciò può essere accumulato: non mi è possibile oggi raccogliere il doppio di amore allo scopo di averne anche per domani. Non mi basta la fiducia e la serenità che avevo ieri per vivere oggi. Ogni giorno ha bisogno del suo nutrimento, occorre sempre pensare al momento presente, rimandando al futuro ciò che accadrà.

E questo è anche il senso della preghiera di Gesù, che nell’invitare i discepoli a chiedere al Padre il proprio pane quotidiano (Mt 6,11; Lc 11,3) sembra ricollegarsi alla manna invitando a invocare il nutrimento per l’adesso, per il giorno presente, confidando che Dio ne donerà ancora per i giorni a venire.

Scoprire che il nutrimento fondamentale per la nostra vita non può essere accumulato, ci predispone di nuovo all’atteggiamento ideale da tenere non solo verso Dio, ma in fondo anche verso tutto ciò che ci fa vivere e sorridere: tenersi lontani dall’accaparramento ci spinge alla fiducia, al confidare nel fatto che verra anche domani quello che ci è stato garantito oggi. Ciò che nella vita più conta, e che non è certo il cibo, non può essere chiuso in una dispensa: bisogna sperare e confidare che ci verrà donato giorno dopo giorno.

I nemici in battaglia (Es 17)

Il senso profondo di questi episodi è richiamato dall’ultimo in elenco, la battaglia contro Amalék, che potrebbe sembrare il meno prodigioso e miracoloso. Capita che nel Sinai le quaglie in transito cadano al suolo. Il fatto che passino così vicine e ne cadano così tante da sfamare un popolo proprio quando questo chiede da mangiare, sembra una coincidenza miracolosa. La descrizione della manna fa pensare alla resina della tamerice o a una secrezione di alcuni insetti che vi vivono sopra, ma la sua quantità e regolarità possono stupire.

Meno miracolosa appare la vittoria sui nemici. Che nel deserto vivano tribù di seminomadi, combattive ma poco numerose, infatti, non è mai stata una novità, e un popolo così numeroso come quello ebraico poteva immaginare di batterle senza problemi.

Ma proprio qui si svela che a fare sopravvivere il popolo non è la sua stessa forza, il suo numero o la sua capacità, bensì la presenza di Dio. Lo si ribadisce in un modo che potremmo definire quasi ingenuo e «magico», perché Israele, nella battaglia contro Amalék, ha la meglio solo fino a quando Mosè riesce a impetrare da Dio la salvezza tenendo le braccia sollevate al cielo, e perde quando Mosè, stanco, abbassa le braccia. Finché non arrivano Aronne e Cur a tenergliele sollevate, fino alla vittoria (17,12).

La nostra sensibilità resta infastidita da tali scene di battaglia, spesso condite dallo sterminio dei sopravvissuti (17,13), ma dobbiamo ricordarci che qui è ampia la nostra distanza culturale da chi ha scritto e leggeva queste pagine. Quel mondo era abituato a vedere e subire crudeltà e violenza, e probabilmente percepiva che nello sterminio finale c’era più cliché e narrazione stereotipata che descrizione storica di un massacro realmente avvenuto.

A essere significativo e centrale, nel racconto non è tanto la vittoria del popolo, ma come essa avvenga, cioè grazie all’intervento di Dio. In fondo questa scena chiarisce, in modo molto visivo e apparentemente un po’ ingenuo, quello che nel corso del libro si dice regolarmente, ossia che a far vivere gli ebrei non è l’intelligenza o la forza umana, ma la relazione con un Signore che li ha liberati e, in più, non cessa mai di prendersene cura, offrendo acqua, cibo, sopravvivenza e sicurezza.

E che in cambio chiede solo di fidarsi di lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 9 – continua)

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