Eleazar Ben Yair eroe masada

Veduda aerea della fortezza di Masada. Government_Press_Office_(GPO)
Israele
Mario Bandera

Masada è il nome di uno sperone roccioso al cui culmine c’è un ampio pianoro che si innalza a quasi 400 metri sul livello della costa Sud Ovest del Mar Morto nello scenario arido e selvaggio tipico di quella zona. Masada, nei secoli prima di Cristo, era utilizzata come una roccaforte difensiva, ma fu Erode il Grande a fae una fortezza militare di prim’ordine. La sua superficie pianeggiante, ampia una decina di ettari, fu munita lungo tutto il suo perimetro di una doppia cinta di mura e a intervalli regolari furono ricavati circa un centinaio di depositi che, oltre ad arsenale e magazzini per ogni evenienza, servivano anche da abitazione per gli occupanti del luogo.Furono costruiti anche una sinagoga, grandi ripostigli, laboratori e numerose cistee per la raccolta dell’acqua piovana. In questa località che aveva tutti i presupposti per resistere ad un lungo assedio, si consumò nell’anno 74 la tragedia finale delle guerre giudaiche; di questo fatto parliamo con il comandante della fortezza di Masada, Eleazar Ben Yair.

Il racconto della tragedia di Masada ci è giunto attraverso gli scritti dello storico giudaico Giuseppe Flavio, un ebreo che simpatizzava per i romani fino a diventare lo scrivano della famiglia Flavia. Egli descrive il dramma che coinvolse Masada 5 o 6 anni dopo i fatti narrati. Anche se la sua narrazione è un po’ troppo di parte, c’è da dire che i fatti che espone corrispondono abbastanza a ciò che successe realmente.

Per far capire bene l’intera vicenda, puoi narrare come si svolsero i fatti?

Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 70, un gruppo di giudei, appartenenti in particolare alle due sette più bellicose, quella dei «Sicari» e quella degli «Zeloti», che non volevano assolutamente arrendersi ai Romani, si rifugiarono a Masada e su quello sperone roccioso si organizzarono per resistere per lungo tempo all’assedio dei Romani.

Giuseppe Flavio narra come il generale romano Flavio Silva ponendo l’assedio a Masada, circondò alla base la roccaforte con un muro che la racchiudeva tutta, creando otto accampamenti con i 7000 legionari che aveva a disposizione.

Coloro che si erano rifugiati a Masada potevano resistere per un tempo indeterminato, perché il luogo aveva un solo stretto accesso, avevano a disposizione l’acqua piovana che veniva raccolta con grande cura nelle numerose cistee, dalla terra ricavavano verdura e cereali che insieme a qualche animale domestico dava il necessario per vivere, per cui l’assedio non li avrebbe mai costretti ad arrendersi per fame o sete.

Perciò occorreva conquistare Masada in altro modo?

Il sentirnero (detto «del serpente») che portava alla fortezza, lungo più di 5 km, era facilmente difendibile perché non consentiva a due persone di camminare appaiate. Era così stretto e tortuoso che anche se si fossero lanciati centinaia di soldati all’attacco, poteva essere difeso senza difficoltà da pochi uomini.

I Romani non erano certamente gente da arrendersi, per cui progettarono di costruire una rampa che dalla piana arrivasse all’altezza del costone più basso di Masada, rampa sulla quale si sarebbero lanciati per conquistare la sommità della fortezza.

Le cose andarono proprio così. In poco più di un mese, grazie al lavoro continuativo di migliaia di schiavi, l’enorme rampa venne portata fin quasi a raggiungere le mura. Su di essa costruirono poi una enorme torre tutta ricoperta di ferro e munita di catapulte, con le quali cominciarono a demolire le mura e «bombardare» i difensori.

Gli Zelori e i Sicari, vedendo il progresso inesorabile della potente macchina da guerra romana, quando anche la torre fu completata e una breccia fu fatta nelle mura, consci di non avere alcuna possibilità di vittoria di fronte alla schiacciante superiorità numerica degli avversari, la notte prima dell’assalto finale decisero di ricorrere a un’estrema soluzione piuttosto che arrendersi.

La decisione presa era terribile in quanto gli uomini, disubbidendo alle Sacre Scritture, decisero ognuno di passare a fil di spada i propri familiari, cominciando dalle mogli per poi sacrificare i figli e per ultimi i più piccoli.

E tra di loro come si sono comportati?

Estraendo a sorte, un ebreo avrebbe ucciso con la spada dieci suoi compagni fino a quando ne sarebbe rimasto solo uno e questi si sarebbe suicidato.

Quando i Romani, completata la rampa, misero piede sul pianoro di Masada, furono presi da grande stupore nel vedere che non incontravano alcuna resistenza e il luogo era completamente deserto.

I Romani, mettendo piede sulla piana della fortezza, rimasero sorpresi dal silenzio e dall’assoluta mancanza di ogni tipo di resistenza. Infatti non c’era più alcuno che potesse combattere contro di loro perché gli assediati, pur di non arrendersi, avevano compiuto quello che il mondo ebraico non considerava per nulla un atto di valore, cioè il suicidio.

Come fecero i Romani a capire cosa era successo?

I Romani, trovandosi di fronte a un luogo apparentemente abbandonato e con le case e i magazzini in fiamme, alzarono alte grida per vedere se si faceva vivo qualcuno. Le loro urla furono udite dalle uniche due donne superstiti che, uscite dal loro nascondiglio, raccontarono ai Romani tutti i particolari dell’accaduto.

Poi cosa successe?

Increduli dinnanzi al racconto delle donne, i Romani cercarono di domare gli incendi appiccati ovunque, ma quando entrarono nel palazzo reale e videro sul pavimento una distesa di cadaveri non provarono esultanza per aver vinto una battaglia e annientato il nemico, ma piuttosto tanta ammirazione per quello che venne considerato dai vincitori come un nobile gesto.

Con la conquista di Masada finiva la prima rivolta dei Giudei contro i Romani.

I vincitori lasciarono una guaigione a Masada mentre il grosso dell’esercito toò a Cesarea Marittima ove risiedeva Erode. In tutta la zona non rimaneva più alcun focolaio di resistenza, tutta la Giudea, così come la Galilea e la Samaria, era stata di nuovo sottomessa all’Impero di Roma.

Masada si sacrificò per non arrendersi, ma ugualmente venne conquistata dai Romani, la notizia di quello che successe si diffuse rapidamente per tutto l’Impero.

Sì, tanto che le comunità ebraiche sparpagliate lungo le coste del Mediterraneo vennero sospettate come potenziali focolai di ribellione. Vennero quindi sorvegliate e tenute d’occhio con un’attenzione particolare da parte delle legioni romane.

Sul popolo ebraico, che effetto ebbe?

Ne rimase un vivo ricordo per molti secoli, ma poi la storia di Masada cadde nell’oblio. Anche la sua esistenza fu dimenticata. La fortezza fu riscoperta nel solo 1834 e venne riportata alla luce dagli scavi del 1963 a opera di Yigael Yadin. È dalla prima metà del secolo scorso che è partito un processo di riscoperta e valorizzazione di quell’epopea, fonte di orgoglio identitario per l’Israele di oggi.

Quindi oggi Masada, dal moderno stato d’Israele, viene ricordata positivamente?

Per far capire quanto Masada sia profondamente radicata ancora oggi nel popolo di Israele, basti pensare che tutte le reclute che entrano a far parte dell’Esercito, della Marina o dell’Aviazione giurano sulla spianata di Masada con questa formula: «Masada non cadrà mai più, lo giurate voi?» e le reclute alzando il braccio destro rispondono all’unisono gridando: «Lo giuro!».

Questo fatto ci aiuta a capire come passato e presente siano strettamente intrecciati nella memoria del popolo di Israele, quello che anticamente fu un sacrificio collettivo e in definitiva una sconfitta della guaigione giudaica di fronte all’Impero Romano, si trasforma in un atto fondamentale nella vita dei giovani dell’Israele dei nostri giorni quando pronunciano un giuramento così impegnativo per loro stessi e per il loro paese.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 


Nota

Entrata nell’oblio dopo la conquista araba, la fortezza di Masada (oggi «patrimonio dell’Umanità» protetto dall’Unesco) toò alla luce nel 1834, mentre la storia dei suoi difensori entrò nella leggenda soprattutto dopo la seconda guerra mondiale con il crescere del sionismo, diventando funzionale a una visione eroica del nascente stato di Israele. Il racconto di Giuseppe Flavio (uno storico ebreo, spesso accusato di essere partigiano perché asservito ai Romani) è molto sobrio e si conclude con un giudizio molto negativo sul suicidio collettivo che, pur avendo suscitato una notevole ammirazione nei conquistatori, non poteva essere accettato dalla visione religiosa del popolo d’Israele.
Ai primi scavi degli anni 1963-64, ne seguirono altri, accompagnati da studi più approfonditi di storiografia comparata a opera delle stesse università israeliane. Tali studi hanno evidenziato come i difensori di Masada fossero stati membri del solo gruppo dei «Sicari», noti per il loro fanatismo e l’uso indiscriminato dell’assassinio come mezzo di lotta politica. Tale gruppo era stato cacciato per la sua eccessiva violenza da Gerusalemme dal popolo stesso, capeggiato dagli «Zeloti», subito dopo le prime fasi della rivolta contro i Romani. Fuggiti dalla città, nel 66 i «Sicari» avevano occupato Masada e, per rifoirsi di cibo, avevano razziato alcuni dei villaggi vicini massacrandone tutti gli abitanti, donne e bambini compresi.
Dalle tracce archeologiche risulta inoltre come non abbiano offerto molta resistenza ai Romani, i quali, dopo aver prima sistematicamente eliminato, dopo battaglie feroci, altre fortezze dove i fuggiaschi da Gerusalemme si erano rifugiati, da ultimo presero Masada quasi senza colpo ferire dopo alcuni mesi di assedio. Il suicidio collettivo, cui sopravvissero solo due donne e quattro bambini, colpì profondamente i Romani, che lo consideravano un atto di grande onore.
Si veda in proposito l’ebook «Masada Myth: Collective Memory and mythmaking in Israel», di Nachman Ben-Yehuda, distribuito in Italia da Feltrinelli.

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