Spreco, quindi esisto

La lunga strada del cibo verso la discarica

Ogni anno si sprecano 1,3 tonnellate di cibo nel mondo. Dodici miliardi di euro solo in Italia. Molti sono prodotti non vendibili per usi diversi, non avariati, finiscono in discarica. Prodotti agricoli distrutti per ragioni di mercato. Cibo sprecato nelle mense scolastiche e ristoranti. L’impatto ecologico, sociale ed economico è elevato.

Nel nostro opulento mondo occidentale assistiamo sempre più spesso a un fenomeno inimmaginabile fino a qualche decennio fa: tonnellate di cibo finiscono nella spazzatura. Basta dare un’occhiata ai cassoni dei rifiuti vicino ai supermercati, per trovarci dentro sacchi pieni di prodotti di ogni tipo, ancora perfettamente commestibili, ma con qualche difetto nella confezione, oppure in prossimità della data di scadenza o, nel caso della frutta, con qualche ammaccatura, che però non ne compromette le qualità organolettiche, ma solo quelle estetiche. Anche i cassonetti situati vicino alle nostre abitazioni ospitano sempre più spesso grandi quantità di cibo avanzato, specialmente dopo le festività più importanti. Ad esempio tra la vigilia di Natale 2011 e Capodanno in Italia sono state buttate circa 440.000 tonnellate di cibo, per un valore totale di circa 1,32 miliardi di euro, equivalenti a più di 50 euro per famiglia. Latticini, uova e carne rappresentavano il 43% del totale, il pane il 22%, la frutta e la verdura il 19%, la pasta il 4% ed infine i dolci il 3%. Il 20% del totale della spesa alimentare degli italiani per le festività è finito nella spazzatura, nonostante la crisi economica  abbia fatto diminuire del 10% la quantità di cibo acquistata, rispetto all’anno precedente. Secondo la Fao, la tendenza allo spreco di cibo nel mondo occidentale è cresciuta del 50% dal 1974 a oggi, e attualmente vengono sprecate, dal campo alla tavola, 1,3 miliardi di tonnellate di cibo ogni anno, così suddivise: 670.000 tonnellate nei paesi industrializzati e 630.000 in quelli in via di sviluppo. Le popolazioni europee e nordamericane contribuiscono a questo spreco nella misura di 115 chili a testa all’anno, contro i 6-11 chili delle popolazioni dell’Africa sub-sahariana e del Sud-Est asiatico. Tutto questo, nonostante le persone che soffrono la fame nel mondo siano 925 milioni, secondo il rapporto Fao del 2010 e nella sola Europa vi siano 80 milioni di persone sotto la soglia della povertà. Mentre nei 27 paesi dell’Unione europea c’è uno spreco pro-capite annuo pari a 179 chili di cibo, solo in Italia si getta ogni anno una quantità di cibo che potrebbe soddisfare le necessità alimentari dei tre quarti dell’intera popolazione (cioè potrebbe nutrire 44 milioni di persone).
Traducendo il nostro spreco alimentare in cifre, possiamo dire che vanno persi lungo la filiera alimentare (produzione agricola, trasformazione industriale, distribuzione, consumo) 12 miliardi di euro, corrispondenti a circa 20 milioni di tonnellate di cibo. Soltanto gli ipermercati buttano ogni giorno 250 chili di cibo. Ogni anno, inoltre, vengono lasciate nella spazzatura circa 250.000 tonnellate di carne e, se pensiamo che per produe un solo chilo sono necessari 15.000 litri di acqua, ci rendiamo subito conto dell’impatto devastante sull’ambiente di questa insensata gestione del cibo.

Da spreco a risorse
Il fenomeno dello spreco alimentare in Italia è stato attentamente studiato da Last Minute Market (www.lastminutemarket.it), centro studi accademico dell’Università di Bologna, che si è occupato delle cause e delle conseguenze del fenomeno ed ha pubblicato i risultati della ricerca ne «Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo», a cura di Andrea Segrè e di Luca Falasconi, Edizioni Ambiente, 2011. Oltre a questa pubblicazione,  l’organizzazione è specializzata nella raccolta del surplus alimentare presso alcuni supermercati in Italia ed alla sua successiva distribuzione ai bisognosi. Tra le sue iniziative, c’è stata l’organizzazione della conferenza «Transforming food  waste into a risource» (La trasformazione dello spreco del cibo in risorsa), svoltasi a Bruxelles il 28 ottobre 2010, a cui hanno partecipato le organizzazioni Fareshare (Gran Bretagna), Stop Food Wasting Movement (Danimarca) ed Andes (Francia). In questa circostanza è stata elaborata la Dichiarazione congiunta contro lo spreco alimentare, in cui è stato posto come obiettivo prioritario l’abbattimento del 50% dello spreco alimentare entro il 2025. Inoltre è stato fatto un appello alle Nazioni Unite perché la lotta allo spreco alimentare venga inserita nel 7° degli Obiettivi del Millennio (Assicurare la sostenibilità ambientale).
Dalla ricerca condotta da Last Minute Market risulta che in Italia le percentuali di alimenti sprecati, rispetto al totale disponibile, variano dal 34 al 55%, a seconda delle categorie di prodotti, con una tendenza a superare il 50% di spreco per verdura, frutta, bevande alcoliche e carne. I prodotti cerealicoli sprecati rappresentano poco più del 40%, mentre i prodotti ittici il 33,6%. Nel caso dei cereali, il minore spreco è dovuto a una inferiore deperibilità rispetto alle altre categorie, mentre i prodotti ittici sono sottoposti ad una filiera tecnologicamente migliore.

Cosa e quando buttiamo?
Per quanto riguarda le tipologie di prodotti alimentari sprecati,  possiamo distinguere tra una prima formata da tutti quei prodotti, che hanno perso le caratteristiche organolettiche ed igieniche minime perché possano essere considerati commestibili; la seconda è rappresentata da quegli alimenti definiti sub standard, perché non in possesso di determinate caratteristiche estetiche e tuttavia perfettamente commestibili. Da studi condotti negli ultimi dieci anni, risulta che grandi quantità di cibo sano, appartenente alla seconda categoria, vengono perse ad ogni livello della filiera agroalimentare. Possiamo parlare in questo caso di sprechi alimentari evitabili, cioè prodotti non più vendibili per ragioni diverse, che, non essendoci un uso alternativo, finiscono in discarica. È opportuno soffermarsi su ogni punto della filiera , prendendo in considerazione lo spreco nei campi, nell’industria alimentare, nella distribuzione e nelle nostre case.
Per quanto riguarda lo spreco nei campi, secondo i dati Istat del 2009 poco più del 3,3% della produzione agricola italiana non è stata raccolta. I motivi sono vari, tuttavia nessuno di questi compromette le qualità organolettiche e quindi la consumabilità dei prodotti. Si va dalla non conformità a determinate caratteristiche estetiche (ad esempio verdure fuori pezzatura oppure colpite dalla grandine), a ragioni eminentemente commerciali, come il mantenimento dei prezzi a un certo livello, grazie all’eliminazione di una parte del prodotto; oppure l’abbandono dello stesso nei campi da parte degli agricoltori, perché i costi di raccolta sono superiori al prezzo di mercato. La quantità effettiva di prodotti agricoli abbandonati nei campi nel 2009 è stata di 17.700.586 tonnellate. Se consideriamo in particolare il settore ortofrutticolo, nello stesso anno, è stata sprecata una quantità di ortofrutta (7 milioni di tonnellate) che avrebbe potuto soddisfare le esigenze quasi di una seconda Italia.
I prodotti agricoli, nel loro viaggio dal campo alla nostra tavola, possono essere fermati nelle cornoperative e nelle organizzazioni di produttori, che hanno il compito di applicare le norme previste dall’Organizzazione Comune di Mercato (Ocm), le quali prevedono il ritiro dal mercato di parte delle merci, per evitare il crollo dei prezzi. In questo caso, i prodotti ritirati  sono destinati in piccola parte al consumo di fasce deboli della popolazione, il resto viene utilizzato per la produzione di alcol etilico, al compostaggio ed all’alimentazione animale. La quantità di prodotti ortofrutticoli ritirati dal commercio ogni anno nei paesi dell’Unione Europea è di circa 300.000 tonnellate. Vale la pena di considerare che l’Unione Europea nell’annata agraria 2005-2006 ha stanziato 32 milioni di euro, di cui 6,8 solo all’Italia e questo denaro è servito per finanziare l’acquisto, la logistica e, nel 90% dei casi, la distruzione dei prodotti. Un vero e proprio sperpero di denaro pubblico.
A livello dell’industria alimentare, lo spreco annuale di cibo è di circa il 2,6% rispetto alla produzione finale totale, pari a quasi 1,7 milioni di tonnellate, e di questo quantitativo solo una piccola parte viene destinata a enti assistenziali, mentre la maggior parte diventa rifiuto, per giunta non sempre avviato alla raccolta differenziata.
Per quanto riguarda la distribuzione, un’indagine condotta a livello dei mercati all’ingrosso (centri agroalimentari e mercati ortofrutticoli) ha mostrato una perdita annuale dei prodotti gestiti come rifiuti dell’1-1,2%. Almeno un terzo di questi prodotti però potrebbero essere perfettamente utilizzati, perché presentano danni del tutto irrilevanti, mentre due terzi potrebbero essere recuperati con un’oculata gestione degli stock (uso di celle frigorifere, giacenza monitorata). Nel 2009 le perdite di prodotti ortofrutticoli a livello di distribuzione sono ammontate a 109.617 tonnellate. Per quanto riguarda il mercato all’ingrosso, questo spreco può ancora una volta essere riconducibile a ragioni di mercato volte al mantenimento dei prezzi. Nel caso della grande/ media distribuzione organizzata lo spreco di cibo può essere dovuto ad una cattiva programmazione delle foiture, ma più spesso alla manipolazione dei prodotti da parte dei clienti, che ne danneggiano l’estetica, rendendoli meno desiderabili. Nel 2009 le attività commerciali alimentari italiane hanno sprecato 263.645 tonnellate di alimenti, di cui il 40% erano prodotti ortofrutticoli.

Consumatori spreconi
L’ultimo anello della catena agroalimentare è rappresentata dai consumatori, cioè da tutti noi. Secondo la ricerca di Last Minute Market, nelle mense delle scuole italiane viene sprecata ogni anno una quantità di cibo pari al 13-16% degli acquisti effettuati. I motivi sono molteplici. Sicuramente la distrazione può essere responsabile del cibo lasciato ad invecchiare nel frigorifero o nella dispensa. Anche le allettanti offerte del «tre per due», i «sottocosto», che si possono trovare nei supermercati, oppure la difficoltà a reperire le confezioni monodose per i single sono spesso alla base dello spreco alimentare. Probabilmente tuttavia tendiamo a non porre attenzione al cibo che sprechiamo semplicemente per mancanza di un’adeguata educazione in proposito, se non addirittura a causa dell’errata convinzione, peraltro inculcataci dal sistema economico attuale, che maggiori consumi equivalgono a più benessere.

Spreco ad alto impatto
Lo spreco alimentare è responsabile degli impatti ambientale, economico, nutrizionale e sociale.
Per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti alimentari, ogni tonnellata genera 4,2 tonnellate di CO2, quindi ogni anno vengono rilasciate nell’atmosfera oltre 8 milioni di tonnellate di CO2  solo in Italia, come diretta conseguenza dello spreco di circa 20 milioni di tonnellate di cibo. L’impatto ambientale generato dallo spreco del cibo si valuta considerando tre diversi parametri: l’impronta del carbonio, l’impronta ecologica (ovvero la quantità di terra o di mare consumate nella produzione dei cibi) e l’impronta idrica (l’acqua consumata in tutti i processi della filiera agroalimentare).
La prima non si riferisce unicamente al processo di smaltimento dei rifiuti alimentari, che genera anche metano, ma si riferisce alla quantità di CO2 generata lungo tutti i processi e comprende quindi anche le emissioni generate nella produzione dei pesticidi e dei fitofarmaci adoperati, nelle trasformazioni industriali e nel trasporto.
L’impronta ecologica si riferisce alla quantità di terreno o di mare biologicamente attivo, necessaria per produrre la quantità di cibo per ciascuno di noi, nonché la quantità per smaltire i rifiuti generati. Non è solo l’estensione della superficie del terreno utilizzato per soddisfare le nostre necessità, ma anche tutto quello che essa rappresenta in termini di biodiversità, stabilità climatica, fissazione dell’energia solare e conversione in materie prime. Sulla base dei consumi attuali, l’Italia ha un’impronta ecologica di 4,2 ettari pro-capite, ma la sua biocapacità è soltanto di un ettaro, quindi esiste un deficit ecologico di 3,2 ettari globali pro-capite (l’ettaro globale o gha è l’unità di misura dell’impronta ecologica).
L’impronta idrica si riferisce al consumo delle risorse idriche lungo la filiera agroalimentare e tiene conto anche dell’acqua necessaria per la produzione dei beni di consumo. In Italia lo smaltimento dei rifiuti alimentari genera un consumo d’acqua pari a 105 milioni di metri cubi all’anno. Se poi consideriamo la quantità d’acqua usata per l’agricoltura, quella relativa alla quantità di cibo sprecato è di 5,3 miliardi di metri cubi all’anno, un quantitativo sufficiente a dissetare tutti gli abitanti del Kenya per 270 anni. 
L’impatto economico dovuto allo spreco di cibo è rappresentato dal mancato guadagno che si sarebbe potuto realizzare, se quel cibo fosse stato venduto al prezzo di mercato. Come visto sopra, per l’Italia è di 12 miliardi di euro per 20 milioni di tonnellate di cibo sprecate.
Per impatto nutrizionale si intende la quantità di nutrienti legati agli alimenti che vanno persi con lo spreco del cibo. Basta pensare, ad esempio, che la quantità di arance perse ogni anno contengono vitamina C pari al fabbisogno annuale di 13 milioni di persone, secondo quanto raccomandato dai La (Livelli di assunzione giornalieri raccomandati di nutrienti per la popolazione italiana). La quantità di pomodori da tavola lasciati in campo in un anno contiene invece vitamina E sufficiente per il fabbisogno annuale di circa 6,5 milioni di persone.

Rosanna Novara Topino

       

Rosanna Novara Topino

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