La mosca blu e le lusinghe del potere

Incontro con Frei Betto, teologo e scrittore brasiliano

Il famoso programma «fame zero» si è trasformato in un progetto assistenziale (bolsa familia) e collettore di voti. Avrebbe dovuto essere molto di più: un programma emancipatorio. A parte questo, i problemi strutturali del Brasile sono ancora tutti irrisolti: la riforma agraria e i senzaterra, la corruzione del potere, le incredibili diseguaglianze. Tutto male, dunque? No, perché sempre meglio «un’America Latina con Lula che senza». Su questo Frei Betto, teologo e scrittore di chiara e meritata fama, non ha alcun dubbio.

Durante gli anni dei governi militari, un’emittente televisiva lo chiamava «il frate del terrore». In carcere è stato dal 1969 al 1973, quando aveva 25 anni. Quattro anni che Carlos Alberto Libânio Christo conosciuto come Frei Betto non ha dimenticato. Religioso domenicano, teologo, scrittore di fama internazionale, Frei Betto è certamente una delle voci più autorevoli del Brasile e dell’America Latina.
Militante di movimenti e comunità cattoliche di base, è stato responsabile della pastorale operaia per 22 anni nella cintura industriale di San Paolo (detta ABC dalle iniziali delle città satelliti). Era stato nominato da mons. Claudio Hummes.
Qui conosce e diventa amico di un operaio e sindacalista di nome Luiz Inacio da Silva noto come Lula (1).
Ancora oggi, c’è sempre qualcuno che prova a rinfacciargli qualcosa: l’essere di sinistra, apertamente di sinistra; l’adesione alla Teologia della liberazione (Tdl); la stima verso la Cuba di Fidel Castro e il Venezuela di Hugo Chávez, il presidente latinoamericano più odiato dai media e dai politici occidentali. Lui non si scompone. Tranquillo, pacato, sicuro nelle risposte. Pur non essendo mai stato affiliato ad alcun partito politico (neppure al Partido dos trabalhadores, di cui fu tra i promotori assieme a Lula), Frei Betto ha dalla sua la forza della coerenza: l’essersi sempre schierato a fianco dei poveri e degli impoveriti, anche quando «la mosca azul» del potere lo ha blandito da vicino.

Il Brasile di Lula:
più delusioni o più successi?

Frei Betto perché è finita la sua collaborazione con il governo del suo amico Lula?  E soprattutto, lei è rimasto deluso da questi anni di presidenza?
«Prima di cominciare, chiariamo subito un punto di partenza: sia il Brasile che l’America Latina sono – oggi – migliori con Lula che senza Lula».

Detto questo, cosa non ha condiviso delle scelte politiche operate dall’ex operaio metallurgico e sindacalista divenuto presidente?
«La statura politica di Lula è stata costruita attraverso un movimento popolare. Una volta giunto al potere ha sbagliato appoggiandosi ad una sola gamba, quello del Congresso, dimenticando quella dei movimenti sociali.
Era l’unico presidente nella storia del Brasile ad avere la possibilità di reggersi su 2 gambe. Invece, non ha mantenuto i vincoli con i movimenti. Lula ha preferito un contatto diretto con i poveri senza la mediazione dei movimenti popolari. Questo, secondo me, è grave.
Adesso Lula ha l’appoggio dei più poveri e dei più ricchi.  I poveri perché oggi hanno migliori condizioni di vita, i ricchi perché oggi sono diventati ancora più ricchi.
Tutti gli altri che stanno nel mezzo sono – invece – sostenitori critici di Lula».

La riforma agraria,
assente ingiustificata

Il movimento dei sem terra aveva riposto molte speranze in Lula. Ma è rimasto deluso: il latifondo continua ad imperare e la riforma agraria non si vede…
«È vero. Sono convinto che il futuro capitalista del Brasile non esiste se non ci sarà una riforma agraria. Tra l’altro, questa è una proposta storica del partito di Lula, ma non c’è alcun segnale che si farà.
Assieme all’Argentina, il Brasile è il solo paese americano che non ha mai fatto una riforma agraria.
Eppure il Brasile è il paese con più terre coltivabili delle 3 Americhe. Senza contare l’Amazzonia che non è coltivabile, ma che è ricchissima di risorse e soprattutto regolatrice del clima dalla Florida alla Patagonia».

Lula e il Brasile si sono buttati nel business dei cosiddetti «biocombustibili», per la produzione di etanolo partendo dalla canna da zucchero. Lei è stato durissimo al riguardo…
«Affamare le persone per nutrire le automobili? Assurdo! Non si dovrebbe parlare di biocombustibili, ma di necrocombustibili. In greco, “bio” significa “vita”, mentre “necro” significa “morte”. Questo, secondo me, è il termine corretto per questi prodotti».

A gennaio 2009, Belem ospiterà il «Forum social mundial». Che ne pensa?
«Penso che avrà molto impatto perché si terrà in Amazzonia. Qui un territorio pari a 22 volte il Belgio è stato deforestato. E non ci sono misure contro questo disastro: il governo Lula è stato incapace di difendere l’Amazzonia. Non si chiede un santuario ecologico da chiudere al mondo, ma almeno uno sviluppo sostenibile.
Ora il governo ha un piano di strade da costruire o per pavimentare quelle esistenti. Però questo favorirà i latifondisti, i cercatori di pietre preziose, gli sfruttatori clandestini delle ricchezze del sottosuolo e delle foreste.
In Amazzonia, un metro cubo di legno prezioso vale 10 euro, mentre al porto di Genova vale 3.000 euro. Meglio che il commercio della cocaina il cui rapporto è di molto inferiore, più o meno100 a 1000!».

Anche gli affamati
votano…

Lei ha partecipato all’ideazione e – dal 2003 al 2004 – alla prima applicazione del programma «Fame zero» (Fome zero in brasiliano, Hambre cero in spagnolo, ndr).  Poi se ne è andato, quasi sbattendo la porta…
«Fondamentalmente il programma Fome zero era dato da 60 politiche pubbliche per beneficiare 11 milioni di famiglie, 44 milioni di persone, molto povere, miserabili. In un anno e mezzo queste persone avrebbero dovuto essere capaci di abbandonare il programma e andare avanti con le proprie forze. Insomma. Si trattava di un programma emancipatorio. Nel 2003 andò molto bene ed io ero molto carico. Nel 2004 Lula dimette il ministro e ne nomina un altro. Si cambia radicalmente il programma: ci sono famiglie entrate nel 2003 che ancora sono dentro; delle 60 politiche pubbliche ne è rimasta una sola – bolsa familia -, quella che prevede la distribuzione ogni mese di una somma a ciascuna famiglia.
Perché cambiarono? Perché scoprirono che il programma era una fonte fantastica di voti. Ogni famiglia che riceve questi sussidi vota per Lula e per i suoi. Soprattutto nel Nord-est.
All’inizio c’era un comitato di garanti della società civile, che decideva che famiglie entravano e uscivano. Lo hanno azzerato sostituendolo con sindaci e burocrati, pur sapendo dell’altissimo grado di corruzione di questi: infatti cominciarono ad entrare come beneficiari parenti, nipoti e così via.
Insomma, il programma era completamente cambiato rispetto agli inizi ed io non ero d’accordo. Pertanto, ne uscii. Dissi a Lula, che non avrei continuato con il programma. Era il dicembre del 2004 e ancora non si sapeva dei gravi casi di corruzione».

Vuoi conoscere una persona?
Dagli il potere…

La sua esperienza all’interno delle stanze del potere le ha consentito di scrivere qualcosa – qualcosa di forte – al riguardo…
«È vero. Ci sono 2 letterature perenni: quella mistica e quella che tratta del potere. Platone, Aristotele, Machiavelli: tutte le loro opere hanno resistito fino ad oggi perché sono rimaste attuali. 
Dopo la mia esperienza al governo, anch’io ho scritto due libri. Il primo è stato A mosca azul: reflexão sobre o poder, La mosca blu: riflessione sul potere. Mi ha molto impressionato vivere nel potere per quasi 2 anni e allora mi sono chiesto cosa accade alla gente quando arriva lì.
Sono uscito dal governo con due convinzioni: il potere non cambia nessuno ma fa sì che uno si riveli, si mostri nella sua vera natura. Qualsiasi potere!
La seconda convinzione è invece questa. L’essere umano ha 5 grandi tentazioni: primo il potere, secondo il potere, terzo il potere, quarto il denaro e quinto il sesso. Sono convinto di ciò. Per mesi mi sono preparato a scrivere questo libro sul potere.
Dopo ne presentai un altro dal titolo Calendario do poder, Calendario del potere, che è il mio diario all’interno del potere: riunioni, lettere, tutto. L’ho scritto perché io sentivo che ero pagato dalla popolazione del Brasile: res publica, cosa pubblica.
Come ho detto all’inizio: meglio con Lula che senza. Però, io sono un sostenitore critico».

Quali sono le cose significative fatte da Lula e dal suo governo?
«Il governo Lula ha ottenuto cose importanti. Per esempio, la stabilità economica del paese, in primis con l’inflazione ferma al 3-5%. Ora la gente può preparare meglio i propri bilanci familiari. Secondo, il salario minimo. Ai tempi di Cardoso era un sogno che superasse i 100 dollari, oggi passa i 300.
C’è “Luce per tutti”: con questo programma l’energia elettrica arriva in ogni angolo e la gente può comprarsi il suo frigorifero e il suo televisore. Non c’è repressione dei movimenti popolari, nonostante le grida di protesta dei ricchi e dei media. Al governo non stanno bene le manifestazioni dei semterra, ma non c’è repressione.
Ancora: non c’è più privatizzazione del patrimonio pubblico e delle aziende pubbliche. Lula inoltre ha aperto il Brasile alle relazioni inteazionali. È stato il primo presidente brasiliano ad entrare nel mondo arabo, prima riservato agli Usa.
Insomma, ci sono cose estremamente positive. Il problema è che il governo di Lula non ha cambiato le fondamenta del Brasile come la struttura fondiaria. Cosa succederà quando al governo non ci saranno più queste persone?».

Nel 2010 scadrà il mandato di Lula. Essendo il secondo consecutivo, non potrà ripresentarsi per un terzo periodo. È fiducioso sulla successione?
«Mica tanto. Perché il partito di Lula si è mosso confusamente.
Aveva 2 candidati per la successione a Lula ma ora non ha nessuno dei 2. Sono sospettati di mancanza di etica ed ora stanno fuori dai giochi. Quindi, Lula non sa su chi puntare. Quello di trasferire i voti ad un proprio successore designato non è una cosa automatica: occorre che questi abbia un minimo di carisma e di simpatia.
Aveva puntato su Dilma Rousseff, ministra della Casa civil, per importanza la seconda carica dello stato. Ma la donna è senza carisma e poi è stata coinvolta nello scandalo delle targhette di credito dei politici.
La legge non permette che un candidato sia eletto per 3 volte consecutive, ma nel 2014 Lula può tornare e, rimanendo così le cose, sono sicuro che questo accadrà. Sarà il primo brasiliano ad essere eletto presidente della Repubblica per 3 volte».

Chávez e gli altri:
l’importante è demonizzarli

Detto del Brasile di Lula, parliamo di America Latina in generale. Da qualche anno per essa si parla di «primavera democratica». Cosa ne pensa?
«Negli ultimi 40 anni abbiamo avuto 3 periodi: le dittature militari, i governi neoliberali ed ora i governi democratici popolari.
Le dittature militari hanno prodotto un costo umano estremamente grave, oltre ad un costo economico. Tutti i paesi andarono in bancarotta sotto quelle dittature. Poi le oligarchie abbracciarono la soluzione neoliberista uscita dal Consenso di Washington (2).
Ci furono la privatizzazione del patrimonio pubblico, la repressione brutale dei movimenti popolari e sindacali, una corruzione tremenda e – anche in questo caso – disastro economico (debito estero, dipendenza, deindustrializzazione).
A quel punto le popolazioni latinoamericane respinsero quelle oligarchie che avevano appoggiato prima le dittature e poi il modello neoliberalista. E iniziarono a cercare candidati che avevano “cara de pueblo” e non appartenevano a quelle classi sociali.
Da qui il prestigio politico di un Chávez, di un Lula, di un Morales, di un Correa, di un Ortega.
Una cosa va sottolineata: tutti costoro sono diventati presidenti attraverso processi impeccabilmente democratici».

Ma ciò sembrerebbe non bastare: molti dei presidenti che lei ha citato godono di pessima stampa negli Stati Uniti, in Spagna, in Italia. Ad esempio, Evo Morales e soprattutto Hugo Chávez Frias. Come lo spiega?
«Chávez può non essere una persona simpatica, ma non vi è alcun dubbio che per 8 volte è stato vincitore di competizioni democratiche. Come ha rispettato il giudizio popolare quando ha perso – per un solo punto percentuale – l’ultimo referendum sulla nuova Costituzione (dicembre 2007, ndr)».

Nel maggio 2007 Chávez non confermò la concessione dello stato a Radio Caracas Televisión (Rctv). Apriti cielo…
«Il presidente era nella piena legittimità quando non ha rinnovato una concessione statale a Radio Caracas Televisión appartenente ad un privato! In tutta l’America Latina, la televisione è proprietà dello stato e non del privato. Mi spiego: lo stato dà le concessioni, ma può ritirarle in qualsiasi momento, perché sono situazioni che rientrano nella sicurezza nazionale. La gente si dimentica di questo particolare.
Quando vedo questi mezzi di comunicazione che parlano di Chávez come fosse un mostro, mi viene rabbia. Perché questa gente non si rende conto che per l’America Latina questa potrebbe essere l’ultima occasione per dar vita ad un cambiamento in maniera pacifica e democratica. Se – ancora una volta – Europa e Stati Uniti creeranno instabilità politica nelle Americhe, allora non so cosa potrà accadere».

La situazione della Colombia si discosta molto da quella degli altri paesi latinoamericani. Che ne pensa lei?
«C’è un consenso tra la sinistra latinoamericana che in Colombia la lotta armata non ha futuro. Noi (ed io mi includo) abbiamo la responsabilità di pacificare la Colombia.
In 40 anni governo colombiano e Usa con le armi non sono riusciti a distruggere la guerriglia.  Dunque, occorre cercare un’uscita politica come in Salvador, come in Guatemala, come nello stesso Brasile.
Il piano era liberare i sequestrati e, come contropartita, i prigionieri. E poi inserire la guerriglia come partito politico, come in Nicaragua, in Salvador, in Guatemala.
Chi potrebbe parlare con le Farc? Nessuno meglio di Fidel Castro, che però è malato. Dopo Fidel, la miglior persona che possiede credibilità è Chávez. Bush, non volendo dare meriti al presidente venezuelano, ha ordinato ad Uribe di fare gli attacchi che hanno compromesso tutto il delicato disegno politico. Vedremo se le cose cambieranno con il nuovo presidente Usa».

Mettendo da parte la Colombia, in generale come vede la situazione dell’America Latina?
«Io sono molto ottimista. Stiamo vivendo il nostro migliore momento per l’integrazione latinoamericana. Abbiamo il Mercosur, l’Alba. E nessuno dà importanza all’Organizzazione degli stati americani (Oea)».

Lo stato nell’economia:  
ieri «ospite sgradito», oggi…

Appena fino a ieri, l’intervento dello stato nel sistema economico capitalista era visto come una disgrazia. Oggi tutto sembra rovesciato: patas arriba, «gambe all’aria», direbbe Eduardo Galeano…
«Se c’è una bugia ben raccontata è quella secondo la quale lo stato non deve entrare nell’economia. La realtà di oggi dimostra l’esatto contrario.
Se io volessi fare soldi, fonderei una banca. Il banchiere è come qualcuno che si getta in mare senza saper nuotare tanto ci sarà sempre qualcuno pronto a salvarlo.  È quello che sta accadendo, iniziando dagli Stati Uniti».

A parte i cambi di rotta dettati dalle contingenze del presente, cosa dovrebbe fare lo stato?
«Non è sufficiente che esso sia l’arbitro. Lo stato deve provvedere alla popolazione e, per principio etico, soprattutto ai poveri.
Un esempio concreto:  i paesi che hanno la migliore sanità ed istruzione sono quelli dove lo stato è più presente in queste aree.
In America Latina, qual è il paese  che presenta le migliori condizioni di salute ed istruzione? È Cuba.
Non c’è competizione tra un bambino brasiliano ed uno cubano!  In Brasile, ci sono 4 ore di lezione con una maestra impreparata e senza strumenti; a Cuba, le ore sono 8 e gli strumenti didattici (computers, in primis) non mancano. Insomma, c’è un altro livello di cultura e formazione.
Il Brasile ha uno dei più alti indici di violenza urbana del mondo: più di 40.000 morti all’anno. Quali sono le cause? Non è la povertà: ci sono paesi più poveri, per esempio in Africa. È la mancanza di scolarità.
Tra Rio e San Paolo ci sono 2.300.000 giovani (il dato è del 2004), tra i 14 e i 24 anni, che non hanno completato le scuole dell’obbligo, uscendone prima.
 L’80 per cento degli assassinati e l’80 per cento degli assassini viene da qui. Mi sembra che questo dica molto».

Quando la Tdl era
più temuta del marxismo

La Teologia della liberazione sta perdendo il contatto con la base?
«La Teologia della liberazione non è una scienza che si produce nei seminari o nelle accademie. La Tdl non è Leonardo Boff o Gustavo Gutiérrez (3). La Tdl sono le comunità di base e non il contrario. 
Gli anni d’oro della Tdl furono gli anni Settanta-Ottanta. La Tdl nacque dalla pratica dei cristiani nella loro lotta per la liberazione e trovò molta forza dall’imperialismo Usa in America Latina.
Nelson Rockefeller (rappresentante  del presidente Nixon ed autore del controverso The Rockefeller Report on Latin America, ndr) considerava la Tdl come più minacciosa dello stesso  marxismo. Effettivamente la Tdl ebbe molta influenza sia nella rivoluzione sandinista che in El Salvador.
Una volta sconfitta la rivoluzione sandinista e i movimenti guerriglieri dell’America Latina, la Tdl cominciò a non preoccupare più l’imperialismo.
Un altro fattore che ha contribuito a ridurre la spinta della Tdl è stata la fine delle dittature militari».

D’accordo sul ruolo dell’imperialismo Usa e delle dittature militari. Ma quale è stata la posizione del Vaticano rispetto alla Tdl?
«Con papa Giovanni Paolo II si ebbe un processo di “vaticanizzazione” dei vescovi, con un’attenzione particolare a favorire la nomina di coloro che non fossero legati alla Tdl.
Molti vescovi sono passati dalle comunità di base ai movimenti pentecostali e catecumenali, Comunione e liberazione, Rinnovazione carismatica. Ma le comunità ecclesiastiche di base non sono sparite. Oggi si concentrano non tanto sulla materia teologica quanto su quella biblica, sullo studio della Bibbia attraverso circoli biblici che producono una quantità incredibile di materiali. Però, sono guardati con pregiudizio dai vescovi.
Certamente non c’è più quella fame di conoscenza teologica degli anni Settanta, quando i libri di Gustavo e Boff si vendevano come pane caldo e c’era la fila davanti alle librerie quando uscivano.
Siamo in un momento di transizione non tanto per la teologia, ma per i riflessi politici nella teologia».

A proposito di libri, in quell’epoca anche lei fece notizia con un lavoro di risonanza internazionale…
«Fu nel 1985, quando uscì il mio libro intervista a Fidel, in cui questi riconosceva la validità della fede cattolica. Era la prima volta da parte di un presidente comunista al potere e questo ebbe un impatto tremendo in tutta la sinistra. In Cuba questo libro vendette un milione di copie con una popolazione di appena 11 milioni di abitanti».
Come religioso, come vede la situazione attuale della chiesa cattolica latinoamericana?
«Il modello organizzativo della chiesa ha fallito. Il suo è un metodo parrocchiale, premoderno, preurbano che presuppone che la gente comunichi per “prossimità geografica”. No, non è così: oggi la gente comunica per “prossimità elettronica”.
Il mio migliore amico può vivere in Torino anche se io vivo in San Paolo. Posso parlargli 3-4 volte al giorno per internet.
La chiesa cattolica in America Latina, e specialmente in Brasile, perde l’1% di fedeli all’anno. In 20 anni è passata dal comprendere il 91% della popolazione brasiliana all’attuale 71%. Anche perché non sappiamo usare i mezzi di comunicazione. Siamo artigianali, amatoriali. Parliamo nella televisione cattolica di noi e per noi. Ma non sappiamo parlare al pubblico non cattolico».

Quali alternative
al capitalismo in crisi?

Dove va l’America Latina? Anzi, cosa sogna lei per l’America Latina?
«Nessuno vuole più una lotta armata. E l’orizzonte socialista appare molto lontano. Oggi chiediamo di costruire un processo democratico partecipativo all’interno di una struttura che rimane capitalistica».

Il capitalismo sta vivendo una grave crisi di credibilità.  Ma sulle alternative non sembra esserci molta chiarezza…
«Molti di noi, di sinistra o vicini alla sinistra, pensano che il socialismo sia ormai una cosa del passato.
Io sono dell’idea che si debba costruire una società in cui tutti abbiano una democrazia politica ma anche una democrazia economica. Quest’ultima si avrà soltanto quando i beni saranno equamente divisi tra la gente, cosa che adesso non avviene. Questo significa che non esiste una democrazia economica.
In ogni caso, io continuo ad essere convinto che il capitalismo sia incompatibile con i diritti umani e con il vangelo». 

Di Paolo Moiola

Note

(1)  Il tornitore che sfidò i potenti, intervista a Luis Inacio da Silva detto Lula, MC dicembre 1999, a cura di Paolo Moiola. Disponibile anche in spagnolo e in inglese. Si veda inoltre: Paolo Moiola, Il Brasile riconferma la speranza, MC, gennaio 2007.
(2) Il termine «Consenso di Washington» fu coniato nel 1989 dal ricercatore John Williamson dell’Istituto di Economia internazionale della capitale Usa. Da una riunione tra gli Usa e 10 paesi dell’America Latina, Williamson trasse un documento – appunto il Consenso di Washington – in cui si prescrivevano 10 misure per riformare la politica economica latinoamericana: rigida disciplina fiscale, riduzione della spesa pubblica, politica di liberalizzazioni, privatizzazione dei beni pubblici, eccetera. Era la rigida applicazione della filosofia e dei dettami neoliberisti.
(3)  Si leggano le interviste a Gustavo Gutiérrez raccolte da Paolo Moiola: Gli esclusi non si arrenderanno, MC, febbraio 1998; «Ma i giovani statunitensi mi dicono che…», MC, dicembre 2003. Sul teologo peruviano e sulla teologia della liberazione si leggano – inoltre – le opinioni (contrapposte) di Mons. Bambaren e Mons. Cipriani: MC, maggio 2000, a cura di Paolo Moiola.

Il Mondo capovolto

Ieri: libero mercato, privatizzazioni, deregulation, profitti, crescita. E il loro corollario: speculazioni, diseguaglianze crescenti, devastazione ambientale. Oggi: crollo, crisi, recessione, disoccupazione. A gran voce si reclama l’intervento dello stato, fino a ieri ripudiato. Ma basterà? E ancora: è utopia costruire qualcosa di diverso e migliore?

 
Sta avvenendo come per le guerre in Iraq ed Afghanistan, che da «giuste», «inevitabili», «umanitarie» sono diventate uno sbaglio che si vorrebbe riparare ma non si sa come. Il modello economico fondato sul capitalismo neoliberista è caduto in disgrazia, travolto da errori e contraddizioni. Fino a ieri, il libero mercato era la soluzione, anzi l’unica soluzione, per il progresso dell’umanità. Non si volevano regole e lacciuoli perché frenavano il dispiegarsi delle forze economiche (private). La fantasia umana ha così potuto volare libera ed ha partorito un mondo fondato sulla speculazione finanziaria e sull’inganno che ha portato vantaggi a pochi e danni a molti, in primis alle popolazioni del cosiddetto Terzo mondo (impoverite) e all’ambiente (devastato).
Oggi, fa effetto sentire politici ed economisti neoliberisti che spiegano (tentano di spiegare) il crollo di quello che consideravano il solo sistema economico possibile. Ci dicono che il fallimento è dovuto ad alcune mele marce che, per proprio tornaconto, hanno tradito lo spirito del capitalismo e che lo stato (fino a poco tempo fa, disprezzato secondo i notissimi slogan: «meno stato, più mercato»; «meno pubblico, più privato») deve tornare in campo per riparare i danni e ripristinare la fiducia. Oggi è giusto ricordare quelle organizzazioni (dal Forum social mundial ad Attac alla maggior parte delle Ong) e quei presidenti (soprattutto latinoamericani: Chávez e Morales su tutti), che – pur attaccati e spesso derisi –  hanno sempre criticato quel sistema.
Un discorso a parte meritano i mezzi di informazione. In Italia, è interessante vedere l’imbarazzo di coloro che – su media importanti – avevano magnificato il sistema, mentre persone competenti e preparate su piccoli media – Tonino Pea e Francuccio Gesualdi su Altreconomia, Andrea Di Stefano su Valori, tanto per citae alcuni – da tempo parlavano di insostenibilità di questo modello economico e della sottostante filosofia neoliberista. Rispettabile la posizione de Il Sole 24Ore, quotidiano della Confindustria, che nella prefazione di un suo ottimo libro scrive: «Dalla grande crisi non usciremo soltanto più poveri, ma verranno profondamente cambiati molti dei paradigmi della nostra vita contemporanea: l’idea stessa della libertà di mercato, la natura dei rapporti fra pubblico e privato (…) un altro mondo, ma non per questo necessariamente peggiore, se avremo la capacità e la lungimiranza di riscoprire la centralità dell’impresa e la civiltà del lavoro, liberandoci dall’illusione , fortemente diseducativa, che il denaro produca da solo altro denaro» (2).
Ma le notizie più sorprendenti arrivano dall’estero. L’inglese The Times, quotidiano conservatore, in ottobre pubblica un lungo articolo (2) in cui, inopinatamente, si chiede: «Ma allora aveva ragione Marx?». Meno tecnica ma più umana l’opinione di Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera: «Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate. Poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perché aveva ragione. Nella sua analisi della situazione (…) ci sono punti inconfutabili. (Marx) ha bene analizzato il carattere di merce del lavoro e previsto la mercificazione di tutti i settori della vita. (…) Con il tipo di capitalismo ereditato dalla Seconda guerra mondiale non andiamo lontano» (3).
Assai più modestamente, avevamo visto giusto anche noi di Missioni Consolata quando – pur criticati da una parte dei lettori – scrivevamo dei guasti prodotti dal neoliberismo e dalle politiche delle amministrazioni statunitensi.
L’economia non è una scienza esatta. Anzi, forse non è neppure una scienza (4). Sarebbe importante che tornasse ad essere una materia finalizzata all’interesse collettivo, avendo come elementi centrali l’equità distributiva, la sobrietà dei consumi e il rispetto degli equilibri ambientali. Insomma, l’esatto contrario di quanto avvenuto fino ad oggi.

Paolo Moiola

(1) Ferruccio de Bortoli, Il mondo che verrà cambierà la vita di tutti, in AaVv, La grande crisi. Domande e risposte, i libri de Il Sole 24 Ore, ottobre 2008.
(2) Philip Collins, Karl Marx: did he get it all right?, The Times, 21 Ottobre 2008; reperibile sul sito del quotidiano.
(3) Su Der Spiegel, settimanale tedesco, 25 ottobre 2008, ripreso dal quotidiano La Stampa del 26 ottobre 2008; le tematiche sono analizzate nel recente libro del prelato tedesco dal titolo Il capitale. Una difesa dell’uomo.
(4)  Come suggerisce Giovanni Sartori, Corriere della sera, 19 ottobre 2008.

Paolo Moiola

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