Perù. Contro i terroristi, contro l’ingiustizia

L’epoca di Sendero Luminoso è durata 20 anni; l’ingiustizia e la povertà fanno da sempre la storia del paese latinoamericano.
Gastón Garatea Yori, prete di Lima, lotta per riparare ai danni del terrorismo e per dare una vita dignitosa alla popolazione peruviana che ancora vive nella povertà.

Lima. In Perù è molto conosciuto perché presidente della Mesa de concertación para la lucha contra la pobreza, organismo contro la povertà istituito nel gennaio 2001. Padre Gastón Garatea Yori mi accoglie nel suo ufficio al 1155 di Avenida Benavides, a Miraflores, un distretto della capitale peruviana. Barba e capelli bianchi, padre Garatea, 66 anni, ha l’aspetto di una persona tranquilla e semplice. Sul tavolo del suo ufficio sono impilati i 9 volumi dell’Informe final, il rapporto finale della Comisión de la verdad y reconciliación, la commissione istituita per indagare su 20 anni (dal 1980 al 2000) di terrorismo e guerra civile in Perù. Padre Garatea è uno dei 12 membri di quella commissione, che nel paese tanto ha fatto discutere.

La guerra civile in Perù:
69.280 vittime

Presidente della Tavola nazionale per la lotta alla povertà, membro della Commissione per la verità e la riconciliazione: lei è una persona importante, padre…
«Non tanto – si scheisce -. Non credo. Lei mi conosce soltanto perché fa il giornalista».

Il rapporto finale della Commissione per la verità e la riconciliazione è stato presentato il 28 agosto 2003, dopo due anni di lavoro. Qual è il suo giudizio?
«Era stato previsto che questo lavoro sarebbe durato 6 o 7 anni, mentre poi è stato concluso in due. Abbiamo indagato il fenomeno del terrorismo in Perù e i motivi che lo hanno determinato. Abbiamo fornito una interpretazione storica. Siamo quindi arrivati a tutti i punti importanti, i punti chiave, e questo è giusto sottolinearlo.
Io credo che la Commissione per la verità sia stata una delle più grandi iniziative intraprese in Perù».

E che ci dice sulle persone che l’hanno composta?
«Un eccellente gruppo, costituito da persone molto competenti. Sì, non ho dubbi al riguardo: persone valide, indipendenti, disinteressate, votate alla sola ricerca della verità, persone animate da un grande spirito di gruppo. Avevamo molte diversità (di provenienza, radici ideologiche, professione), siamo però riusciti a lavorare in gruppo, con grande spirito comunitario».

Il vostro rapporto parla di 69.280 vittime.
«… ma forse sono di più. Significa circa due milioni di persone coinvolte».

Le vittime furono in grande maggioranza poveri, molti parlavano “quechua” ed erano semianalfabeti…
«Quando le persone morivano sulla sierra, il potere centrale e la gente continuavano la propria vita come se nulla fosse successo. Quando l’ondata di terrorismo giunse a Lima, allora sì che le cose vennero prese sul serio».

Il gruppo di “Sendero Luminoso” è stato ritenuto responsabile del 54% di quelle vittime. Su quali basi ideologiche si formò Sendero?
«Ebbe un fondamento comunista-marxista-leninista-maoista che si proponeva di aiutare il popolo peruviano. Ma fu un’esperienza fallimentare: si cercò di imporre un regime totalitario basato sulla dittatura del proletariato. Questa dittatura avrebbe dovuto essere conseguita alla maniera di Mao: attraverso una rivoluzione che doveva partire dalle campagne per arrivare in città. Per questo si cominciò con una sensibilizzazione dei contadini. Io credo che questo lavoro non venne fatto a dovere. Si iniziò, ma non fu tanto incisivo quanto fu forte la violenza e la violenza, una volta innescata, non si riuscì più a fermarla. E, come succede spesso, i movimenti che usano la violenza non hanno più tempo per pensare».

Il “Movimiento revolucionario Tupac Amaru”, meglio noto con l’acronimo Mrta, è stato ritenuto responsabile soltanto dell’1,5 per cento delle vittime. In che differirono da Sendero?
«L’Mrta ebbe una grande risonanza per l’assalto all’ambasciata del Giappone (dicembre 1996-aprile 1997), ma non ebbe mai la stessa forza di Sendero, né la stessa organizzazione. Nell’Mrta c’era più consapevolezza politica; assaltavano banche e a volte uccidevano, ma non si potevano paragonare alla forza distruttiva di Sendero».

Il rapporto della Commissione è molto duro anche nei riguardi delle forze armate e della polizia. Come reagì lo stato all’inizio della guerra sporca?
«Lo stato reagì in modo sbagliato, perché non capì l’impatto politico. Pensò piuttosto che si trattasse di delinquenti comuni e agì di conseguenza».

Alla guida del paese ci furono presidenti diversi…
«All’inizio ci fu Feando Belaunde (1980-1985), seguì Alan García (1985-1990) e infine Alberto Fujimori. La guerra ebbe varie tappe. Il biennio più duro fu tra il1983 e l’84. Lo stato non capiva chi stava affrontando e tutto quello che si faceva era uccidere e questo fu un gran errore. Quando Alan García diventò presidente affermò che il terrorismo andava combattuto con lo sviluppo e questa avrebbe potuto essere una buona tattica, molto interessante. Cominciarono a diminuire gli attentati. Però nel giugno 1986 ci fu una rivolta in tre carceri di Lima (Lurigancho, El Fronton e Santa Barbara). Il governo ordinò l’intervento delle forze armate e ci fu una mattanza di prigionieri. Così arrivammo all’anno ’89 con un altro picco di violenza. Poi iniziarono a venire alla luce molti fatti: la corruzione nell’esercito, i legami tra Sendero e il narcotraffico, le infiltrazioni nei corpi dello stato…».

Poi, nel 1990, arrivò Alberto Fujimori e con lui Vladimiro Montesinos…
«Fujimori si rese conto che il terrorismo era la cosa più tragica e si buttò in questa guerra terribile avvalendosi dell’intelligence. Assestò duri colpi al terrorismo, ma allo stesso tempo diffuse la corruzione che arrivò ai massimi livelli. Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti, aveva in pugno Fujimori e Fujimori accettava tutto».

Anche esecuzioni, sparizioni, torture, stupri. Anche i tribunali militari e i giudici “sin rostro”, senza volto perché erano incappucciati…
«I tribunali militari emettevano giudizi sommari e i giudici senza volto definivano sentenze ancora prima di iniziare i processi. I militari non erano giudici, non avevano una preparazione in tema di giustizia. Insomma, il sistema non permetteva l’esercizio di una giustizia giusta».

Il capo di Sendero, Abimael Guzmán Reinoso, detto Presidente Gonzalo, è incarcerato dal settembre 1992. Lei lo ha mai incontrato?
«Sì, nella base navale, dove è rinchiusa la cupola delle due organizzazioni. Ci sono anche Feliciano, Miguel Rincón Rincón, Victor Polay Campos».

Come fu l’incontro con lui?
«Un incontro istituzionale. Si sarebbe potuto credere più impressionante, ma lui è un filosofo. Certo un filosofo di secondo piano, ha elaborato una concezione molto chiusa, ermetica. In questo senso, non discute con l’altro: racconta, ma non si mette in discussione, non si lascia interrogare, come sarebbe proprio del filosofo che vive l’angustia delle domande. Guzmán ritiene invece di avere i suoi concetti ben chiari, di tenere il pensiero saldamente nelle sue mani».

Quanti anni ha ora?
«Una settantina. Non è molto vecchio ma è malandato di salute, perché ha sulle spalle tanti anni di carcere duro. Inizialmente aveva il diritto di uscire dalla cella solo mezz’ora al giorno e c’erano anche dei giorni in cui non poteva uscire. È stato condannato ad un anno di isolamento totale che poi sono diventati quattro anni. C’è da meravigliarsi che non sia ancora più provato da questo regime carcerario molto duro. Non è un uomo denutrito, è ben vestito, è lucido, segue bene la conversazione. L’ho trovato realista, è consapevole che morirà in carcere. Non si fa illusioni».

Prova compassione nei confronti di quest’uomo su cui gravano responsabilità tanto pesanti?
«Certo, si prova pena, perché è un essere umano, ma è una pena relativa se si pensa alle cose che ha fatto».

Il governo di Toledo ha ostacolato il vostro lavoro?
«All’inizio c’è stata molta gente che era contro la Commissione per la verità; ci trattavano come tendenziosi, ci fu gente che espresse giudizi gratuiti, alcuni addirittura ci insultarono. Da parte del governo non siamo stati sottoposti ad alcun tipo di pressione. Altri invece sì, ci hanno tenuti sotto pressione, anche indagando sul passato di uno o di un altro membro della Commissione, cercando di metterci in cattiva luce».

Il partito aprista (Apra,”Alleanza popolare rivoluzionaria americana”) era al governo negli anni duri della guerra. Come ha guardato al vostro lavoro?
«L’Apra ci ha seguito molto. Temeva che attaccassimo la sua dirigenza, ma noi non avevamo nulla contro il partito, anche se è certo che abbia agito molto male in varie circostanze. Contro l’Apra avevamo argomenti etici, politici, sociali, ma nulla di penale».

Dopo due anni di lavoro nella Commissione, cosa sente dentro di sé?
«Molte cose. Non siamo gli stessi di quando abbiamo iniziato: quello che abbiamo visto e sentito; le lacrime e la pena di vedere questo paese dissanguarsi. Tutti noi siamo stati colpiti. Io sono diventato diabetico».

Uno degli imperativi della Commissione dice: “Un país que olvida su historia está condenado a repetirla”, un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla. Bello, ma la verità è stata raggiunta?
«Sì».

Solo la verità? E la giustizia?
«In un qualche modo anche la giustizia. La maggior parte dei senderisti è stata imprigionata e questa è già giustizia. Ci sono state detenzioni di militari ma all’appello ne mancano. Manca infine tutto quello che riguarda le riparazioni, tanto collettive quanto individuali».

Le riparazioni alle vittime non si sono viste. Ma anche le richieste di “cambi istituzionali” in vari ambiti (politici, giudiziari, educativi) sono rimaste lettera morta. Che ne pensa, padre?
«Io credo sia un errore grandissimo, un grandissimo errore politico. La Commissione chiedeva cambiamenti strutturali, riforme dello stato, un nuovo ordinamento. Invece i politici stanno insistendo con lo stesso sistema del passato. Per questo sono da ritenersi responsabili della povertà, del sottosviluppo, della schiavitù di molti peruviani. Spiace parlare così, perché uno ama il proprio paese e la propria gente, ma questo è ciò che sta accadendo».

È preoccupato?
«C’è timore. Io personalmente ho molta paura che una cosa simile a quella sofferta per 20 anni torni a fare la propria apparizione. Non dico che sarà domani, non dico che sarà per i motivi politici del passato, ma potrebbe succedere. Le tensioni potrebbero provenire dal settore minerario o contadino o anche da settori commerciali. C’è un’esigenza di libertà e di giustizia che sale dai settori poveri, ma è un’esigenza che non ha trovato ascolto nello stato».

Un paese
con 15 milioni di poveri

I settori poveri della società peruviana lei li conosce bene in qualità di presidente della “Tavola di concertazione per la lotta contro la povertà”. In primis, la Tavola è un’ organizzazione governativa?
«Non proprio: è un ibrido tra lo stato e la società civile. Qui lo stato è abituato a comandare, ma la società civile ha le sue istanze. Noi abbiamo cercato di iniziare una collaborazione: piani congiunti per lo sviluppo, affinché le persone possano dire la loro e possano segnalare le proprie priorità. Ad esempio, il poter mangiare: le grandi opere non sono importanti come la sopravvivenza. Questo è un lavoro lungo, ma è una grande scuola di partecipazione e di gestione del bene comune. I frutti, prima o poi si raccoglieranno».

Ma cosa significa essere povero oggi in Perù?
«Cominciamo col dire che la povertà non è una condizione solo economica. Il povero è quello che non ha opportunità e non ha opportunità perché è escluso dalla società, una società che ha obiettivi che non sono per i poveri. Sono per gente altra: un’altra razza, un’altra cultura, un’altra lingua, un altro modo di vestire, un altro colore della pelle, un’altra statura…».

Scusi un attimo… lei intende statura fisica?
«Certo, la statura degli indigeni si abbassa, mentre quella degli altri cresce. È impressionante vero?».

Impressionante.
«Sono due paesi mescolati con un’invasione della capitale da parte della provincia. Questo fenomeno ebbe inizio negli anni ‘40, aumentò negli anni ‘50-’60 fino ad arrivare alla presa di Lima negli anni ‘80, Lima fu veramente occupata dal resto del Perù. Le famiglie di Lima sono uscite dal centro della città per fuggire dall’invasione della provincia».

Dalla provincia… Si tratta, dunque, soprattutto di popolazione indigena?
«Indigena che parla quechua. Il dipartimento del Perù dove si parla più quechua è quello di Lima. Questa massa di poveri che giunge nella capitale arriva nelle peggiori condizioni, e con un bassissimo livello di istruzione».

La scuola pubblica è così scadente?
«Le scuole pubbliche, nella maggior parte dei casi, sono molto malandate. Per le buone scuole bisogna pagare. E così avviene per le università: molti possono accedervi, ma le migliori sono quelle private, che tengono corsi a pagamento. Ci sono buoni corsi anche in università pubbliche (alla San Marcos, ad esempio), ma vi sono università di provincia, cui tutti possono accedere, che non si dovrebbero neanche chiamare università. È un problema reale, perché già qui avviene una separazione: tra chi ha opportunità e chi non le ha. Così, se si deve assumere un funzionario, gli si chiede da quale università proviene e quindi non tutti hanno le stesse possibilità. Dobbiamo fare ancora molta strada, per poter offrire un’educazione di buona qualità a tutti i peruviani. E la stessa cosa vale per la sanità».

Quanti sono ora i poveri in Perù?
«Quindici milioni».

E in percentuale?
«Quasi il 60% e di questi il 25% si trova in una condizione di estrema povertà, cioè non ha i mezzi necessari per la sopravvivenza. Sono persone in continuo pericolo, senza difese organiche, persone che muoiono per una malattia che ad un altro causerebbe solo un malessere».

Anche a Lima ce ne sono?
«Anche a Lima ci sono persone in condizione di estrema povertà, ma non tanto come in altre zone. Nel dipartimento di Huancavelica i poveri sono praticamente la totalità. A Cajamarca, terra di miniere di oro, il 48% dei bambini si trova in condizioni di denutrizione cronica…».

Di miniere si sta discutendo molto in Perù in questi anni…
«Nel dipartimento di Puno c’è una miniera dove lavorano i bambini. In un’altra, altissima, la gente non è neppure attrezzata, non avendo scarpe adatte per camminare sul ghiaccio. E poi è un disastro dal punto di vista morale: la metà delle case sono postriboli e l’altra metà sono discoteche. Non c’è speranza di vita e non c’è gusto per la vita.
Nessuno dà importanza alla vita del povero e loro sono abituati a questo. La gente lavora, si ammala, invecchia in fretta e muore ancora giovane. Costa molto convincersi che pure i poveri hanno i loro diritti. Alcuni iniziano a rendersene conto, ma le grandi strutture no, e men che meno le compagnie minerarie. Non può essere che nei luoghi dei giacimenti minerari vi sia estrema povertà e nel contempo grandi ricchezze».

L’attività mineraria è importante per il paese?
«In Perù, l’agricoltura è sviluppata sulla zona costiera, ma se abbiamo il 10% coltivato è già molto, il resto è deserto; la nostra sierra invece produce soltanto patate. Abbiamo miniere, quelle sì: oggi il 53% delle entrate del paese proviene dalle risorse minerarie. Quelle d’oro sono le terze per importanza nel mondo. C’è una quantità d’oro che nemmeno i padroni sapevano di possedere».

Le miniere stanno in terre indigene…
«Il problema minerario è innanzitutto un problema indigeno. D’altra parte, la questione indigena non è stata compresa per secoli ed ora inizia ad esplodere. Dopo 500 anni, bisogna tentare di riparare le ingiustizie. Sarà molto difficile, ma bisogna provarci».

Qual è la percentuale di popolazione indigena in Perù, più o meno?
«La metà, un po’ meno che in Bolivia. È gente che nasce povera ed è condannata a morire povera, perché lo sviluppo non arriva fino alle zone in cui vivono».

Le popolazioni indigene della Bolivia e dell’Ecuador, stanche di subire ingiustizie, fanno sentire la loro voce in maniera sempre più forte e chiara…
«Bolivia, Ecuador e Perù sono i tre paesi dell’ insurrezione indigena. Adesso bisogna fare molta attenzione, affinché ci sia sì una liberazione dall’ oppressione della povertà, ma una liberazione incruenta guidata dalla giustizia».

L’oppressione della povertà
e l’economia neoliberista

Padre, lei parla di “liberazione dall’oppressione della povertà”. Il sistema economico neoliberista che domina attualmente il mondo moltiplica ingiustizie e diseguaglianze. La liberazione inizia dalla fine del neoliberismo?
«Il neoliberismo cerca di fare in modo che la gente consumi sempre di più. Io penso che dentro un sistema siffatto non ci siano possibilità di riscatto per i poveri. Purtroppo, è un sistema che ha invaso tutto il mondo, persino la Cina. Ma il trattamento dei lavoratori è pessimo tanto per i peruviani quanto per i cinesi».

Questo sistema economico morirà?
«Io credo che nessuno lo possa salvare e che per questo morirà».

Ma morirà senza lottare?
«No, cercherà di salvarsi, ma credo che non abbia futuro perché l’esigenza della maggioranza è molto forte. Io penso che la coscienza di diritti umani uguali per tutti è cresciuta molto. Come pure è cresciuta la consapevolezza che l’economia non può essere l’aspetto fondamentale della vita. A chi dice che l’economia deve dirigere tutto, io rispondo che è il sociale che deve dirigere l’economia e il sociale deve essere guidato da uno spirito umanitario».

Il credo neoliberista è stato esportato nel mondo dagli Stati Uniti. Come prete cattolico, cosa pensa di Bush, un presidente che ricorda spesso il suo essere cristiano…
«Bush è il rappresentante di un cristianesimo fondamentalista. Non è un uomo di riflessione cristiana, non ha una visione del mondo basata su veri principi del vangelo. Io quel cristianesimo non lo accetterò mai, perché credo che il cristianesimo vero sia mettersi nell’ottica di Gesù di Nazareth e cioè nell’ottica dei poveri per creare un mondo migliore, di uguaglianza e giustizia. Questo non è il mondo a cui pensa Bush».

Lui dice di agire per la libertà…
«Questa è una menzogna. Bisogna dirlo con molta chiarezza: è una menzogna. Penso però che occorra distinguere Bush dal popolo nordamericano, anche se io rimprovero ai nordamericani di averlo rieletto, questo sì. Possono essersi sbagliati una volta, ma due volte è molto. Comunque, penso che quel popolo abbia bontà e generosità come tutti i popoli del mondo. Che poi i nordamericani siano neoliberisti è un’altra cosa: è il sistema ad essere tale ed è un sistema che si sta deteriorando. Gli Stati Uniti sono un popolo senza giovani, tanto che non hanno persone per rimpiazzare gli attuali funzionari dello stato. Per questo nazionalizzano i latinoamericani che si recano là, almeno i più efficienti tra loro. Offrono buoni stipendi ed essi si fermano. Così si sta trasformando la società nordamericana: non sono più alti e biondi, ma bruni, parlano castigliano, hanno sangue latino».

Questa mi pare una buona cosa sia per l’America Latina che per il mondo!
«Non posso dirlo, perché non so se questi latinoamericani che diventano nordamericani manterranno la loro testa diversa o la cambieranno. Il neoliberismo è molto insinuante.
Ed il gusto di essere grandi e potenti… ubriaca».

“Ubriaca”… è interessante la sua affermazione…
«La cosa più terribile del mondo è il potere del denaro. Se si può guadagnare, meglio, ma ci sono dei limiti… Su questi temi l’Europa si sa destreggiare meglio perché l’Europa sa riflettere».

Ma l’Europa è divisa e Bush è contento che lo sia.
«Certo che è contento! Ma l’Europa ha gente che pensa, ha filosofi, ha grandi pensatori, è innegabile. La cultura europea è più profonda di quella nordamericana».

Secondo lei, è giusto pensare che l’America Latina si andrà a poco a poco unendo perché sente di avere radici comuni, perché capisce che unendosi può diventare più forte? È così o è soltanto un sogno?
«Credo che sia un sogno, perché le divisioni sono molto grandi. Sebbene i cileni vadano a Buenos Aires e gli argentini alla spiaggia di Viña del Mar, questo non significa nulla. Tra Colombia e Venezuela, dove peraltro vivono molti colombiani, succede lo stesso. Tra Cile e Bolivia c‘è una barriera storica importante e così pure tra Perù e Cile. Abbiamo cioè divisioni molto profonde e molto sostenute dagli Stati Uniti: agli Usa conviene un continente diviso».

D’accordo. Ma, secondo lei, i popoli indigeni del continente latinoamericano non potrebbero costituire l’elemento coagulante?
«I popoli indigeni sono numericamente consistenti in Perù, Bolivia ed Ecuador. Poi ci sono alcune popolazioni in zone marginali: in Argentina, in Brasile, in Cile (i mapuche). L’Argentina è una provincia italiana: basta guardare l’elenco del telefono. Buenos Aires è una città europea. Non ha nulla a che vedere con le radici indigene: è una città di gente immigrata, e così, sotto alcuni aspetti, anche Santiago del Cile. L’America bianca non è l’America Latina. L’altra America, quella scura di pelle, è differente».

Toledo: il razzismo (bianco)
contro un indio (di fabbrica)

Padre, il presidente uscente, Alejandro Toledo, è un indio!
«Un indio de fábrica».

Cosa significa?
«Toledo ha studiato negli Stati Uniti e sotto molti aspetti è un nordamericano dipinto da indio. Non ha una cultura tanto ispanica come quella che abbiamo qui a Lima. Lui ha una cultura più pratica, come i nordamericani».

Nel 2001 Toledo iniziò con molte aspettative da parte della maggioranza dei peruviani, che oggi, dopo 5 anni di governo, si dicono molto delusi di lui. Qual è il suo giudizio?
«Toledo ha fatto cose molto buone. Ha messo ordine all’economia. Ha migliorato le finanze del paese e dato impulso alla crescita: 4-5% su base annuale è molto.
La povertà è diminuita, anche se non come avremmo voluto, ma è diminuita. In provincia i posti di lavoro sono aumentati più che a Lima e questo è importante. Ci sono più medici, più maestri; che ci siano ancora molti problemi è certo, ma questo non significa che non stiamo progredendo.
Il presidente ha invece combinato disastri nel trattamento della cosa pubblica; ha maneggiato molte cose come se fossero una sua proprietà personale; ha utilizzato male il potere.
È stato detto che Toledo avrebbe dovuto cambiare due cose attorno a sé: partito e famiglia».

Include anche la moglie, Eliane Karp?
«Anche la moglie. La moglie non ha avuto il carisma che sarebbe stato necessario; non ha trattato bene il popolo peruviano. Lei dice: non sono latina, non ho alcuna caratteristica simile alla vostra, provengo da un’altra cultura, ho un’altra mentalità e continuo a conservare questa mentalità. È stata poco diplomatica ed è stata poco amata dal paese e questo ha avuto un riflesso negativo su Toledo. Toledo con un’altra moglie avrebbe potuto essere più amato».

E sulla corruzione che dice?
«Il tema della corruzione è un tema molto vasto e importante per il paese. Toledo non ha saputo combatterla. Non è aumentata, ma non è diminuita come invece stava diminuendo negli otto mesi di governo di Paniagua. Non si è andati avanti come si sarebbe dovuto».

Toledo è stato un presidente, un «indio de fábrica» come dice lei, che i mezzi di comunicazione peruviani hanno sempre pesantemente criticato. Secondo lei, hanno esagerato?
«Sono stati sicuramente troppo cattivi. Gli hanno trovato tutti i difetti possibili e non hanno sufficientemente sottolineato le buone qualità del suo governo. Non va dimenticato che i media peruviani sono stati molto compromessi con il fujimorismo, una mentalità questa che ha influenzato il loro giudizio. Infine, i padroni dei mezzi di comunicazione non hanno perdonato che Toledo, un indio, sia diventato presidente della repubblica».

Razzismo?
«Sì».

Razzismo bianco?
«Certo. Questo è un grosso problema, anche se non si può generalizzare. All’inizio sembrava una bella storia: la vicenda di un indio della sierra che aveva studiato negli Stati Uniti, che aveva avuto molte soddisfazioni professionali e che infine era tornato in Perù per mettersi al servizio del paese… Invece poi come è stato visto? Come un uomo che si è messo dove non avrebbe dovuto mettersi: queste sono cose che succedono in un paese razzista».

Razzismo o meno, Toledo è stato al centro di numerosi scandali personali…
«Ha sicuramente sbagliato tante cose. Ma io credo che il suo governo non sia stato tanto cattivo come si dice. Per sintetizzare, direi che è stato un governo buono, con molte cose negative».

Tra García, Flores e Humala

Dopo Toledo, è possibile che torni ad essere presidente Alan García?
«L’Apra è il principale partito peruviano, dal momento che tutti gli altri sono piccoli schieramenti. Alan García è un uomo molto abile, ma in questo momento non so se potrà essere il prossimo presidente del Perù».

Se non lui, chi allora?
«Paniagua sarebbe la scelta migliore, ma Paniagua non è un politico agguerrito, non è uno che si fa largo parlando male degli altri, è un simbolo di onestà».

E Ollanta Humala? Lo scrittore Mario Vargas Llosa ne ha scritto malissimo. Lei che pensa al riguardo?
«Il mio modo di vedere è diverso da quello di Vargas Llosa. La mia critica verso Ollanta Humala parte dal fatto che lui è un uomo con tutte le caratteristiche tipiche dei militari che si mettono in politica: autoritarismo, poca capacità di ascolto, interpretazione militaresca di ogni cosa».

Padre Garatea, per concludere, tenti una previsione , faccia un nome…
«Io ho paura che la destra torni a prendere il potere: la loro rappresentante, la signora Lourdes Flores, è una candidata molto forte. Però, nella politica peruviana tutto può succedere. Non è mai successo, nella nostra storia recente, che siamo stati capaci di annunciare il vincitore in anticipo».

(fine 2.a puntata – continua)

Paolo Moiola

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