IRAQIl braccio religioso dell’impero americano

Aggressivi nelle parole e nei fatti, convinti di essere gli unici depositari della verità, ricchi di sovvenzioni e di lobbies potentissime all’interno del congresso Usa, gli evangelici americani sono arrivati in Iraq al seguito dei marines per tentare l’assalto all’islam. In realtà
potrebbero mettere in pericolo la sopravvivenza della comunità cristiana, già provata dagli attentati.

John Llano viene da Houston (Texas) e nella primavera del 2004 era il cappellano militare del V Corpo d’Armata americano nella base di Camp Bushmaster, vicino a Najaf, nonché incaricato della gestione di una riserva d’acqua di quasi 2000 litri che pensò bene di far fruttare se non in termini di soldi in termini di anime.
Il baratto era semplice: il soldato di ritorno da un tuo avrebbe potuto trovare sollievo alla propria fatica e togliersi di dosso la finissima polvere del deserto iracheno con l’acqua del cappellano, ma in cambio avrebbe dovuto accettare di essere battezzato. Al cappellano John non interessava sapere quanti di quei neo battezzati fossero mossi da soli motivi igienici, per lui, in ogni caso, il sistema era giusto perché, con machiavellico convincimento, affermava la necessità di essere aggressivi per avvicinare la gente a Dio.
Le parole di Llano, che si definisce un evangelista battista del sud, a prima vista possono sembrare frutto di spregiudicatezza di carattere e di disinvoltura nel trattare un argomento delicato come l’eventuale conversione, ma in realtà sono spie di un atteggiamento generalizzato e fatto proprio dalle diverse confessioni evangeliche americane che sono arrivate in Iraq al seguito dei marines, e che va ben oltre l’eventuale avvicinamento a Dio dei soldati statunitensi (1).

IL MONDO PERDUTO
Lo scopo ufficiale di queste organizzazioni (tra le quali spicca per attivismo la Inteational Mission Board, legata alla chiesa battista del sud) è quello di dare un conforto materiale agli iracheni; quello ufficioso, però, parrebbe essere diverso: la conversione dei musulmani d’Iraq.
Per capirlo basta esaminare accuratamente i siti internet di queste organizzazioni e scoprire, ad esempio, come i fedeli islamici siano considerati parte del cosiddetto «mondo perduto» (2), quel mondo che a causa della sua fede deve essere aiutato ad avvicinarsi a Dio, al vero Dio.
Quel mondo che per avverse condizioni storico-geografiche non ha ancora beneficiato della Sua parola, e che sta «al di là del muro» o, più precisamente, nella zona chiamata «fascia resistente» o anche «finestra 10/40», alludendo a quell’area del globo che si estende dal 10° al 40° di latitudine a nord dell’equatore e che include la maggior parte dei musulmani, per non parlare degli induisti e dei buddisti, anch’essi da annoverare tra i popoli perduti.
Che lo scopo delle organizzazioni evangeliche americane sia quello di convertire le popolazioni non cristiane, nel caso specifico i musulmani, non è storia nuova, anche se gli ultimi decenni hanno visto crescere notevolmente questo sforzo. Alla metà degli anni ’80, ad esempio, i missionari battisti operanti nella finestra 10/40 erano l’1 per cento del totale mentre nel 2003 erano già diventati il 27%. In molti paesi sono arrivati come normali operatori umanitari, in altri invece, quelli effettivamente «resistenti» alla loro presenza, approfittando di eventi eccezionali che hanno convinto, o costretto, i governi a chiudere un occhio e ad accoglierli. È il caso dell’ultimo terremoto che ha distrutto un’intera regione iraniana o, appunto, della guerra all’Iraq.

LE GUERRE DEL GOLFO
Il primo tentativo di «avvicinamento dolce» alla regione mediorientale fatto in concomitanza con un periodo bellico risale al 1990-’91, al tempo della prima guerra del Golfo contro l’Iraq, quando l’icona dell’evangelismo americano d’assalto, il reverendo Franklin Graham varò l’operazione Dear Abby, con la quale invitò gli americani a spedire lettere di incoraggiamento ai soldati al fronte.
Tale iniziativa si rivelò una copertura utilizzata dai seguaci di Graham per spedire ai soldati 200.000 scritti di matrice cristiana in arabo con il chiaro, anche se non dichiarato, intento di diffonderli tra gli abitanti del luogo. Malgrado l’opposizione dell’allora capo di stato maggiore della coalizione anti-Saddam, il generale Norman Schwarzkopf, e del suo pari grado saudita, il principe Khaled Bin Sultan, l’operazione continuò per mano di alcuni cappellani militari che più che ai loro superiori risposero alla chiamata di Graham (3).
Eppure Baghdad rimaneva lontana. Un decreto governativo degli inizi degli anni ’80 aveva ristretto la presenza delle confessioni cristiane a quelle già esistenti, e neanche nei periodi più neri del paese, quando, piegati dalle sanzioni economiche e dal regime, gli iracheni morivano o fuggivano a milioni, gli evangelici riuscirono a mettervi piede con la scusa di fornire aiuti materiali. Con la caduta della statua del ra’is, nell’aprile 2003, la situazione è cambiata e si è aperta la «finestra d’opportunità» per la quale, come ha dichiarato John Brady, responsabile della branca mediorientale e nordafricana della Imb, i battisti del sud avevano a lungo pregato (4) e che ha permesso finalmente agli evangelici di «bagnarsi nelle acque di Abramo».
Una finestra di opportunità che però, come essi stessi riconoscono, sta per richiudersi. Non si fanno illusioni gli evangelici americani: sanno che, se in Iraq dovesse prevalere, come tutto fa per ora pensare, un governo di forte orientamento islamico, la loro presenza nel paese diventerebbe sgradita.
Eppure neanche con una finestra d’opportunità più lunga si sarebbe potuto ragionevolmente pensare di convertire i musulmani e togliere l’Iraq dalla lista dei paesi perduti. Certo, è possibile che qualche fedele di Maometto, al pari del soldato affaticato e sporco, abbia barattato un pasto ed una coperta per una lettura del Nuovo Testamento, ma la sempre maggiore influenza sciita non ha sicuramente contribuito al fenomeno. Se nell’Iraq «ufficialmente» laico di Saddam vigeva il reato di apostasia, il divieto cioè per ogni musulmano di convertirsi ad altra fede, niente fa pensare che tale reato possa venire abrogato, ed è dubbio, quindi, che folle di islamici possano desiderare di rischiare passando «dall’altra parte».

SE I PREDICATORI
CAMBIANO OBIETTIVO

«In America, la gente è libera di essere cristiana o musulmana, ma in Iraq chi decidesse di lasciare l’islam per convertirsi al cristianesimo verrebbe ucciso dalla sua stessa famiglia in applicazione della legge islamica», afferma a proposito il reverendo Ikram Mehanni, pastore di una chiesa presbiteriana di Baghdad, una delle chiese presenti in Iraq da circa un secolo.
Frustrati in questo tentativo gli evangelici potrebbero quindi rivolgere le loro attenzioni verso un obiettivo più a portata di mano: la conversione dei cristiani iracheni. Essi sono già «dall’altra parte», non rischierebbero nulla, e potrebbero essere affascinati dall’attivismo e dall’aggressiva retorica dei predicatori della bibbia, che tanto contrasta con il basso profilo che, in passato, le chiese autoctone sono sempre state costrette a tenere per non attirare sui propri fedeli inopportune attenzioni del governo ed ora quelle di chi le vuole legate, per comunanza di fede, ai nuovi crociati invasori.
I cristiani potrebbero sentirsi più «protetti» da queste nuove chiese evangeliche, almeno quelli che interpretano gli attacchi alle chiese del primo agosto (e del 16 ottobre) come un fallimento della politica del dialogo perseguita dalle proprie gerarchie ecclesiastiche.
Percentualmente, quindi, gli evangelici potrebbero avere più successo tra i cristiani che tra i musulmani, e la cosa non può non far paura alle chiese già esistenti preoccupate di preservare l’integrità delle loro piccole comunità. Una preoccupazione basata su dati obiettivi, come confermano le parole del reverendo Ikram Mehanni: «Queste chiese vogliono dividere la cristianità: il loro numero aumenta, ma i cristiani no».
Che ci stiano riuscendo è indubbio: a Baghdad ci sono già 26 nuove chiese evangeliche, ed almeno una di esse, la Evangelical Holiness Revival Church, come afferma il suo pastore, il reverendo Wissam Jamil, ha raccolto fedeli provenienti da altre chiese visto che il proselitismo tra i musulmani è vietato.
«Gli evangelici si concentrano nelle aree cristiane della città perché più sicure per loro, ed evitano quelle musulmane in cui sarebbero attaccati dalla popolazione – dice monsignor Matti Shaba Mattoka, vescovo siro-cattolico -. Perché distribuiscono bibbie e vangeli in arabo ai cristiani, pensano forse che essi non conoscano Gesù Cristo? Perché non vanno a distribuirle nei quartieri musulmani?».
«L’aggressività caritatevole» che contraddistingue gli evangelici potrebbe inoltre rafforzare l’idea che la guerra mossa all’Iraq, oltre che per motivi geostrategici ed economici, sia stata mossa per motivi religiosi in una sorta di riedizione delle crociate. Un pericolo messo in luce anche dallo sceicco sciita Fatih Kashif Ghitaa che ha sottolineato come già gli iracheni vedano l’occupazione americana del paese come una guerra di religione, e che ha riferito di un incontro tra capi sciiti e sunniti per valutare l’opportunità di emettere una fatwa di condanna nei confronti dei missionari cristiani.

QUEGLI AIUTI «FIRMATI»
I ripetuti riferimenti al divino fatti dal presidente Bush, ma soprattutto le stesse affermazioni dei capi evangelici che, come Graham hanno definito l’islam «una religione malvagia», non sono passati infatti inosservati ed i cristiani iracheni temono di essere confusi con loro.
Un punto di forza delle chiese autoctone rischia di vacillare: esse rappresentano solo il 3% della popolazione, ma nessuno può negare loro il primato delle origini che risalenti alla predicazione dell’apostolo Tommaso nel I secolo d.C. anticipa di secoli l’arrivo dell’islam in Mesopotamia.
«Rubando» i fedeli alle chiese del luogo, tentando l’assalto all’islam, usando linguaggi e comportamenti aggressivi, gli evangelici stanno quindi diventando un pericolo per gli stessi cristiani e stanno svelando il loro vero volto di «braccio religioso» dell’impero americano.
Se il loro scopo fosse stato veramente solo quello di aiutare la popolazione irachena senza tentare di convertirla sarebbe stato sufficiente convogliare gli aiuti verso le organizzazioni umanitarie, laiche o religiose, già operanti in Iraq da prima della guerra, ma in quel caso le scatole di aiuti inviate dalla Inteational Mission Board non avrebbero dovuto riportare le parole di Giovanni (1:17): «La legge fu data attraverso Mosè e la grazia e la verità furono realizzate attraverso Gesù Cristo». Firmato: «Un dono d’amore dalle chiese battiste americane».
Un dono che alla lunga rischia di risultare sgradito e persino pericoloso.

BOX 1

Intervista: «Sono chiese d’affari»

«Sono arrivate a seguito dei marines ed hanno iniziato a stabilire le loro sedi nelle zone abitate dai cristiani, e comunque vicino alle chiese. Il loro scopo è attirare i fedeli cristiani facendo leva sulle ingenti somme di denaro a loro disposizione, un metodo che ci mette in imbarazzo e in difficoltà. Nel natale dello scorso anno, ad esempio, è stato difficile spiegare ai bambini della mia parrocchia perché i loro pacchi dono erano poca cosa in confronto a quelli distribuiti dagli “americani.” Gli adulti sono attirati dai posti di lavoro e dai salari che queste chiese garantiscono, i giovani dal fatto che in esse trovano computers e collegamenti internet gratuiti.
Noi possiamo far leva sulla tradizione, sulla fede comune che ci ha permesso di resistere uniti in tutti gli anni di sofferenze, ma non so per quanto ancora. Il popolo iracheno (ed i cristiani non fanno eccezione) si risolleverà, perché il nostro è un paese ricco ed il petrolio, prima nelle mani di Saddam ed ora degli americani, prima o poi toerà a noi. Per ora, però, cibo, medicine, giocattoli e tecnologia sono ancora un buon sistema per “comprare” la fede».
«Certo, queste chiese d’affari non conquisteranno tutti, ma potrebbero diventare un pericolo. La mia parrocchia, la chiesa di Mar Mari (nella zona nord-est della città) contava all’inizio degli anni ’90, 350 famiglie. Oggi, la fuga verso il nord o verso l’estero le ha ridotte a 120, e la situazione instabile del paese, ed il suo trovarsi al confine dell’enorme quartiere sciita di Sadr City, roccaforte dell’integralismo islamico pronta a scoppiare, potrebbe ridurre ulteriormente questo numero. Se a ciò aggiungiamo l’eventuale conversione a queste nuove chiese, il conto è presto fatto: nel futuro la nostra chiesa potrebbe non avere più fedeli, e magari essere chiusa».
«La presenza delle chiese evangeliche, inoltre, ci mette in imbarazzo nei confronti dei musulmani che non apprezzano, ad esempio, le loro grandi croci luminose che spuntano un po’ d’ovunque. Quando capita di parlare con gli sceicchi delle moschee, che conosciamo da sempre, ed il discorso cade sulle nuove chiese, la nostra posizione si fa difficile e ci ritroviamo tra due fuochi. Da una parte non possiamo “sconfessarle”, perché, anche se le sappiamo “diverse” e non ne apprezziamo il dogma (che non prevede la centralità di Cristo ma solo della bibbia), ciò potrebbe portare ad una sorta di “via libera” per chi volesse attaccarle, mettendo a rischio anche la “nostra gente”. Sconfessare altri cristiani, poi, sarebbe agli occhi dei musulmani un segno di debolezza su cui eventualmente far leva per dividerci e toglierci i pochi spazi rimasti. Se, d’altra parte, le difendessimo a spada tratta presto anche noi, cristiani iracheni, presenti nel paese da prima dell’arrivo dell’islam, saremmo accomunati a loro, percepiti come i nuovi crociati».

Lu.S.

Luigia Storti

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