Vittime di inutile strage

Il 2 agosto 1922 a Pederobba, un paesino della pedemontana di Treviso, veniva inaugurato all’interno della chiesa un altare in ricordo dei 43 morti della prima guerra mondiale.
Il parroco aveva dettato il testo della lapide che diceva così: «Sacro ricordo, tributo di preghiera, di compianto, di amore ai 43 figli di Pederobba caduti vittime di un’inutile strage nella barbara guerra 1915-1918».
Il prefetto di Treviso, allarmato da queste affermazioni, chiese al vescovo di far cancellare sia l’espressione «vittime di inutile strage», sia l’aggettivo «barbara» riferito alla guerra da poco terminata.
Fu mandato un giovane sacerdote che munito di martello e scalpello cancellò dal marmo quelle parole. Il parroco non oppose resistenza, anche se si permise il gesto di non offrire una stanza da letto all’esecutore di tale ordine, che dovette accontentarsi di passare la notte su una sedia.
Poi aprì il registro dei battesimi e vi scrisse quanto segue: «Il 2 agosto 1922 fu benedetto ed inaugurato il ricordo-altare pei nostri caduti nella guerra 1915/18. (…) Fu celebrata una solenne ufficiatura con grande concorso di popolo; non si volle invitare alcuna rappresentanza civile né militare, per non profanare la serietà della cerimonia con manifestazioni di falso patriottismo che non è sentito dal nostro popolo. Sul monumento venne scolpita la iscrizione seguente … (fa seguito il testo sopra riportato)… La raschiatura delle parole operata sul monumento venne fatta per ordine del prefetto di Treviso, costretto dai fascisti. Ma la verità è una sola: vittime di inutile strage nella barbara guerra 1915 – 1918».

Sapevo dell’esistenza di questo testo, ma non l’avevo mai letto. Nel giorno dei funerali di stato delle 19 vittime della guerra in Iraq ho voluto cercarlo. Dopo averlo trovato mi sono recato a pregare, insieme con l’attuale parroco di Pederobba, davanti al ricordo-altare per le nuove vittime di una inutile strage di una barbara guerra.
Questo testo sapiente offre diverse chiavi di lettura per il nostro oggi. È da cinque giorni che durano questi funerali infiniti, che ormai sembrano non portare più rispetto né per le vittime, né per i loro famigliari. La retorica politico-militare sembra essersi appropriata della loro morte per trasmettere messaggi di altro contenuto che non siano quelli che solamente genitori, figli, spose o fidanzate conoscono.
A me pare di assistere a un’orrenda operazione in cui la morte degli altri viene sfruttata per convincere il popolo italiano che noi non siamo andati in Iraq per fare da pedine di complemento in un contesto di guerra, ma per una scelta umanitaria.
Noi che abbiamo appeso centinaia di migliaia di bandiere di pace sui nostri davanzali, ben prima che scoppiasse la guerra, avevamo, invece, ragione di credere che essa si sarebbe risolta in un’inutile strage. E tale è questa guerra di cui non s’intravede l’uscita. È di ieri la notizia delle dimissioni del rappresentante italiano presso il governo di transizione iracheno, che ha motivato il suo gesto con il fatto che nella presente situazione non si intravedono né i presupposti né la volontà politica che intenda usare i mezzi giusti per ristabilire pace e democrazia in Iraq.
Ci siamo cacciati dentro ad un ginepraio e, ora, per orgoglio, non sappiamo come uscie. Ma intanto c’è chi paga prezzi altissimi: uomini e donne americani che contano già 9.200 morti e feriti, inglesi, italiani, ma anche e soprattutto iracheni.
La sapienza dell’antico parroco di Pederobba l’aveva condotto a compiere un gesto grave e difficile per quegli anni: egli aveva messo alla porta tutte le autorità civili e militari perché il popolo potesse vivere e confrontarsi da solo con il suo dolore e «per non profanare la serietà della cerimonia con manifestazioni di falso patriottismo che non è sentito dal nostro popolo».
Un anno prima, in un gesto sconsolato, sempre usando il registro dei battesimi, egli aveva scritto a conclusione di un anno particolarmente prolifico: “Aumentano in maniera vertiginosa i nati, ma non aumenta la gioia di vivere”. (frase scritta in latino: moltiplicatur gens, at non moltiplicatur laetitia).
Solamente uno che aveva patito con il suo popolo le stragi, le distruzioni, il pianto infinito del dopoguerra e della esasperante, lenta ricostruzione delle case e dello sminamento dei campi, poteva prendersi il lusso di usare tale libertà.
Ma la chiesa di oggi, nella liturgia nazional-popolare a cui abbiamo assistito, ha dato prova di libertà e di profezia evangelica?
Ho sentito pronunciare la fiera parola: li fronteggeremo!
Ma non ho sentito dire né un «mea culpa» né che siamo andati a morire in una terra che non è nostra e per motivi quanto meno ambigui; né una parola di pietà per tutti gli iracheni innocenti che sono morti dall’inizio di questa guerra e che sono i più numerosi; né l’invito a costruire la pace attraverso le vie della pace. C’è stato un deficit di libertà e di vangelo che mi ha inquietato e umiliato. Eppure bastava ricordare le semplici parole del card. Renato Martino: «Se avessero ascoltato il papa non ci troveremmo ora a piangere tutti questi morti».
Forse soltanto tra i suoi, nel proprio paese, tra la propria gente ognuna delle 19 vittime troverà pietà. Solo allora si pronuncerà una parola vera sulla guerra.

don Giuliano Vallotto

(Scritto il 18 novembre 2003 in solidarietà con monsignor Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta).

Paolo Moiola

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