Romano d’Africa

Per la prima volta Romano Prodi, presidente della Commissione europea, si è recato in visita ufficiale inAfrica dell’Ovest, toccando Senegal, Costa d’Avorio e Burkina Faso.
Al centro dei suoi incontri la cooperazione tra i paesi dell’area e i rapporti
con l’Unione europea. Ma soprattutto una grande preoccupazione: portare la pace in Costa d’Avorio.
Missioni Consolata l’ha intervistato in esclusiva per i propri lettori.

Romano Prodi si presenta nell’edificio della delegazione della Commissione europea a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, poco prima del suo ritorno in Europa.
Dopo un’intensa giornata durante la quale ha lavorato con il presidente della Repubblica Blaise Compaoré e con il primo ministro Paramanga Yonli; ha fatto un discorso all’Assemblea nazionale (il parlamento); ha visitato la sede dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa), incontrando il suo omologo, Moussa Touré, e i commissari al completo. È stato anche fuori città, a visitare la diga di Ziga, finanziata in parte dall’Ue, che crea un bacino di 200 milioni di metri cubi d’acqua e salverà la capitale dalla penuria idrica.
Arriva dopo un incontro imprevisto (almeno nell’agenda ufficiale) a tre, con Compaoré e il primo ministro avoriano Seydou Diarra. Nell’aria c’è il tentativo di sbloccare la crisi in Costa d’Avorio, paese testa di ponte per l’economia di questa regione. Crisi che ha collegamenti con il vicino Burkina Faso.
Appare un po’ stanco, Romano Prodi, lo si vede dal volto, ma anche visibilmente soddisfatto. Lo dice lui stesso, e sembra a suo agio nell’edificio moderno, perennemente immerso nell’aria condizionata. Scherza con la padrona di casa, la sorridente signora Sari Suomalainen, ambasciatore e rappresentante della Commissione europea in questo paese. Parla in un buon francese, al quale trasferisce il suo intercalare riflessivo. È accompagnato dal ministro degli Esteri Youssouf Ouedraogo e, soprattutto, dal suo consigliere speciale, con il quale si scambiano occhiate, gesti e fogliettini.
L’ultimo atto ufficiale del suo viaggio è la colorata conferenza stampa affollata da giornalisti burkinabè. Chi in gran boubou (vestito lungo maschile, di alto livello, ndr), chi in sgargianti camicione africane e chi in tenuta più occidentale. È incuriosito della presenza, in questo contesto, di un giornalista italiano, forse il più folkloristico, perché l’unico non africano.
Mi avvicino e, mentre la guardia del corpo mi ringhia di sparire, lui la blocca con uno sguardo, mi prende per un braccio come mi conoscesse e chiede: «Mi dica, lei per chi scrive?». Per tutta risposta, io gli allungo in mano una copia del numero monografico di MC sulle guerre. «Ah! Missioni Consolata – dice compiaciuto -. La conosco, allora! Bene, bene, mi fa piacere che lei sia qui».

Signor presidente, al termine della sua visita che impressioni ha avuto della democrazia in questi tre paesi?
«Sono molto incoraggiato perché la democrazia ha fatto dei progressi, c’è un dibattito politico molto forte, vivo e c’è un desiderio di cooperazione tra paesi. Ma è per questo che la situazione avoriana mi rende triste, perché la Costa d’Avorio ha una grande tradizione democratica, e adesso, come ho detto ieri ai vostri colleghi avoriani, il linguaggio dei giornali e dei media avoriani, così forte, si sente l’odio. È molto preoccupante, da un’idea di una lotta politica troppo dura e con molte tensioni».
(Romano Prodi si riferisce ad alcuni quotidiani, ma anche la televisione nazionale in Costa d’Avorio che, a più riprese, hanno incitato alla caccia all’immigrato, vedi MC ottobre 2003).

Da settembre in Costa d’Avorio i ministri delle Forze nuove, gli ex ribelli, contestano le scelte del presidente Gbagbo sostenendo che non rispetta gli accordi di Marcoussis (località vicino a Parigi dove si firmarono gli accordi a gennaio 2003). Il processo di pace è bloccato e il paese spaccato in due. Lei ha incontrato il presidente e il primo ministro Diarra. Pochi minuti fa ha avuto ancora un incontro con Diarra e il presidente burkinabè Compaoré. Cosa sta cercando di fare l’Ue per risolvere la crisi?
«Penso di aver lavorato per, e penso sia meglio che le Forze nuove entrino nel governo, per poter ritrovare l’unità del paese. Sicuramente, allo stesso tempo, bisogna impegnarsi ad approvare e mettere in opera le nuove leggi, definite a Marcoussis: proprietà fondiaria, cittadinanza, voto.
Non so se ci sono riuscito, non ho alcun potere di imporre la mia volontà, perché questa è una decisione della Costa d’Avorio, ma io ho tentato tutte le pressioni possibili, nel limite del rispetto del paese. Ho incontrato il primo ministro con il presidente Compaoré, abbiamo parlato insieme, perché bisogna dire le stesse cose in tutti i campi. Penso che sia stato molto utile parlare in modo aperto tra amici. E spero che produrrà delle conseguenze positive. Io ho fatto e farò tutti gli sforzi, perché il problema è di terribile urgenza. Il paese è diviso, l’economia di tutti i paesi (dell’Africa dell’Ovest) Burkina Faso incluso, ha sofferto molto, non si può fare alcuna organizzazione di tipo regionale senza la Costa d’Avorio, allora bisogna fare tutto per chiudere la crisi.
Il giorno della conclusione a Kleber (ultimo atto di Marcoussis, ndr.) mi sono impegnato con 400 milioni di euro e li ho preparati, di urgenza. Non abbiamo sospeso, ma è impossibile versare questi soldi, perché sono legati alla pacificazione e alla riunificazione. Abbiamo chiari i problemi della sofferenza del popolo e non sospendiamo l’aiuto umanitario. Ma questa è una quantità di soldi straordinaria per il rilancio della vita politica condizionato all’applicazione concreta delle decisioni di Marcoussis».

La pace è imprescindibile per lo sviluppo. Ma le guerre nel mondo e in Africa sono in aumento. Qual è il ruolo dell’Ue nella prevenzione dei conflitti?
«La via scelta è sempre stata quella di favorire in anticipo le cornoperazioni regionali. Quando c’è una cooperazione regionale che funziona bene il conflitto non viene, proprio perché esiste una rete di protezione di conoscenza dall’esterno. Purtroppo nel caso della Costa d’Avorio il conflitto è partito lo stesso, però secondo me sono stati proprio i legami inteazionali che hanno impedito che diventasse sanguinoso. Nonostante tutto se non abbiamo avuto le stragi e le tragedie che ci sono state in altri paesi, penso sia perché abbiamo lavorato molto sulla cooperazione regionale. Non vedo altre misure di prevenzione dei conflitti con gli strumenti che abbiamo oggi».

A livello concreto cosa vuol dire?
«Appoggiare le istituzioni regionali, come l’Uemoa, a livello di budget come facciamo, fino alla cooperazione, anche di carattere militare. Siamo arrivati al punto di dire che siamo disponibili, quando sarà capace di farlo, di dare all’Unione Africana i mezzi finanziari per costruire una forza di pace, perché io sono convintissimo che è inutile che noi pensiamo che la pace in Africa possa essere garantita da forze estee».
La riduzione della povertà è l’obiettivo centrale dell’accordo di Cotonou. Quali politiche e metodi l’Ue sta mettendo in pratica affinché i poveri non siano esclusi dalla crescita economica, per ottenere un vero sviluppo sostenibile?
«Con Cotonou abbiamo delle strategie ben definite, di aiuto agli investimenti, di aiuto alla riorganizzazione della società civile, ma anche di aiuto alla cooperazione internazionale (intesa tra paesi limitrofi, ndr.), perché per noi lo sviluppo dei paesi isolati è quasi impossibile. Abbiamo incontrato il presidente dell’Uemoa e abbiamo detto che la cooperazione è stata necessaria in Europa, ma è ancora più necessaria nei paesi poveri, altrimenti non ci sarà mai uno sviluppo. Non abbiamo imposto delle dottrine generali per tutti i paesi. Per noi è soprattutto un dialogo di tipo paritario».

L’Ue è molto avanzata in termini di integrazione. Cosa devono fare i paesi dell’Uemoa per raggiungere gli stessi risultati?
«La pace! – esclama Romano Prodi con un guizzo negli occhi -. Le strutture di cooperazione di questi paesi sono molto simili alle nostre, hanno avuto l’unione monetaria prima di noi. Il problema è di seguire la strada che hanno iniziato. Capite perché per me il problema della Costa d’Avorio è un’ossessione, non c’è alcuna possibilità di fare una vera cooperazione senza quel paese. Il presidente dell’Uemoa mi ha appena detto che, dal momento in cui c’è stata la crisi, ha perso 40% del budget. In questo modo non c’è alcuna possibilità di avere un funzionamento effettivo dell’istituzione».

E che appoggio l’Unione europea può portare all’Uemoa?
«Noi abbiamo un programma di lavoro in comune, contatti regolari e un sostegno completo. L’Uemoa è anche il pivot dell’accordo di partenariato economico, che abbiamo firmato in ottobre, tra Ue e Africa dell’Ovest. Noi abbiamo cercato una cooperazione internazionale non solamente su rapporti bilaterali. Penso che sia la sola via per lo sviluppo di questa regione».

L’incontro dell’Organizzazione mondiale del commercio a Cancun doveva essere l’incontro tra paesi poveri e ricchi sul piano commerciale. È stato un fallimento. Che fare adesso?
«Chiaro che siamo delusi dal fallimento di Cancun, ma non abbassiamo le braccia, perché il mondo, e soprattutto i paesi meno sviluppati hanno bisogno di regole che li proteggano dall’arbitrario e dall’unilateralismo».

Un gruppo di paesi africani, tra cui il Burkina Faso, a Cancun ha chiesto la revisione delle politiche di sovvenzione di Ue e Usa sulla produzione del cotone, bene primario di esportazione per questi paesi. L’accordo non c’è stato. Quali sono i vostri impegni concreti?
«Non è solo un impegno. Abbiamo già deciso di ridurre del 60% il sostegno ai prezzi del cotone, questo per diminuire il problema di concorrenza ai produttori africani. Il 40% resta, ma mi sono impegnato a spingere per riformare anche questo, pur non avendo scadenze certe. Nella nostra politica è chiaro che occorre aiutare i paesi africani ad avere un potere sul mercato del cotone; oggi ciò è impedito a causa delle sovvenzioni ai produttori, negli Usa e in Europa. Noi abbiamo modificato la politica agricola, ma vorrei andare a fondo della questione e dire agli Usa che anche loro dovrebbero cambiarla».

Quale politica dell’Ue sull’immigrazione, nel momento in cui gli stati membri stanno edificando dei muri per proteggere la fortezza Europa?
«La politica europea sull’immigrazione è ancora in fase di costruzione. Abbiamo approvato l’Agenzia per l’immigrazione, che è un’istituzione molto importante ma con funzioni soprattutto tecniche di cooperazione. La Commissione aveva proposto di definire con i paesi dell’Africa e soprattutto del Mediterraneo delle quote di immigrazione, ma non è stato possibile. Questo ambito resta quindi degli stati membri. Secondo me tra pochi anni non sarà più possibile avere una politica frammentaria e sarà necessaria una politica europea».

Ma con l’allargamento dell’Unione non sarà ancora più complesso?
«Con l’allargamento dal punto pratico la situazione dell’immigrazione africana cambierà, perché pensiamo che, con l’allargamento, avremo un’immigrazione dai 10 nuovi paesi verso gli attuali. Da questo punto di vista, secondo me non c’è più spazio per l’immigrazione non europea. È chiaro che i flussi diminuiranno nel momento in cui ci sarà una nuova speranza di sviluppo. E nei paesi membri dell’allargamento c’è una nuova speranza di sviluppo interno».

Alcune associazioni burkinabè chiedono l’annullamento del debito estero. Lei cosa risponde?
«Non abbiamo alcun potere diretto sul debito perché è gestito da altre istituzioni, ma la posizione della Commissione è sempre stata in favore della remissione del debito dei paesi più poveri nelle condizioni definite. Noi abbiamo sempre votato e spinto in favore di questo».

Marco Bello

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