Ritorno al futuro

È ancora scuro quando imbocchiamo la «strada imperiale» che congiunge Addis Abeba alla regione orientale dell’Etiopia. Siamo diretti a Shambu, a 240 km dalla capitale, nel cuore del Wollega, la regione dove i missionari e missionarie della Consolata lavorarono per 25 anni, finché, allo scoppio della seconda guerra mondiale, furono cacciati dagli inglesi (1941).
Nonostante il nome pomposo della strada, la gibbosità dell’asfalto, curve e i saliscendi rallentano la corsa. In compenso possiamo gustare gli scenari, sempre vari e pittoreschi e, soprattutto, rivivere pagine di vita missionaria, apprese in gioventù dai missionari che sono passati per questa stessa via, quando era meno «imperiale».
A CACCIA DI MEMORIE
Il percorso che ora compiamo in sette ore di automobile, allora richiedeva giornate di cammino; anzi, settimane di estenuanti carovane, quando dalla capitale venivano trasportati i materiali necessari alla costruzione delle missioni.
Dopo 120 km e quasi tre ore di viaggio, entriamo nel Wollega; ci fermiamo ad Ambo, cittadina già rinomata per le piscine termali, oggi famosa in tutta l’Etiopia per l’omonima acqua minerale. Ma a noi rievoca altre memorie.
Per tre anni, dal 1938 al 1941, alloggiando in abitazioni provvisorie, padri e suore della Consolata svolsero attività scolastiche e sanitarie (vedi riquadro). Appena deciso di dare una sede definitiva alla missione e gettate le fondamenta della chiesa, dovettero abbandonare tutto.
A una dozzina di chilometri da Ambo, visitiamo la missione di Guder, fondata nel 1926 e abbandonata nel 1941, al colmo dello sviluppo (vedi riquadro). Del mulino e segheria rimane il piccolo canale d’acqua che ne azionava i motori; delle scuole elementari non è sfuggito al saccheggio neppure un mattone; stessa sorte è toccata alla casa dei padri.
Più fortunata è stata quella delle missionarie: una parte è ancora in piedi, anche se, caduto l’intonaco, le pareti di terra e paglia sembrano un animale spelacchiato. Più in basso si scorge il tetto del noviziato delle Ancelle della Consolata: l’edificio è in buone condizioni, grazie a profondi ammodeamenti.
Della chiesa resta la piattaforma del presbiterio e gradini sconnessi. La sorpresa è a pochi metri: in una minuscola cappella ortodossa possiamo ammirare una bella immagine della Consolata, scolpita sulla grande lunetta di pietra che oava la facciata della chiesa.
IL RITORNO
La Consolata è rimasta nel Wollega e ha richiamato i suoi figli. Nel 1970 i missionari della Consolata sono tornati in Etiopia e organizzato il vicariato di Meki, con la segreta speranza di rientrare in quello di Gimma, oggi vicariato di Nekemte.
Le suore vi sono arrivate prime, per svolgere attività apostoliche, sanitarie e di promozione umana in tre missioni: Sakko (1974), Komto e Konchi (1977). Nel 2001 il sogno si è completato: padri, fratelli e suore hanno iniziato a lavorare in équipe nella zona di Shambu, ai piedi dei monti Acca, una regione con grandi possibilità di prima evangelizzazione tra vari gruppi oromo.
Uno di tali gruppi, gli higgu, aveva chiesto di entrare nella chiesa cattolica, grazie alle visite saltuarie di preti etiopici di Nekemte e del catechista Addisù Yadessa, che vi aveva soggiornato più a lungo e svolto un’attività di primo annuncio del vangelo.
La decisione di iniziare l’evangelizzazione degli higgu ha avuto una lunga gestazione. Nel luglio 2001 abba Johannes, fratel Brusa e suor Lena Emilia hanno fatto lunghe trasferte per visitare la gente, famiglia per famiglia, conoscere la loro cultura, saggiae le intenzioni e studiare le possibilità di iniziare la missione con uno stile nuovo.
Nel febbraio seguente, padri e suore si sono stabiliti definitivamente nel paese, affittando due casette di fango in periferia; in una terza accolgono dei giovani che vengono da lontano per frequentare la scuola e vi tengono incontri di formazione umana e religiosa, insieme a corsi di lingua inglese.
«Non siamo venuti con progetti di strutture per opere sociali, necessarie in altre zone, come Meki, per poi annunciare il vangelo – spiega suor Lena Emilia -. Vogliamo stare con la gente e dare priorità all’evangelizzazione; eventualmente, le attività sociali verranno in seguito».
Tale esperienza è possibile per il fatto che i due missionari destinati a Shambu, abba Johannes e abba Teklu, sono etiopici, entrambi di etnia oromo, e non hanno bisogno di permessi governativi per svolgere attività esclusivamente religiose.
DAL VECCHIO
AL NUOVO TESTAMENTO
«Visitando le famiglie – racconta abba Johannes -, abbiamo trovato una società rimasta all’Antico Testamento, in una tremenda ignoranza religiosa, terrorizzata da superstizioni, anche se la maggioranza della gente è battezzata. Unico punto di riferimento della loro religiosità è il tabot. La prima domanda che ci hanno fatto è se lo abbiamo anche noi».
Nella mentalità etiopica non c’è vera chiesa senza tabot, ma la gente non sa dire cosa sia e quale funzione abbia. Portato in processione, sul capo del pope, avvolto in drappi e veli multicolori, il tabot è oggetto di venerazione e di mistero: non si vede, non si tocca, non lo si può avvicinare.
«Per inaugurare la cappella – continua abba Johannes – abbiamo portato il nostro tabot: una pietra benedetta dal vescovo e ben addobbata. E da qui siamo partiti per iniziare la nostra catechesi, spiegando che esso è simbolo della presenza di Dio e ricorda l’arca dell’antica alleanza, dove venivano conservate le tavole della legge, la manna e il bastone di Aronne. Tutto questo per concludere che, ora, il nostro tabot è Cristo Gesù, morto e risorto, presente nell’eucaristia».
«Quest’anno, per la festa del tabot – continua suor Lena Emilia -, alla celebrazione della messa è seguita la processione col Santissimo, invitando i fedeli a riconoscere la vera presenza di Dio. “Finalmente sappiamo che cosa è il tabot” ha detto la gente entusiasta, contemplando l’ostensorio senza veli».
«È solo il primo passo – continua abba Johannes -. Ci vorranno anni prima di passare dal Vecchio al Nuovo Testamento, specialmente tra gli adulti». I giovani sono più aperti e desiderosi di conoscere la fede. Fanno domande profonde e impegnative. Già 27 di essi, ragazzi e ragazze, dopo un’adeguata catechesi, hanno ricevuto la prima comunione.
GUERRA AL MALIGNO
La sfida più grande è la superstizione. Gli higgu credono che in ogni famiglia ci sia uno spirito da tenere a bada e ricorrono all’indovino, che ordina loro cosa fare per placarlo: offrire sacrifici di animali presso determinati alberi, fonti, fiumi e montagne.
Tale credenza alimenta la schiavitù del terrore e dissangua le famiglie, costrette a spendere gli scarsi introiti per comperare gli animali da sacrificare e pagare l’indovino. In tutti gli angoli delle case, poi, sono sparsi amuleti d’ogni genere, recipienti con latte, sangue animale e altre offerte per lo spirito.
E sembra che tali spiriti inseguino la gente fino in chiesa. «Abbiamo tanti casi di isteria» osserva timidamente suor Lena Emilia. E seguono racconti impressionanti di donne e ragazze che, appena entrano nel recinto della cappella, cominciano a dimenarsi e urlare come forsennate; e solo dopo lunghe preghiere di tutta la comunità e abbondanti aspersioni di acqua benedetta ritornano normali.
A volte tali fenomeni capitano all’inizio della messa, allora il male può diventare contagioso: scacciato da una persona, lo spirito si impossessa di un’altra. Abba Johannes non ha dubbi: si tratta di possessione diabolica. E quando egli accenna alla storia di Drrebe, anche suor Lena Emilia sembra vacillare nella sua spiegazione razionale.
«È una bella ragazza – continua la suora -. Un giorno venne in chiesa con occhi stralunati; all’inizio della celebrazione eucaristica cominciò a gridare con una voce caveosa, da uomo: “Io possedevo già sua madre. Questa ragazza non la lascerò mai. Se mi cacciate, toerò di nuovo da sua madre”».
«Era un demonio amara – incalza abba Johannes -. La giovane raccontò tutta la sua storia parlando in amarico, lingua che non conosceva e non aveva mai parlato in vita sua».
Dopo un’ora di preghiere, esorcismi e aspersioni la giovane ritoò normale. Fu accompagnata a casa, dove la madre, vedendola tornare insieme a tanta gente, cominciò a gridare come una disperata. Quando anch’essa si calmò, furono raccolti tutti gli amuleti della casa e bruciati nel cortile. «Ora la ragazza è felice e sorridente come non era stata mai» conclude suor Lena Emilia.
Abba Teklu ricorda il caso del mago Negheri. Malato e debole, non prendeva cibo da vari giorni, quando alcuni cristiani lo invitarono a cambiare vita e venire in chiesa. «Appena il coro intonò il canto di inizio della messa – racconta abba Teklu -, il vecchio cominciò a danzare e si portò di fronte all’assemblea, gridando e gesticolando come un ossesso. Tre giovani riuscirono a stento a portarlo fuori dalla cappella: dieci minuti di preghiera furono sufficienti a farlo ritornare in sé. Toò in chiesa calmo come un angioletto».
Dopo la messa raccontò la sua storia e disse che si sentiva libero finalmente. Ma per completare l’opera, lo accompagnarono a casa, dove radunò tutti i suoi amuleti, ne fece un bel mucchio e vi appiccò il fuoco.
«Ora è sano e vegeto; sempre primo ad arrivare in chiesa, insieme a tutta la famiglia, che nel frattempo è stata battezzata» conclude abba Johannes.
SFIDE E SPERANZE
La liberazione dalla paura è una sfida difficile e impegnativa, ma già si raccoglie qualche frutto. «Nei primi tempi, quando visitavamo le famiglie – racconta suor Lena Emilia – donne e ragazze scappavano o rimanevano chiuse in casa; incontrandole per strada, non si riusciva a guardarle in faccia; ora salutano, sorridono, parlano come persone normali. All’inizio venivano in chiesa solo gli uomini; oggi essi portano tutta la famiglia». Il lavoro non è facile, specialmente tra gli adulti che, per mentalità e abitudini ancestrali, hanno un concetto utilitaristico della fede e ricorrono numerosi alle benedizioni e preghiere del prete per essere liberati dal malocchio e altre diavolerie. Più facile, invece è lavorare con i giovani. Tenendo presente che Shambu conta 9 mila studenti di scuola elementare e secondaria, è chiaro che il campo di lavoro è sterminato.
Ma nel centro di Shambu, il lavoro è praticamente impossibile, anche se missionari e missionarie sono ben voluti dalla gente: la loro presenza è sgradita ai preti ortodossi che, con prediche e proiezioni di video-cassette, dipingono la chiesa cattolica come incarnazione del male e arrivano a proibire i loro fedeli di salutare padri e suore.
Fuori del paese, nelle campagne e nelle zone montagnose, non ci sono problemi; molti gruppi rurali chiedono la presenza dei missionari. Tra questi, a una sessantina di chilometri, vicino al Nilo Bianco, c’è Asendabo, una cittadina dove soggioò il cardinal Massaia. È in progetto di iniziare il lavoro missionario anche in quella zona e riprendere il lavoro del grande missionario: fa parte del carisma dei missionari della Consolata, fondati dal beato Giuseppe Allamano proprio per continuare l’opera del cardinal Massaia. •

Benedetto Bellesi

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