IMPARARE… PER SERVIRE

Il missionario novello atterra,
per esempio, a Maputo
(Mozambico). E che fa?
Certamente impara la lingua.
E poi? Prima di annunciare
il vangelo,deve capire.
Meglio «intelligere».

Sono un missionario fidei donum
di Brescia. Ho partecipato
con piacere al «Corso di inserimento
» in Mozambico, organizzato
presso il Centro pastorale di
Guiua, nella diocesi di Inhambane.
Eravamo in 36: religiose e religiosi,
sacerdoti e laici. Varia la provenienza:
Italia, Spagna, Portogallo,
Brasile, Angola, India, Argentina.
Tutti uniti nella fedeltà a Cristo e in
ascolto delle chiese locali, che vogliamo
servire ogni giorno.
Guidati da amici ed esperti, abbiamo
focalizzato i contenuti dell’azione
missionaria di Gesù Cristo. In
lui «il volto della missione» è chiaro,
come pure lo stile: è quello dell’incarnazione,
che non ha niente a che
vedere con le violenze estee, che
stravolgono tutto. L’incarnazione richiede
rispetto e pazienza, se si vuole
che il «seme» cresca e maturi.
Infine abbiamo condiviso le motivazioni
del nostro annuncio, già tutte
contenute nella vita del Maestro:
bellezza, verità, amore.

Quando si partecipa
a un evento bello, lo si racconta;
quando si conosce un fatto vero, lo si
annuncia; quando si gusta l’ebbrezza
dell’amore puro, lo si condivide.
Il lavoro di analisi e sintesi è stato
alimentato da un’intensa preghiera
liturgica. La preghiera è il respiro
della missione. L’evangelizzatore è
un contemplativo in azione e un attivo
in contemplazione. Questo ci ricorda
la vocazione alla santità. La
santità poi va fatta risplendere nella
multicolore sapienza di Dio (cfr. Ef
3, 10). Solo se vivremo plasmati dal
magistero e dalla logica della preghiera,
potremo invitare a credere in
Gesù Cristo.

Oltre ad essere
«un dimorare con il Signore», la
missione è pure un andare verso i
fratelli e sorelle che vivono in terre
lontane.
Però l’annuncio del vangelo non
può essere improvvisato. È vero che
la parola annunciata ha in sé tutta la
sua efficacia; ma è altrettanto vero
che, per essere buoni missionari, è
necessario amare, conoscere e valorizzare
la persona che s’incontra e il
contesto culturale nel quale l’annuncio
risuona, soprattutto quando
recano il sigillo della differenza. In
tutto questo il corso ci è stato di valido
aiuto.
Parlare dell’Africa e degli africani
non è facile. Sono realtà complesse,
che presentano stratificazioni di
tempi e, pertanto, differenti culture.
Sono realtà instabili, perché animate
e attraversate da fatti molteplici e
a volte contraddittori. La tradizione
africana, pur affondando le radici in
un humus vitale comune, si presenta
con varietà di forme: visione della
vita, simboli sacri, proibizioni morali e religiose, costumi che cambiano
da gruppo a gruppo e da villaggio
a villaggio. Così è delle persone.
L’Africa è molto interculturale a livello
nazionale e locale. Ogni nazione
e luogo influenza i comportamenti
personali. Sulle persone ci sono
state date indicazioni precise e
dettagliate circa la nascita, crescita,
riti di iniziazione, maturità, matrimonio,
scelta di consacrazione, malattia
e morte. La questione femminile
è particolare.
Una speciale
attenzione è stata riservata alle religioni
tradizionali. Il mondo religioso
africano è complesso. Tale complessità
deriva dall’esperienza in sé
stessa, dai tentativi teorici messi in atto
per spiegarlo, dal vasto ambiente
sociale in cui si esplica, dagli interessi
culturali che suscita. Ciò che più ci
ha fatto riflettere è il valore e l’influsso
della tradizione, che non deve
essere minimizzata.
La religione africana è di natura
esperienziale, non teorica. Si esprime
con un vocabolario teologico
preso dalla vita vissuta in un preciso
contesto geografico. Si tratta di esperienze
senza «autori», prive di strutture
cultuali chiare, prive di libri sacri:
perciò è difficile evidenziae gli
aspetti dottrinali e determinare i
contenuti.
Per qualificare il fenomeno religioso,
si raccomanda di respingere i
termini feticismo, animismo, paganesimo,
antenatismo, totemismo.
L’africano crede in due mondi, uno
visibile e l’altro invisibile, e nella loro
interazione. Crede nella comunità
gerarchizzata e, soprattutto, in un
Essere supremo, creatore e padre di
tutto ciò che esiste.
Con questa ricchezza il cristianesimo
deve dialogare. Nel dialogo ciascuno
dovrà donare non tanto idee
e dottrine, ma storie vissute. Il dialogo
richiede di esprimersi con parole
e gesti autentici, che sappiano porre
a confronto tutta la propria storia di
fede. Il passato emerge con grandezza
e forza. Chi oggi non ricorda
ciò che lo ha preceduto ieri (antenati,
eventi…) vive senza meta.

Sono state illustrate
le dinamiche e problematiche della
vitalità ecclesiale odiea.
La chiesa in Africa è chiamata ad
essere «chiesa-famiglia», ambiente
dove Dio riunisce i suoi figli dispersi
nel mondo (Gv 11,52), luogo dove
coloro che invocano Gesù Cristo
(2 Cor 1,2) si accolgono reciprocamente
come dono di Dio (Gv 17,6-
24) per vivere l’amore del Padre e
del Figlio; luogo di vita caratterizzato
dalla premura verso l’altro, solidarietà,
calore delle relazioni, accoglienza
e fiducia.
Per rendere incisiva l’evangelizzazione,
i vescovi mozambicani sollecitano
la creazione di «piccole comunità
cristiane»: cellule di base ecclesiale,
progetto per un’autonomia
delle giovani chiese e punto di riferimento
per una pastorale a dimensione
d’uomo.
In tali comunità tutti sono chiamati
ad essere responsabili; esse sono
luoghi di convivenza quotidiana
e aiutano a vincere i tribalismi; stimolano
a cogliere i segni dei tempi
nel contesto sociopolitico del paese.
Il laico, con la grazia di Cristo, è una
pietra angolare della nuova costruzione.

Ringrazio il Signore
per il Corso di inserimento in
Mozambico. Esprimo gratitudine,
soprattutto perché si è svolto a
Guiua, una località dove alcuni cristiani
sono stati martirizzati per la fede
(*). Pregando sulle loro tombe
pensavo: la missione avanza lentamente
all’insegna della croce e da essa
si caratterizza.
Essere missionari significa credere
che la chiesa cresce con la testimonianza
del martirio.
Anche del mio martirio.
(*) Ai 24 catechisti, martirizzati
in Mozambico il 22 marzo 1992,
Missioni Consolata di Marzo 2002
ha dedicato un dossier.

Adriano Dabellani

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